Mallorca y Menorca mas – 2a parte
Ci fermiamo dapprima a Torrellafuda, un altro sito archeologico, con una torre di pietre a secco su una piccola altura in mezzo ai lecci. Proseguiamo fino ad Alaior, dove pieghiamo speranzosi verso il mare, cioè verso Calascoves, che dovrebbe abbinare mare e caverne preistoriche. Ma il cielo non si apre e la spiaggia di Calascoves si rivela essere pochi metri di sabbia coperti di alghe puzzolenti. Prendiamo un sentiero sulle rocce, curiosiamo in qualche caverna (grandi camere circolari, con all’interno spesso una colonna monolitica), e arriviamo ad un’altra linguetta di spiaggia altrettanto brutta in un’insenatura laterale. Decidiamo di fermarci comunque, sperando in un miglioramento del tempo, e ci troviamo una sistemazione non troppo scomoda sugli scogli. Gente in giro c’è n’è poca, qualche barca ancorata (come al solito) al riparo delle insenature. Ci spogliamo volenterosamente; per fare il bagno aspettiamo i rari occhieggiamenti del sole tra le nuvole: bisogna scendere al mare tra le rocce ma si rivela meno difficile del previsto. Tento bagni con maschera e boccaglio, ma in tutti i primi giorni (cioè quasi tutti, considerata la lunghezza della vacanza) ho dei problemi perché l’acqua penetra nell’alloggiamento del naso e mi ritrovo con le narici piene d’acqua e la voglia di svuotarle. Guardandolo meglio, e soprattutto quando il sole fa la sua comparsa, il posto è molto meno brutto di quanto sembrava all’inizio, anzi. Arriva una coppia di giovani che scendono agli scogli alla nostra destra: lei arriva in gonnellino già a seno nudo e in breve si spogliano completamente, giocano in acqua e fanno gli innamorati sugli scogli.
Noi ripartiamo e ci dirigiamo stavolta verso Binibeca, che abbiamo letto essere un bel paesino. Sulla strada raccogliamo due giovani autostoppiste, anche loro dirette a Binibeca. Tornano dalla spiaggia, ci dicono di essere argentine e di essere qui per lavoro. Una delle due ci dice di avere anche il passaporto italiano; le chiedo se parla l’italiano ma lei dice che lo capisce ma non lo parla praticamente per niente. Le lasciamo all’inizio di Binibeca e andiamo a fare un giro. Binibeca è un villaggio turistico costruito in un eclettico stile minorchino-andaluso-nordafricano, con case candide e viottoli tipo vecchia città di pescatori. In realtà è tutto nuovo e le abitazioni hanno l’aspetto molto costoso (impressione accentuata dai cartelli nei vicoli che impongono lussuosa discrezione: “silencio por favor”). Ci mettiamo un attimo per capire come funziona, perché fatte poche decine di metri siamo già fuori dal paese: torniamo sui nostri passi e ci addentriamo nei vicoli: in effetti l’agglomerato è piccolo e molto raccolto. Compriamo una lattina di limonata Kas in un negozio in cui sbagliano a darmi il resto (ci guadagniamo la lattina e 1 euro extra), ci dissetiamo e ci spostiamo di poco, fino alla spiaggia di Binibeca, dove ci facciamo un bagnetto e ci asciughiamo al sole tardivo del pomeriggio.
Il programma, essendo oggi il compleanno di Alessandra, sarebbe stato quello di concedersi una caldereta de langosta al porto di Ciutadella, ma ormai essendo già qui vale la pena di spingersi fino a Maò, da cui siamo distanti solo una decina di chilometri. Rinviamo quindi la caldereta ad un’altra sera e raggiungiamo la città. Parcheggiamo in una strada del centro, in cui sta per scadere il limite orario del parcheggio a pagamento, e cerchiamo di ricomporci in un’immagine più cittadina, cambiandoci le scarpette di plastica da mare con i mocassini e allungando i pantaloni corti che si trasformano in lunghi agganciando le gambe con le cerniere. Alessandra è attratta dalla pubblicità di un’azienda telefonica, che promette cellulari a 69 euro (il nostro ormai è sempre meno affidabile) e ricariche gratuite per 30 + 20 euro). Rinunciamo ad approfondire e facciamo un giro per il centro del capoluogo dell’isola (un tempo lo era Ciutadella, che ne conserva maggiore dignità), affacciato dall’alto su un fiordo che rappresenta il più grande porto naturale del mondo dopo Pearl Harbour. Maò non ci fa una grande impressione; qualche palazzo interessante ma in un contesto urbano molto meno compatto, omogeneo e coerente rispetto a Ciutadella, qualche chiesa moderatamente interessante, il chiostro della chiesa principale trasformato in un mercato con tanti negozi e il cinema all’aperto (i mercanti nel tempio!), una bella porta d’aspetto medievale. Visitiamo anche una mostra di pittura, Ana Jordì che dipinge muri piastrellati con azulejos e brocche. Ristoranti in zona pochi e poco interessanti: decidiamo così di saggiare il terreno nella zona che si affaccia direttamente sul fiordo, più in basso. Scendiamo con la macchina e ci fermiamo quando vediamo una concentrazione soddisfacente di ristoranti. Parcheggiata la macchina a fianco del marciapiede ci avviciniamo alla lista del ristorante più vicino, il “Portobello”, e una ragazza del ristorante dopo averci sentito parlare ci apostrofa chiedendoci “Italiani? Io sono argentina!”. La guardiamo in faccia e la riconosco immediatamente: è la ragazza argentina-italiana cui abbiamo dato un passaggio nel pomeriggio, ad una quindicina di chilometri da Maò e per Binibeca! Ci riconosciamo a vicenda ridendo (“que casualidad!”); lei ha sul petto una targhetta che la identifica come “Agustina”. Le diciamo che facciamo quattro passi e poi magari torniamo. Torniamo, infatti, dopo pochi minuti, poiché la lista del Portobello ci sembra quella con i prezzi migliori rispetto all’offerta. Alessandra sceglie la paella con riso nero e io un trancio di pesce spada. Mangiamo abbastanza bene; la paella è al nero di seppia con una gradevole oleosità. Commentiamo il rincontro con Agustina, concordando che se avessimo visto una coincidenza del genere in un film avremmo stentato a crederci, e rievochiamo incontri ripetuti in occasione di altri viaggi.
Paghiamo 28,68 euro di conto e partiamo alla volta di Ciutadella. Ad Alessandra piacerebbe mettere alla prova i 1900 cavalli e il turbo-diesel della sua Golf, ma le sue aspirazioni vengono frustrate. La strada è quasi sempre ad una sola corsia, e il traffico è modesto ma diffuso. Stenta a superare i 100, e come guidatrice le rimane qualche rimpianto.
