Malaysia: Borneo & Kuala Lumpur

A due anni di distanza dal mio ultimo (e lungo) viaggio in Australia, Nuova Zelanda, Fiji e Cook, (cfr. Tpc alla sezione "Australia") l’8 agosto scorso sono partito per un breve ma intenso viaggio di una settimana in Malesia per andare a trovare i miei amici Marco & Kit che vivono da qualche anno a Kuala Lumpur e andare poi insieme qualche...
Scritto da: alessio_syd
malaysia: borneo & kuala lumpur
Partenza il: 08/08/2003
Ritorno il: 17/08/2003
Viaggiatori: fino a 6
Spesa: 1000 €
A due anni di distanza dal mio ultimo (e lungo) viaggio in Australia, Nuova Zelanda, Fiji e Cook, (cfr. Tpc alla sezione “Australia”) l’8 agosto scorso sono partito per un breve ma intenso viaggio di una settimana in Malesia per andare a trovare i miei amici Marco & Kit che vivono da qualche anno a Kuala Lumpur e andare poi insieme qualche giorno nel Borneo, limitandoci alla regione di Sabah, Borneo Malese. Con me è partita anche Cinzia, un’amica di Marco. Ho volato da Roma con la Malaysia Airlines a bordo di un 777. L’atterraggio è avvenuto dopo 11 ore al Kuala Lumpur Int’l Airport (KLIA), bello e moderno aeroporto inaugurato nel 1998, che si trova a Sepang, circa 70 km. A sud di Kuala Lumpur, vicino al circuito di Formula 1. Il primo giorno è stato di tutto riposo, la mattina l’abbiamo passata tra la piscina e l’idromassaggio condominiale di casa di Marco per rilassarci dopo il viaggio e nel pomeriggio siamo andati in centro a fare una passeggiata sotto le Petronas Twin Towers dove c’è un grande centro commerciale, KLCC, di cinque piani con una piazza interna centrale da cui si diramano due ali di negozi. La piazza interna è sormontata da una cupola di vetro da cui si possono vedere le torri. La sera abbiamo cenato in un ristorante coreano, dopo che per pranzo eravamo stati in un cinese. La mattina dopo siamo partiti per il Borneo dove i miei amici avevano organizzato cinque giorni, i primi tre con base a Kota Kinabalu, la capitale della regione di Sabah, nel Borneo orientale, per visitare alcune isole coralline e un parco nazionale e gli ultimi due a Sandakan, la prima capitale di Sabah, all’estremità orientale del Borneo espressamente per andare a visitare il centro di riabilitazione degli oranghi a Sepilok. Il volo interno lo abbiamo effettuato con AirAsia, una compagnia low-cost malese che offriva interessanti pacchetti volo a/r da Kuala + hotel a prezzi bassi. I miei amici avevano acquistato i pacchetti da Kuala, potendo contare su tariffe ancora più vantaggiose. L’albergo, in particolare, era un 5 stelle del circuito Shangri-La, il Tanjung Aru, situato poco fuori Kota Kinabalu, sul mare e con vista sulle isole coralline che formano il parco nazionale dell’arcipelago Tunku Abdul Rahman, nel Mar Cinese Meridionale. Nonostante il livello dell’albergo e delle stanze fosse elevato, il pacchetto da noi acquistato era così economico che il costo della nostra stanza era pari a quello di un albergo di bassa categoria. Il tempo di posare le valigie e siamo andati in taxi a Monsopiad, un villaggio di ex tagliatori di teste che si trova a qualche km. Da Kota Kinabalu. Qui abbiamo visitato il villaggio, attraversato il fiume che costeggia il villaggio su un ponte di legno sospeso e mangiato involtini primavera e curry puff, un raviolo fritto ripieno di curry. Abbiamo anche assistito ad uno spettacolo di danze locali con due ragazzi e due ragazze vestiti con gli abiti tipici del villaggio che poi ci hanno coinvolto attivamente nello spettacolo.