27 agosto MENORCA: Ciutadella – Macarella – Macarelleta – Ciutadella Decidiamo cha stavolta si punta su Macarella, qualsiasi tempo ci sia. Tra l’altro stamattina siamo svegli abbastanza presto: nella via sulla quale si affaccia il nostro balcone sono in corso dei lavori edilizi e in diverse mattine veniamo svegliati dallo spiacevole rumore dei camion, delle macchine e dei martelli pneumatici.
Dopo i soliti preparativi – zainetti, colazione in camera, spesa al Diskont, partiamo fiduciosi. La strada per un pezzo è quella che va alle cale di Turqueta e Son Saura, poi ad un bivio si tiene la sinistra e si prosegue per stradine rurali strette tra muretti a secco, dove passa una sola macchina, a volte si riesce ad incrociarsi, spesso bisogna fermarsi o retrocedere fino alla prima piazzola e lasciar passare. Spesso poi, andando verso le spiagge, le strade diventano sterrate; non cambia molto in termini di fondo stradale (le strade asfaltate spesso hanno buche scassamacchine a tradimento che impongono prudenza – io mi impegno nel ruolo di navigatore), ma il paesaggio diventa surreale perché oltre la strada polverosa bianca e i muretti a secco biancastri si affaccia una vegetazione intristita da una patina di polvere, ingrigita come da un maleficio. Ci chiediamo come facciano gli alberi a respirare; probabilmente li salvano le foglie più in alto o quelle più all’interno che accumulano meno polvere. Non che di macchine se ne vedano passare tante; spesso si ha l’impressione, dopo aver percorso stradine, stradine sterrate, sentieri a piedi, che in spiaggia si sarà soli perché si ha incontrato nessuno o quasi; impressione errata, ché poi in spiaggia di gente generalmente se ne trova parecchia.
Stavolta succede una cosa strana: sappiamo che a Macarella si paga un pedaggio, ma arrivati ad un certo punto della stradina ci troviamo davanti ad un cancello con davanti due persone: un tipo in divisa seduto su una sedia ed una ragazza che si avvicina al nostro finestrino, ci saluta e ci informa che entrando a questo parcheggio, vicino alla spiaggia, si pagano i 5 euro, ma se si prosegue lungo la strada si trova un altro parcheggio gratuito dal quale si arriva alla spiaggia con 15/20 minuti di cammino. Ringraziamo e ripartiamo, senza saperci spiegare chi e come mai tenga una persona davanti al parcheggio a pagamento per dirottare le macchine al parcheggio gratuito. Boh. Comunque in un paio di minuti di sterrato raggiungiamo un ampio spazio dove lasciamo la macchina e da lì ci incamminiamo per un largo sentiero immerso tra la vegetazione fittissima che scende verso il mare invisibile. Capiamo di essere vicini al mare quando cominciamo a vedere scogliere di roccia fare capolino tra la vegetazione. Sbuchiamo dietro il bar della spiaggia e con una scala di legno scendiamo sulla sabbia di Macarella: una bella spiaggia abbastanza grande, tra due scogliere, il mare verde e la pineta. Decidiamo subito di non fermarci e di proseguire subito verso Macarelleta. Non si prende la scala di legno sulla sinistra della spiaggia, ma si sale invece sulla destra, come ci confermano due signori che ci precedono. Bisogna in pratica scavalcare o aggirare un promontorio di roccia che divide l’insenatura di Macarella da quella laterale e perpendicolare di Macarelleta: si sale sulle rocce, superando qualche passaggio un po’ stretto o un po’ disagevole e in un tratto salendo su gradini naturali sulla roccia ripida aiutandosi con una corda. Io non farei molto di più, ma poi vedrò fare il percorso a donne di una certa età, bambini, padri di famiglia carichi di borse, borsette e materassini. Dall’altra parte si scende sempre su terreno roccioso verso Macarelleta, sulla quale si apre una splendida vista: la baia appare al di sotto, tra i pini, con la piccola spiaggia biancheggiante stretta tra le scogliere, il mare verde e trasparente, e la pineta alle spalle. Un sogno. Scarpiniamo lungo l’ultima discesa tra le rocce e arriviamo alla spiaggia. Siamo arrivati relativamente presto e sulla spiaggia c’è ancora poca gente; sistemiamo gli asciugamani vicino alla scogliera in fondo alla spiaggia e ci spogliamo. La spiaggia e il mare sono bellissimi, e la relativa difficoltà per arrivarci fa sì che sia frequentata da gente giovane o quasi, riducendo al minimo per selezione naturale la presenza di famiglie con bambini e anziani. Scopriamo in realtà che la spiaggia è abitata da una colonia stanziale composta da uomini e donne che vivono qui, cioè tra la spiaggia e la pineta retrostante dove si intravedono tende ed amache. Evidentemente devono essersi organizzati per gli approvvigionamenti di viveri ed acqua e passano qui anche la notte. Sono una sorta di post-hippie, alcuni dei quali passano la giornata in spiaggia intrecciando treccine o componendo collanine, esattamente come da stereotipo. Tutti sono generalmente nudi (ma si usa molto, sia per gli uomini che per le donne, una cintura da portare in vita fatta di stringhe intrecciate con infilate pietre, perline o conchiglie) salvo pezzi di abbigliamento casuali e occasionali, e ogni tanto qualcuno emerge dal bosco per venire al mare a risciacquare una padella o per inumidire lo spazzolino da denti. Del gruppo fanno parte anche alcuni cani (naturalmente: sono miti e simpatici, un grosso pastore tedesco però ha l’abitudine di attraversare la spiaggia senza la minima attenzione a quanto gli capita sotto le zampe, borse, asciugamani, vestiti, ecc.) e un ragazzo con una gamba troncata sopra il ginocchio, che si muove agilmente sulla spiaggia con le stampelle o senza, saltellando su un piede solo con un equilibrio stupefacente. E’ uno di quelli che ogni tanto sale in barca per spostarsi a Macarella, probabilmente per fare provviste, e nel frattempo trova modo di esibirsi in una verticale a testa in giù sulla sabbia.
Riesco a fare forse i primi bagni belli utilizzando la maschera; non so se non mi entra più acqua nel naso o se ho imparato a fare finta di niente. A sinistra si vede poco, ma a destra lungo la scogliera si incontrano un sacco di pesci. Nel mare di Menorca ho visto pesci grandi e piccoli, i soliti piatti col bollino nero sulla coda, quelli a righe verticali, altri più allungati con strisce orizzontali rossigne, altri con i riflessi e con l’interno della pinna branchiale giallo vivo, altri tigrati irregolarmente, altri con gli occhi un po’ sporgenti, altri minuscoli, altri vicini alla superficie, altri a banchi, ecc.
Leggiamo, mangiamo, nuotiamo, prendiamo il sole (Alessandra anche l’ombra), guardiamo gli altri bagnanti; più o meno la percentuale tra quelli in costume e quelli senza è di metà e metà.
Alessandra si sente sfidata da tutti i cruciverba più astrusi e difficili de “La settimana enigmistica”, e unendo le forze in genere riusciamo sempre a completarli, ma stavolta un paio ci impegnano oltre misura.
Dopo l’ennesimo bagno torniamo a sdraiarci sugli asciugamani e proprio lì accanto ci sono due delle ragazze (manca la più giovane) conosciute all’Hogar del Pollo! Que casualidad! “El mundo es pequeño”, azzardo il luogo comune transnazionale; loro sono insieme ad una terza amica che ribatte “Y la isla mas”. E’ strano, ma tutto sommato non imbarazzante, ritrovarsi con gente conosciuta al ristorante, ora tutti completamente nudi. Scambiamo quattro chiacchiere; a noi la spiaggia piace molto ma loro storcono un po’ il naso perché trovano che ci sia troppa gente. Poterci venire – e loro probabilmente possono – quando c’è ne di meno indubbiamente sarebbe meglio, ma tant’è. Rimaniamo finché il sole non si abbassa sui pini dietro la spiaggia; quindi rifacciamo i nostri bagagli e ci inerpichiamo sulla scogliera, dove qualcuno a vernice nera e gialla ha scritto “NUDE”. Alessandra si è studiata tutto il tragitto della risalita dalla spiaggia, ma poi seguiamo due davanti a noi e sbagliamo. Ad un certo punto ci troviamo sulla sommità del promontorio, e abbiamo paura che per scendere dobbiamo tornare indietro. Per fortuna non è così, troviamo un sentiero che poi si ricongiunge sull’altro versante a quello conosciuto e ridiscendiamo a Macarella facendo attenzione a non scivolare sulle rocce lisce con le nostre suole di plastica.
Attraversata Macarella, rifacciamo (in salita) la strada tra la pineta impenetrabile fino al parcheggio e ritorniamo a Ciutadella tra campi e muretti a secco.
Dopo la doccia e la vestizione usciamo e ci dirigiamo decisi verso il Corb Marì, uno dei ristoranti del porto, l’unico che offra la caldereta de langosta all’interno di un menù a 30 euro che inoltre comprende da bere e il dolce (sulle liste degli altri ristoranti la caldereta è data a 57/60 euro). Anche così è uno strappo alle regole del nostro budget, ma ce lo concediamo anche per festeggiare con un giorno di ritardo il compleanno di Alessandra. Ordiniamo anche una pechuga de pollo con salsa; la caldereta comunque comprende mezza aragosta e una quantità di brodo sufficiente per entrambi; è buona, anche se entrambi – e io in particolare, anche per il fastidio di doverli sgusciare – non andiamo pazzi per i crostacei. Concludiamo con i dessert: per me un helado de turron con chocolate, che però non regge al confronto con la mitica tarta de Santiago… 28 luglio MENORCA: Ciutadella – Platja de Cavalleria – Cap de Cavalleria – Ciutadella Per prima cosa tentiamo di prenotare una camera all’Apuntadores per la notte del 31. Mi rispondono di no, ma solo dopo che mi hanno fatto dire che ci fermeremmo una sola notte. Proviamo allora il Ritzi, un hostal che ha il portone proprio accanto all’Apuntadores. Una signora gentile mi prende la prenotazione, raccomandandosi solo di telefonare il giorno prima per dare la conferma.
Quindi partiamo verso la spiaggia di Cavalleria, sulla costa nord. Come al solito le indicazioni stradali sono buone, la strada fino ad un certo punto la conosciamo già perché è la stessa che porta a Cala Pregonda, e non abbiamo difficoltà a raggiungerla. Lasciamo la macchina in un parcheggio gratuito e scendiamo verso la spiaggia, che vista dall’alto è molto bella: un lungo arco di sabbia dorato diviso al centro da una punta che si protende leggermente verso il mare, protetta da uno scoglio. Sulla destra la scogliera è rossastra. Si scende agevolmente e raggiungiamo la seconda metà della spiaggia: in effetti si crea una specie di divisione spontanea tra la parte che si raggiunge prima, dove si fermano quelli che vogliono rimanere in costume, e la parte più lontana, raggiunta da quelli che se lo vogliono togliere. Alessandra rimpiange di non aver comprato l’ombrellone (frenata anche dalla mia passività): la spiaggia è priva di vegetazione, di costruzioni e di ripari e prevede che tra un po’ comincerà ad avere problemi di caldo e di insolazione. Prima sistemiamo le vivande e le bibite in una cavità di una roccia, per ripararle, e ci rinfreschiamo con qualche bagno, poi mi do’ da fare per cercarle un posticino all’ombra: la scogliera in fondo offre un riparo infinitesimale che dovrebbe però aumentare con lo spostarsi del sole nel cielo; ma alla fine Alessandra preferisce sistemarsi a ridosso di una roccia a metà spiaggia, la quale con il passare delle ore si sforzerà di dare un po’ di riparo. Accanto c’è un palo di legno con una cassetta per il pronto soccorso, e dico ad Alessandra come battuta che deve essere pronta a spostarsi in caso di bisogno. E non molto tempo dopo il bisogno si verifica sul serio: un ragazzo ci chiede se possiamo spostarci perché una signora è stata pizzicata (morsa? urticata? punta?) da una medusa. Poco prima in uno dei miei bagni con maschera ne avevo vista una, una piccola medusa grossa come un pugno e con la cappella maculata che mi aveva fatto cambiare immediatamente direzione. La signora sopraggiunge, con aria stoica e con una coscia vivacemente infiammata. Nella cassetta non c’è nulla che faccia al caso – strano, credo che sia uno degli incidenti più comuni che possano capitare – e il ragazzo informa la signora, che non ne è molto contenta, che si può orinare sopra l’infiammazione per mitigarla. Quando, al termine della giornata, dopo aver raccolto le nostre masserizie, ci incamminiamo sulla spiaggia sulla via del ritorno, ci imbattiamo in una nuova emergenza sanitaria, stavolta più drammatica: due ragazzi stanno riportando dalla battigia un terzo ragazzo che sembra non potersi reggere in piedi. Ci fermiamo a guardare mentre lo adagiano a sedere su un asciugamano: inizialmente non riusciamo a capire cosa gli sia successo e pensiamo che si sia fatto male in acqua, poi Alessandra capisce che si tratta di una crisi ipoglicemica in un soggetto diabetico. La sua compagna gli infila qualcosa in bocca per misurare il livello di glucosio, poi gli fanno bere una Coca Cola; lui ha ancora abbastanza forza per aiutarsi a reggere la lattina. Non possiamo fare niente; mentre risaliamo sul promontorio ascoltiamo la telefonata di due che sono saliti quassù a chiamare perché evidentemente da giù il cellulare non prendeva: lei chiede di mandare un’ambulanza, ma subito, perché il ragazzo è molto grave e sta morendo, l’altro la esorta a richiedere l’intervento di un elicottero, perché un’ambulanza avrebbe dei problemi a giungere quaggiù. Risalendo verso il parcheggio incrociamo due poliziotti, un ragazzo e una ragazza, che discendono il sentiero correndo; al parcheggio qualcuno recupera dalla macchina qualche confezione di succo di frutta che potrebbe fornire ulteriori zuccheri. Non vediamo segni dell’arrivo di medici né di ambulanze e ce ne andiamo rattristati senza sapere come andrà a finire. Nei giorni seguenti guarderemo le prime pagine dei quotidiani locali, che non hanno molto da scrivere: riportano la notizia di un anziano morto per il calore, ma non di un giovane in come diabetico, e così ci autoconvinciamo con qualche elemento che se la sia cavata.