Per il giorno dopo era prevista la gita alle 5 isole. In alcune di queste era prevista una sosta per lo snorkelling, altre le abbiamo viste solo dalla barca. Alla partenza, prevista dal marina dell’albergo, ci hanno dato l’attrezzatura per lo snorkelling e un giubbotto salvagente che eravamo obbligati a indossare sulla barca. La prima delle isole raggiunte è stata Gaya: siamo rimasti un po’ al largo mentre la guida ci spiegava che è abitata prevalentemente da musulmani, e infatti si vedeva il profilo di una moschea, che vivono su palafitte. Mentre ci allontanavamo per costeggiare parte dell’isola, un gruppetto di bambini ci salutava e alcuni di loro ci gridavano di buttargli dei soldi. L’isola successiva era Mamutik, sulla quale abbiamo attraccato ed abbiamo avuto circa un’ora a disposizione per lo snorkelling; la spiaggia è corallina e la barriera era ricca di pesci colorati. In particolare c’era un gruppo di un centinaio di pesci, soprattutto pesci pagliaccio, che si muoveva insieme lentamente. In quel momento ho pensato che potevo portarmi la macchina subacquea che invece era rimasta a Roma. Risaliti in barca, ci siamo avvicinati all’isola Sulug, la più piccola dell’arcipelago, con una sola spiaggia, piccola e solitaria. Non ci siamo fermati ed abbiamo proseguito per Manukan, l’isola principale e anche la più frequentata dai turisti, dotata di tutti servizi ricettivi. C’era quindi anche uno shop ed ho comprato una macchina subacquea usa e getta, ad un prezzo elevato ma non così spropositato, con la quale ho iniziato a fare un po’ di foto della barriera, approfittando dello sole splendente. I pesci di Manukan sembravano più socievoli di quelli di Mamutik, si lasciavano avvicinare un po’ di più e guardavano incuriositi, gli altri erano più indifferenti. Per il pranzo ci siamo trasferiti a Sapi: era stato preparato un bbq sulla spiaggia con pollo, riso, gamberi, pesce, noodles e satay (si pronuncia satè), un piatto costituito da spiedini di pollo o manzo pastellati nel curry e fritti. Dopo pranzo ci è venuto sonno e poi il sole picchiava al punto che era impossibile stare al sole e piacevole stare all’ombra: ma ancora più piacevole era stare dentro l’acqua, nonostante la digestione, perché era molto calda, al punto che entrando in acqua la si sentiva scottare. Nonostante la digestione in corso siamo entrati lo stesso in acqua, così ho terminato il rullino subacqueo prima di risalire in barca. I pesci di quest’isola erano fin troppo socievoli perché ti puntavano e non si scansavano, anzi muovevano la bocca come se volessero mordere, ma erano piccoli.

La gita al Mt. Kinabalu Park l’abbiamo effettuata con altre persone ospiti nel nostro albergo. La nostra guida era un ragazzo il quale ci ha chiesto subito nome e provenienza. Inutile dire che il fatto che eravamo italiani ci ha consentito di fare la nostra solita porca figura con gli altri stranieri. Siamo usciti dalla città verso est in direzione del parco nazionale che prende il nome dal Mt. Kinabalu che, con i suoi quattromila e passa metri di altezza, è la vetta più alta del sud-est asiatico. Dopo circa 45’ di strada statale in salita abbiamo raggiunto una piazzola di sosta da dove vedere il profilo del monte che si staglia enorme su un altopiano comunque già sufficientemente alto, 1200 mt., considerato che eravamo partiti dal livello del mare. La cima era lambita da qualche nuvola e, come ci dice la guida, la notte scorsa ha piovuto al punto che non è stato possibile salire in vetta. Infatti la scalata alla cima dura due giorni: il primo giorno serve per raggiungere un rifugio oltre i tremila metri dove si pernotta, il secondo giorno, con partenza alle due del mattino, si raggiunge la cima e si scende. La salita è di circa 8 km. Complessivi, in buona parte all’interno della foresta, l’ultima parte sul crinale della montagna all’aperto. E’ curioso che, nonostante i quattromila metri di altezza, non vi sia mai neve sulla sommità. Dopo aver scattato qualche foto siamo ripartiti per la seconda sosta in programma, il Nabalu Market, un agglomerato di chioschi dove poter comprare souvenirs, frutti e manufatti locali. Non c’era nulla che mi ispirasse, anzi sembravano oggetti che, seppur originali e tipici, potevano trovarsi su una qualunque bancarella in Italia. Dopo un altro breve spostamento, siamo arrivati alla nostra mèta: Poring Hot Springs. Si tratta di piscine di acqua termale a circa 55°C, quindi bollente, che sono il punto di partenza e di arrivo di un breve sentiero completamente all’interno della foresta, detto Canopy Walkway, di soli mille metri tra andata e ritorno, ma caratterizzato da una pendenza considerevole e da un’umidità dichiarata del 95% che rendeva i vestiti strizzabili. Il sentiero aveva il suo culmine in un ponte di legno sospeso a 41 mt. Di altezza sulla foresta. Il ponte si compone di tre arcate, i cui piloni sono i tronchi di alberi più alti del ponte di qualche decina di metri e i tiranti sono legati agli alberi stessi. L’attraversamento del ponte è consentito ad un massimo di sei persone per volta; davanti a me e Cinzia, strategicamente partiti per ultimi nel nostro gruppo per avere la possibilità di fare le foto in pace, c’era però una signora australiana non esattamente filiforme che con i suoi