Noi in macchina puntiamo verso Cap de Cavalleria, che abbiamo letto essere un buon punto per vedere il tramonto. Il paesaggio verso il capo è di promontori e insenature, che, nella luce calante, mi ricorda paesaggi scozzesi. In breve arriviamo al capo, con un bel faro proteso verso il mare sulle scogliere, e camminiamo sul terreno roccioso tra altri romantici e fotografi in attesa del tramonto. C’è una bella vista sulle scogliere, sulla costa, sul mare, sull’isolotto di fronte dietro il quale il sole cala, restringendosi e disseminando scaglie di luce sul mare che assume via via tonalità fredde. Scattiamo qualche foto, ci scambiamo qualche schermaglia e da una coppia di spagnoli impariamo una nuova esclamazione ammirativa: “que chulo!”.
Sulla via del ritorno, mentre imbrunisce, ci fermiamo a Ferreries in cerca di un ristorante consigliato dalla guida. La guida è vecchia di qualche anno, il ristorante ha cambiato nome e non espone lista. Ritorniamo a Ciutadella e puntiamo direttamente sull’Hogar del Pollo, dove ordiniamo tapas variadas. Non ci sono ragazze spagnole al nostro tavolo, stasera, e non perdo l’agendina; non c’è neppure il simpatico cameriere Mateo, ma una ragazza esile e gentile che quando ordino la sublime torta di Santiago mi abbandona sul tavolo la bottiglia di “Mes amores” di cui approfitto per ubriacare fino al parossismo la mia fetta di torta.
29 luglio MENORCA: Ciutadella – Mitjana – Mitjaneta – Naveta des Tudons – Ciutadella Facciamo scorrere la lista delle spiagge minorchine più gettonate, e oggi tocca a Mitjana. Una strada non asfaltata arriva in prossimità della spiaggia e come spesso succede l’illusione di essere quasi soli svanisce una volta entrati in spiaggia. La relativa facilità d’accesso porta qui famiglie, bambini, anziani, pic nic; cerchiamo di appartarci a Mitjaneta, in una sub-caletta che si apre nella cala principale, ma la spiaggia praticamente non esiste: è una sottilissima strisciolina di sabbia chiara a ridosso delle rocce, continuamente lambita dalle onde che sconsigliano di sistemarvi un asciugamano. Stiamo un po’ appollaiati sulle rocce soprastanti, scendiamo a fare il bagno nella bell’acqua limpida e risaliamo per asciugarsi, ma il cielo si copre e addirittura comincia a piovere. Ci ricomponiamo e torniamo a Mitjana, da dove la gente sta sfollando sotto una pioggerellina fine ma apparentemente decisa. Ci fermiamo un po’ sotto gli alberi alle spalle della spiaggia, e dopo qualche minuto la pioggia cessa; in compenso la spiaggia si è svuotata di una metà dei suoi occupanti e prendiamo posto nell’angolo a destra, mentre nel cielo si alternano sole e nuvole.
Sulla via del ritorno ci fermiamo a vedere la Naveta des Tudons: in mezzo ad una campagna piatta sta, al centro di uno spazio circolare, una specie di chiglia di nave capovolta, tutta costruita in pietre a secco. E’ un edificio sepolcrale; all’estremità di prua c’è un’apertura e leggiamo che all’interno erano disposti più piani di sepolture.
La sera, ci manca l’ispirazione per cercare un buon posto per la cena; ci fermiamo sotto i portici del Quadraro, dove il piatto del giorno che ci aveva attirato non è disponibile e dove pranziamo al Can Magi a tapas (calamari, seppie, patate, spiedini) senza infamia né lode, serviti da un cameriere della categoria “genio della lampada” inventata da Alessandra durante il viaggio in Turchia. Sopra di noi, dalle finestre al primo piano, accompagna la nostra cena il ronzio sinistro di un attrezzo per fare tatuaggi.
30 luglio MENORCA: Ciutadella – Macarella – Macarelleta – Cala Brut – Los Delfinos – Ciutadella La fine del nostro soggiorno a Menorca è tristemente vicina, tant’è vero che durante la giornata dobbiamo ritelefonare all’hostal Ritzi per confermare la camera a Palma. Per la nostra ultima giornata di mare, decidiamo che vale la pena di replicare, e puntiamo su Macarelleta, che è la spiaggia che più mi è piaciuta, panoramicamente splendida, con un’acqua stupenda, una fine sabbia chiara, e inoltre appartata, giovane, alternativa, nudista. Al contrario di quanto spesso succede altrove, nei luoghi dove abbiamo trovato la possibilità di fare nudismo, a spogliarsi non sono solo o in prevalenza uomini; è normale qui vedere arrivare ragazze da sole o in compagnia di amiche che arrivano in spiaggia, si sfilano senza problemi canottiere e braghette e rimangono senza nulla indosso. E’ una bella giornata di sole e mare, con gli hippie intenti come al solito a intrecciare collanine e noi a leggere, fare bagni, prendere il sole (e l’ombra, al riparo della scogliera), e mangiare la nostra colazione al sacco e la nostra merenda con budino o crema catalana con zucchero che si dovrebbe caramellarsi istantaneamente. Poco dopo il nostro arrivo, assisto al passaggio sulla spiaggia di una coppia di giovani italiani. Lui si mette in costume e sembra trovarsi a proprio agio, ma lei si siede per terra, si abbraccia le ginocchia con le braccia, non si toglie né la gonna né la canottiera né i sandali né gli occhiali né il cappello. L’eloquenza del linguaggio del corpo: ben presto lui è costretto ad ammettere che l’atmosfera libera della spiaggia non è perfettamente confacente alle preferenze della sua compagna, e si rassegna a rifare i bagagli per lasciare il piccolo paradiso di Macarelleta. E’ già divertente così, ma lui ci aggiunge un ulteriore tocco di ironia involontaria, rendendo le fasi di preparazione alla partenza così lente, riluttanti, reticenti e prolungate da risultare comiche.
Rimaniamo finché il sole si abbassa sui pini dietro la spiaggia, poi risaliamo. Stavolta Alessandra si è applicata a studiare la strada giusta seguendo con lo sguardo dalla spiaggia quelli che vanno e vengono e così non sbagliamo. Addio Macarelleta.
Rientrando, giriamo con la macchina nei dintorni di Ciutadella: prima tentiamo sulla destra, verso Cala en Blanes; ci affacciamo sullo stretto e profondo fiordo di Cala Brut, dove mi inquieto sentendo cani latrare (Alessandra, più coraggiosa, non si inquieta per niente e mi informa che stanno latrando tra di loro per loro personali motivi), poi finiamo alle porte dell’urbanizzazione di Los Delfinos, dove tira l’aria di tutte le urbanizzazioni marittime del mondo, con ristoranti dai menù vistosi, negozi di articoli da spiaggia e strade affollate di turisti-bagnanti in tenuta adeguata, a piedi o con mezzi di locomozione parimenti adeguati. Facciamo quindi un secondo tentativo per arrivare al mare superando i quartieri conosciuti di Ciutadella: arriviamo così di fronte al mare, all’altezza della piccola fortezza in stile coloniale (è il castello di Sant Nicolau) che avevamo visto all’imboccatura del fiordo arrivando con il traghetto. Scatto qualche foto alla luce del tramonto e risaliamo per un pezzo il viale panoramico che sovrasta il fiordo: di qua e di là (ma soprattutto sulla sponda opposta a quella dove ci troviamo noi, a sinistra guardando Ciutadella in fondo al fiordo) sorgono ville lussuose e nello stesso tempo discrete, con muri e tetti di tegole candidi, portici e giardini curatissimi. Ci fermiamo ad un distributore per riempire di diesel il serbatoio, e salutiamo anche la Golf.
Infine, la sera, ripuliti e vestiti per andare a cenare, ci capita di incrociare in centro due coppie della comunità hippie della spiaggia, evidentemente calati in città per una serata civile. Passa un attimo, in cui si incrociano sguardi di riconoscimento; qualche giorno fa e qualche ora fa siamo stati gomito a gomito sulla spiaggia, senza neppure uno straccio di costume che facesse barriera tra di noi; eppure l’attimo trascorre senza che ci scambiamo un semplice cenno di saluto, come sarebbe naturale. Da parte mia me ne dispiaccio, e mi sento come se avessi tradito lo spirito di Macarelleta.
Andiamo a mangiare da Sa Figuera, un altro dei ristoranti affacciati sul porto, dove mangiamo bene tenendoci sulla solita spesa intorno ai 30 euro a coppia.
Sul Camì de Maò, ci fermiamo finalmente alla Torre de Papel, un locale alternativo e dall’aria politicamente corretta che sta poco prima del nostro albergo, attraversata la strada. Qui la torre non rappresenta l’incomunicabilità tra gli uomini e le razze, al contrario: il locale è tappezzato di libri e riviste stampati in diverse lingue del mondo. Alessandra prende un succo di frutta, e io una pomada, che vantano come una delle migliori della città: sorseggio la mia bibita scorrendo gli scaffali e sfogliando qualche volume, tra cui una “Critica dell’economia politica dei segni” di Baudrillard in lingua originale e un’antologia illustrata della letteratura libertina in italiano.
Alla reception dell’albergo c’è un omino cordiale, che ci parla delle spiagge di Menorca secondo lui più belle, e al quale consegniamo le chiavi della macchina, che quelli dell’autonoleggio passeranno a ritirare. Gli diciamo dove abbiamo lasciato parcheggiata la macchina, e lui tenta di prendere nota, ma l’ortografia lo confonde e alla fine desiste.
31 luglio MENORCA: Ciutadella / MALLORCA: Puerto d’Alcudia – Palma Completiamo i bagagli e lasciamo la nostra stanza dell’Alfonso III, dove siamo stati bene, qualche mattina siamo stati svegliati dai rumori stradali e non abbiamo mai ricevuto una bustina di shampoo o di bagno schiuma. Alla reception c’è una signora che ci stampa la fattura al computer. La somma è inferiore a quella che ci aspettavamo, paghiamo con la carta di credito e usciamo. Mentre Alessandra è in negozio a comprare formaggio menorchino e quant’altro, io rimango ad aspettarla in plaza de ses Palmares (una bella piazzetta con edifici speculari che aprono la prospettiva della città vecchia, senza porte né baluardi – qui semmai il pericolo veniva dal mare – e sulla quale si affaccia il Molì des Comte, ristrutturato, che ospita un bel bar che però la sera al ritorno dai ristoranti era sempre già chiuso) con i bagagli e rifletto sulla spesa, che non può essere così bassa perché ci ha fatto pagare sui 45 anziché sui 48 come preannunciato, tanto più che aggiungendo alla prima cifra il 7% di Iva si torna alla cifra iniziale: controllo la fattura e così scopro che malgrado le date di entrata e di uscita siano state inserite correttamente, è stato conteggiato un numero di sette notti anziché otto. Abbiamo pagato una notte in meno, con un risparmio di circa 48 euro. Ne informo Alessandra di ritorno dalla spesa, ed entrambi ci auguriamo che non si accorgano dell’errore. Riattraversiamo per l’ennesima volta le belle vie centrali di Ciutadella (mi fermo a fare qualche foto che avevo lasciato indietro) e scendiamo al porto, per renderci conto che siamo arrivati decisamente troppo presto: della nave non c’è l’ombra, la gente ad aspettare è pochissima e in più sulla banchina batte un sole splendente ed inesorabile. Approfittiamo della presenza di una coppia di giovani che sentiamo parlare in italiano e gli affidiamo i nostri bagagli in custodia mentre noi ce ne andiamo a fare un’ulteriore gironzolata per Ciutadella: il bacino piccolo del porto, le tranquillissime vie laterali splendenti di luce e insieme fresche d’ombra, la piazza della cattedrale, l’ufficio del turismo (dove una ragazza risponde in tanto buon italiano alle nostre domande sulla possibilità di affittare una stanza da privati da qualificarsi come italiana – il bed & breakfast, comunque, ci informa, qui non si usa: ci dà elenchi di agriturismi e hotel rurali) ed infine la piazza principale, occupata dal mercato. Gironzoliamo tra le bancarelle e compriamo due t-shirts carine per Nicolò e per Francesco. Torniamo infine al porto, anche per non sembrare maleducati con i due italiani che abbiamo lasciati legati ai nostri bagagli da custodire. Loro sembrano non ricordarsi neppure di noi. Lei sembra molto afflitta per qualche motivo e lui le parla serio. Aspettiamo ancora un po’ sotto una tenda candida che copre un angolino della banchina, poi la nave dell’Iscomar arriva e attracca. Alessandra sta guardando lo sbarco dei passeggeri quando mi chiama allarmata e divertita: dalla nave tra gli altri è sceso a balzelloni, in calzamaglia rosso-blu integrale che gli copre anche il viso e la testa, l’Uomo Ragno in carne ed ossa, con (armi e) bagagli.
Ci imbarchiamo; Alessandra si sistema nel salone a leggere e a (ri)guardare “Un giorno per caso” con Michelle Pfeiffer e Gorge Clooney che parlano in spagnolo, mentre io salgo in coperta a leggere il mio Saroyan e a prendere il sole. La raggiungo per la merenda e lei mi racconta di aver salvato la ragazza italiana cui avevamo lasciato in custodia i bagagli, che era rimasta bloccata in bagno e che lei ha aiutato ad uscire.
Mentre il traghetto si avvicina al porto di Alcudia, recuperiamo i bagagli e ci prepariamo allo sbarco; accanto a noi ci sono i due ragazzi italiani e cominciamo a chiacchierare: anche loro devono prendere il bus per Palma. Loro sono di Mestre e sono arrivati direttamente a Menorca dopo uno strano giro via Spagna insieme a dei loro amici, e non conoscono per nulla Mallorca. Noi sappiamo più o meno da dove parte il bus, e anche a che ora, grazie ai depliant dell’ufficio turistico: gli proponiamo quindi di seguirci, se vogliono tentare di prendere il bus delle 15.10, per il quale ci sono pochi minuti di tempo. Loro accettano di buon grado (sembrano meno tristi che sulla banchina del porto) e appena sbarcati cominciamo una marcia forzata trascinando i rispettivi trolley verso il centro, chiacchierando ma soprattutto marciando. Arriviamo alla fermata dell’autobus pochi minuti dopo l’orario previsto; per fortuna però il bus parte dalla parte opposta di Puerto d’Alcudia e quindi arriva poco dopo il nostro arrivo. Saliamo a bordo, facciamo i biglietti e prendiamo posti vicini. Alessandra ha messo via i libri, perché tanto è intenzionata e determinata a chiacchierare, e infatti chiacchieriamo, fittamente e simpaticamente, divertendoci a vicenda, soprattutto di viaggi che per noi rappresentano un argomento prediletto e pressoché inesauribile. Loro sono ammirati e un po’ invidiosi della quantità di mete che risulta abbiamo visitato. Noi d’altra parte siamo più vecchi di loro (lei ha 27 anni) e non abbiamo, per ora, avuto figli che frenassero la nostra voglia di viaggiare.
L’ora di viaggio verso Palma passa in un lampo; gli mostriamo di passaggio la Placa d’Espanya da dove devono prendere il bus per l’aeroporto, ci scambiamo gli indirizzi e-mail e ci salutiamo allegramente alla stazione degli autobus e poi poco dopo all’angolo di Placa d’Espanya, dove entrambi stiamo cercando l’autobus per le rispettive destinazioni. Loro ci ringraziano calorosamente (la quantità di saluti mi fa tornare in mente la comica in cui Stanlio e Ollio tentano continuamente di partire salutando con indimenticabili “Arivedorci”) ed effettivamente sembra che siamo riusciti a dissipare in maniera completa la cappa di tristezza che sembrava gravare su di loro all’imbarco a Ciutadella.
Noi prendiamo un autobus che ci porta nella zona della cattedrale e raggiungiamo il Ritzi attraverso vie conosciute. La reception dell’hostal è al primo piano, dove c’è una signora non molto simpatica che parla in inglese, vuole il pagamento anticipato (40 euro a notte) e ovviamente in contanti. L’aria giovanile e sbarazzina della clientela contrasta nettamente con la vetustà dell’edificio e dell’arredamento: vecchie scale e vecchi corridoi ci portano in una vecchia stanza, dove tutto sembra vecchio, rotto e stantio. Apparentemente, nulla di quello che si rompe viene riparato: il comò sta in piedi per miracolo su piedini spaventosamente inclinati, la tappezzeria si stacca dalle pareti, la piastra dell’interruttore della luce è in frantumi, la mensola sotto lo specchio è spezzata a metà in diagonale e così via. Le lenzuola e le federe comunque sembrano sufficientemente pulite e del resto non ci importa poi molto. Oltretutto la finestra-balcone dà su Apuntadores: ci affacciamo, siamo al terzo piano, chiamiamo, e arriva la nostra micina! sul tetto davanti e sopra di noi. La salutiamo, le lanciamo qualche formaggino e ci complimentiamo per il suo aspetto, che sembra più pulito e meno macilento rispetto a due settimane fa. Le diamo appuntamento a stasera, di ritorno dal ristorante.
Ci riposiamo un po’ poi usciamo e passiamo un paio d’ore assolutamente infruttuose: l’ufficio del turismo è chiuso; stentiamo a capire dove possano partire gli autobus per raggiungere le località marittime intorno a Palma (io mi sono fatto un’idea studiando centimetro per centimetro le cartine e lavorando d’induzione) e infine perdiamo il nostro tempo cercando l’autobus che porta al castello di Bellver, da dove mi piacerebbe molto vedere la città e il tramonto. Quando troviamo la fermata, lo aspettiamo invano, per un tempo imprecisato e ammorbati dalla puzza degli escrementi di cavallo depositati sull’asfalto proprio davanti alla fermata, per scoprire infine (senza che il bus sia mai passato, d’altronde), che si tratta della linea turistica, il cui biglietto giornaliero costa 13 euro. Desistiamo, ci dissetiamo con delle bibite comprate nei sotterranei di “El Corte Inglès” di Jaime III e ci avviamo verso l’albergo affaticati e frustrati. Scendiamo però lungo la città vecchia, verso il mare, e saliamo sulle mura di El baluard, una vecchia fortezza che ora contiene, grazie ad un’audace e riuscita ristrutturazione in chiave contemporanea, un centro espositivo e un ristorante dall’aria raffinata. Poco più in là, nella luce rosata del tramonto, un gruppo di ragazzi prova una canzone alla chitarra e il tutto è avvolto da un’aura romantica e lievemente decadente.
Dopo esserci rinfrescati, partiamo alla caccia di un ristorante nella nostra zona: siamo incerti tra lo Sazon (dove già siamo entrati/usciti durante la nostra prima visita a Palma), con le sue tapas raffinate, e il Pope, che sembra offrire una cucina più tradizionale e corposa. Decidiamo per quest’ultimo (dov’erano stati anche i ragazzi di “Turisti per caso” di cui avevamo letto il resoconto di viaggio sul sito), lasciando l’altro per l’indomani, giorno di partenza.
Pope sta per Popeye, Braccio di Ferro, raffigurato sui tovaglioli di carta e somigliante ad uno dei camerieri anziani. Mangiamo benissimo, per la solita cifra contenuta, piatti ricchi ed appetitosi (tra cui un’entrecote alla senape e asparagi alla maionese) con il gran finale di un dessert “Pijama Special”, summa dei vari dessert offerti dalla casa, con un piatto che prevede (per una persona) fette di ananas, pesche sciroppate, palle di gelato, budino al creme caramel. Spendiamo circa 32 euro, usciamo soddisfatti, e non ci siamo dimenticati della micina, per la quale abbiamo confezionato un pasto gustoso avvolto nei tovaglioli di carta.
La chiamiamo ma non si presenta, sarà già andata a dormire; io prima di farlo rimango un po’ ad osservare il passeggio nottambulo di Apuntadores.
1 agosto MALLORCA: Palma – Illetes – Palma – Aeroporto di Palma Richiusi i bagagli li lasciamo nel salottino della reception, affidati ad una signora meno antipatica di quella di ieri e che probabilmente è la stessa con cui ho parlato al telefono. Raggiungiamo con il nostro equipaggiamento balneare la fermata dell’autobus de L’Escollera, sul molo poco distante dal nostro hostal. Del bus per arrivare a Sant’Elm (che sembra una località piacevole e dove ha la casa la collega bibliotecaria Attilia), proprio non si riesce ad avere notizie certe; la situazione è seriamente aggravata dal fatto che oggi è domenica, e malgrado ci troviamo in una delle località turistiche più rinomate del Mediterraneo in uno dei periodi turisticamente più di punta di tutto l’anno, di domenica a Palma i mezzi pubblici viaggiano poco o svogliatamente, o in certi casi per nulla.
Scegliamo la nostra destinazione per esclusione e prendiamo il bus per Illetes, per la quale basta il biglietto urbano a 1,10 euro. Il bus segue la costa su e giù e ci lascia dopo una ventina di minuti nei pressi di una spiaggia abbastanza piccola, incastonata tra le rocce, con l’urbanizzazione che si arrampica alle spalle. La spiaggia è attrezzata e servita da diversi bar e ristoranti; malgrado si trovi al centro di un’area densamente urbanizzata i dati sulla qualità dell’acqua esposti su un tabellone all’ingresso della spiaggia sono lusinghieri e il giudizio riassuntivo è “eccellente”.
Nulla di paragonabile alle spiagge belle e selvatiche di Menorca; tuttavia non ci resta che accontentarci e ci prendiamo la nostra razione giornaliera di sole e bagni. Facciamo una pausa meridiana sulla terrazza del bar affacciato sulla spiaggia, dove mangiamo bocadillos e dove bevo tinto de verano, cioè vino rosso con gazzosa che faccio ulteriore rinfrescare con qualche cubetto di ghiaccio.
Ad un’ora conveniente riprendiamo l’autobus che ci riporta in città, ci sistemiamo come possiamo e andiamo finalmente al Sazon, il bel ristorantino a pochi passi dall’hostal. Per gli standard orari maiorchini è presto per cenare e anche per tapeare, e il ristorante è vuoto. Prendiamo comunque posto, ascoltiamo la spiegazione della cameriera che avevamo già sentito circa due settimane fa e ordiniamo due piatti a testa, con crespelle, crema di aragosta, prosciutto crudo e fichi e salmone affumicato. L’atmosfera è bella, ma i piatti deludenti: non tanto per la qualità, quanto per la quantità, davvero minimale. Ci vengono presentate delle tapas stile nouvelle cuisine, ben presentate ma poco sostanziose: con la tecnica adottata quasi sempre da me e Alessandra, per cui si divide ogni cosa a metà in modo da assaggiare un po’ di tutto, la porzione assegnata a ciascuno è talmente piccola che è difficile rendersi conto se sia buona o no. Riceviamo la conferma che è proprio al Sazon che molto probabilmente si riferiva il proprietario del Pope ieri sera, quando prendeva in giro con qualche cliente i ristoranti dove danno delle porzioni micragnose… Beh, decisamente noi stiamo gastronomicamente dalla parte del Pope, paghiamo il conto e usciamo dal ristorante ancora deserto.
Saliamo al Ritzi dove sistemiamo e recuperiamo i bagagli e usciamo. Risaliamo il Paseig de Born che avevamo disceso la notte dell’arrivo, sempre trascinando i nostri trolley sul pavimento a piccole piastrelline, e realizziamo che comunque è troppo presto per andare all’aeroporto e che siamo insoddisfatti della cena. Così ci fermiamo all’angolo superiore del Paseig, al Cafè Bosch, che risulta essere uno dei caffè storici di Palma. Ci sediamo ai tavolini all’aperto, sistemando le valigie tra sedie e tavoli, e ordiniamo ad un anziano cameriere. La posizione del caffè è carina, strategicamente incuneata tra il bel Paseig alberato e il trafficato Jaime III, ma il pavimento tra i tavoli è perennemente sporco, come avevamo già notato un’altra volta in cui avevamo pensato di fermarci qui. Ma quando arrivano le cose che abbiamo ordinato ci riconciliamo con la gastronomia spagnola: sono, finalmente e tardivamente, una squisita sangria gustosa e zuccherina, e un buon gelato con i gusti che sono la specialità della casa, almendras e leche meringado.
Ci alziamo dal tavolo riconciliati e riprendiamo a camminare, diretti alla fermata del bus dove siamo scesi la notte dell’arrivo, che pare la più vicina per raggiungere l’aeroporto con il bus diretto. Risaliamo quindi tutto Jaime III, attraversiamo il ponte sul canale e raggiungiamo la fermata. Dobbiamo aspettare un buon quarto d’ora l’arrivo del bus, quindi finalmente ci imbarchiamo e partiamo. Come ho già accennato, l’aeroporto di Palma è una costruzione colossale, che a prima vista sembra occupare buona parte dell’isola. Per spostarsi dall’entrata/uscita alla zona di imbarco/sbarco si percorrono enormi ed infiniti corridoi solcati da lunghi tapis roulant. Prima di tutto però controlliamo i tabelloni delle partenze e andiamo a fare il check in, scoprendo così che il nostro aereo porta già un ritardo, che potrebbe aumentare, di un’ora e dieci minuti (i due ragazzi del conosciuti sul traghetto ci hanno detto che VolareWeb è sempre in ritardo). Cerchiamo così di contattare Paolo, che in teoria dovrebbe venire a prenderci a Malpensa alle 2 di notte. La nostra intenzione a questo punto è di liberarlo: con il ritardo arriveremmo dopo le 3 il che vorrebbe dire arrivare a casa dopo le 4 e cioè passare l’intera notte in bianco. Ma una maledizione telefonica cala su di noi: la tessera Fuego che finora aveva fatto egregiamente il suo dovere cade vittima di una debacle improvvisa, col nostro telefonino non riusciamo a chiamare, mandiamo un messaggio che però rimane senza risposta. Alla fine telefoniamo da un telefono a moneta, nel quale inseriamo improvvidamente un euro e mezzo, che l’apparecchio si inghiotte tutto senza restituire un centesimo di resto. In compenso però alla fine riusciamo ad avvertire Paolo, che era stato al cinema con il cellulare spento e si stava apprestando a partire, e a bloccarlo. Ci arrangeremo, gli diciamo.
2 agosto MALLORCA: Aeroporto di Palma / ITALIA: Aeroporto di Malpensa – Milano Centrale – Sesto San Giovanni Facciamo il solito giro ozioso al duty shop, leggiamo in sala d’imbarco (io ho iniziato il giallo spagnolo della Giménez-Bartlett, ma l’investigatrice Petra Delicado è decisamente antipatica, come avevo già capito dai commenti di Alessandra) e alla fine tra la una e le due di notte ci imbarchiamo.
Ho il posto vicino al finestrino, e vedo Palma dall’alto, di cui si riconoscono illuminati la cattedrale, il castello, ecc., e poi isole cosparse di piccole luci, presumo Ibiza e Formentera. E’ un avaro volo no frill, dove non offrono neppure un bicchiere d’acqua; io dormo e mi risveglio quando dopo il breve volo annunciano che è iniziata la discesa verso Milano Malpensa.
Atterriamo, recuperiamo i bagagli e ci avviamo all’uscita. Ho ancora una tenue inconfessata speranza che Paolo sia venuto a prenderci lo stesso, nonostante la nostra disdetta, ma non è così. Tampiniamo una coppia dall’aria casual che era sul nostro stesso autobus per l’aeroporto chiedendogli se sono in macchina, ma ci va male. Guardiamo gli orari dei bus che vanno a Milano (i treni prendono servizio dopo le 6) e abbiamo un piccolo scazzo tra noi, dovuto alla stanchezza (secondo me bisognerebbe prendere in considerazione anche l’ipotesi di aspettare un po’ in aeroporto, in modo da essere sicuri che una volta a Milano siano già in funzione i mezzi per tornare a casa).
Alla fine, dopo un’attesa di qualche decina di minuti, verso le 4 ci imbarchiamo su uno Shuttle diretto a Milano (Fiera o Centrale). Chiediamo un’informazione all’autista, che non sa niente ed è sgarbato: è un po’ classico al rientro in Italia imbattersi in persone non educate e/o arroganti. Decidiamo di tirare dritti fino al capolinea in Centrale e lì vedremo cosa c’è, bus, treni o metrò. Percorriamo il solito deprimente tragitto di ritorno verso la città, per le strade buie e poco trafficate. Una volta arrivati in Centrale, la prima cosa che controlliamo è l’orario dei treni: e pare che ci sia un treno che va a Tirano e che forse ferma a Sesto (nel senso che Sesto non è tra le stazioni escluse) e che parte tra pochi minuti! Alessandra sale al livello dei binari, mentre io vado nell’atrio a chiedere informazioni ed eventualmente a fare i biglietti. Gli sportelli sono tutti indifferentemente chiusi; mi rivolgo ad una macchinetta automatica e lei mi conferma che il treno ferma a Sesto; ma la funzione di biglietteria le è preclusa, e devo cambiare macchinetta e ricominciare tutto da capo, mentre mancano pochissimi minuti alla partenza. E’ una procedura lunga perché prima bisogna confermare la stazione di partenza, poi selezionare quella d’arrivo, poi scegliere la fascia oraria e il treno, poi dire che tipo di biglietto si vuole e per quante persone, poi dire se si hanno tessere, agevolazioni o riduzioni, poi dire come si vuole pagare, poi inserire i codici, e poi… poi la macchina non prende i numeri del pin, che forse ho digitato troppo in fretta, e devo ricominciare da capo! Rifaccio tutto preso dalla frenesia, quando ormai non so se sto facendo il biglietto per un treno che possiamo ancora prendere o che è già partito mentre io schiaccio tasti su tasti. Alla fine riesco ad avere il mio biglietto, corro di sopra dove Alessandra mi sta aspettando, è l’ora della partenza, corriamo verso il binario (uno dei laterali, ovviamente) mentre cominciano a mancarmi le forze; il treno c’è ancora, ci ricordiamo perfino di vidimare il biglietto prima di salire e gridiamo a due ferrovieri per avere conferma che è il treno giusto.
Finalmente siamo a bordo. Ci sediamo e appena riprendo fiato racconto ad Alessandra le mie disavventure con la biglietteria automatica, mentre il treno si avvia nel panorama ancora notturno della Milano ferroviaria. In pochi minuti siamo a Sesto, e dalla stazione abbiamo ancora una decina di minuti a piedi da fare per arrivare a casa. Il cielo comincia a schiarire.
Per le 5.30 siamo a casa, cosa che non speravamo.
Andiamo a dormire. Non per molto; dopo qualche ora il telefono comincia a squillare: sono Angelo e i miei genitori che chiedono nostre notizie.