passi aumentava l’ampiezza dell’oscillazione del ponte. La superficie di camminamento è larga quanto due piedi affiancati, ai lati ci sono delle funi su cui reggersi per bilanciare l’oscillazione che comporta il camminarci. Non è un problema guardare sotto, comunque facendolo, non si vede poi molto, perché stando in alto si vedono solo i rami degli alberi. Dopo pranzo, siamo partiti verso una riserva di orchidee per una passeggiata all’interno della foresta. Gli ultimi chilometri li abbiamo fatti dentro le nuvole che intanto si erano abbassate. Evidentemente non era il periodo migliore per vedere le orchidee perché ce ne erano poche. La pioggia era intanto aumentata d’intensità fino a diventare un vero temporale tropicale che ci ha colti ancora dentro la foresta. E ci ha inzuppati nonostante i kway. Per cena siamo stati ad uno dei ristoranti dell’albergo per provare lo “steamboat”: ci hanno portato sul tavolo un pentolone diviso all’interno in due settori, uno con brodo di pollo e l’altro con brodo piccante. Dovevamo cuocerci la carne, il pollo, il pesce e le verdure che ci avevano portato su un tavolo e aggiungerci le salse. Tutto molto buono e originale. Il trasferimento a Sandakan è avvenuto con un volo interno della Malaysia Airlines perché non era compreso nel pacchetto; il volo è durato circa 45 minuti e prima di atterrare ci ha consentito di vedere dall’alto la giungla del Borneo orientale, una immensa distesa verde con qualche fiume ricco di anse che la attraversa. All’arrivo a Sandakan il cielo era coperto e c’era più afa che a Kota Kinabalu; con un taxi abbiamo raggiunto Sepilok che si trova a circa mezz’ora di distanza, dove si trova la riserva degli oranghi. Abbiamo alloggiato al Sepilok Resthouse, a pochi metri dall’ingresso del parco, una struttura spartana a gestione familiare con possibilità anche di sistemazioni tipo ostello. Non c’era l’acqua calda ma quella fredda era tiepida, però c’era l’aria condizionata. Dopo aver mangiato un panino veloce in albergo, siamo entrati al parco perché alle 15 era previsto il pasto agli oranghi; l’altro pasto avviene il mattino alle 10. Questo centro di riabilitazione è dedicato ai piccoli oranghi rimasti orfani o feriti che vengono curati e poi riabituati a vivere nella foresta e a procacciarsi il cibo. Una fase della riabilitazione consiste nel dargli il cibo su una piattaforma a qualche chilometro di distanza dal luogo dove abitualmente vivono durante il giorno. Per raggiungere la piattaforma sospesa su un albero dove un ranger dà le banane agli oranghi, si deve percorrere una passerella di legno in mezzo alla giungla con un sottofondo di versi di uccelli e insetti che però si rendevano invisibili ai nostri sguardi. L’attesa è durata fino alle 15 quando puntualmente si è presentato un orango che ha raggiunto la piattaforma per mezzo di una delle corde tese tra gli alberi che consente agli oranghi di raggiungere la piattaforma da tutte le direzioni della giungla. Era curioso il modo di spostarsi a capriole sulle corde. Dopo aver mangiato le banane, avendole prima sbucciate, l’orango se ne è andato e noi abbiamo proseguito il percorso sulla passerella che riporta al punto di partenza. Abbiamo anche incontrato un macaco lungo la strada tenuto però d’occhio da un ranger. Anche qui il caldo e l’umidità erano pesanti e rendevano la maglietta da strizzare. Alla fine del percorso abbiamo visto un documentario sul parco e sul modo di curare gli oranghi e una piccola mostra che ripercorreva la storia del parco. Ritornati alla Resthouse ci siamo prenotati per la passeggiata notturna nella giungla che sarebbe iniziata alle 18, all’ora del tramonto. In attesa della guida ci siamo cosparsi abbondantemente di repellente sia sul corpo che sui vestiti. Il nostro abbigliamento era coerente con la giungla di notte ma un po’ meno con la temperatura: pantaloni di cotone lunghi, calzettoni da tennis, scarponi da trekking con suola alta a carrarmato, camicia a maniche lunghe completamente abbottonata. L’umidità ha reso zuppi i vestiti dopo pochi minuti ma almeno ci proteggeva dalle punture degli insetti. All’inizio della passeggiata, cioè all’ingresso del parco, abbiamo fatto il nostro primo incontro: uno scoiattolo volante che è volato da un albero all’altro aprendo le sue ali a mantello, tipo batman. La passeggiata è iniziata percorrendo la passerella di legno percorsa di giorno ma poco dopo la guida ha aperto un piccolo cancello iniziando così a percorrere uno stretto sentiero lungo un paio di chilometri tra gli alberi nel pieno della giungla. L’ingresso nella foresta rendeva invisibile anche il chiarore del tramonto perciò eravamo al buio più completo. La guida era munita di torcia con la quale ci indicava gli animali che individuava, come ad esempio un ragno gigante nell’acqua o enormi insetti che dormivano sulle foglie degli alberi. Il buio era completo e stavamo attenti a dove si camminava. La passeggiata è stata molto suggestiva, il buio creava un’atmosfera particolare, si sentivano rumori e versi strani degli animali notturni. Tornati in albergo è stato necessario spogliarci dei vestiti facendo attenzione che nulla si fosse attaccato: e casualmente mi sono trovato una piccola sanguisuga che mi risaliva i pantaloni all’esterno che probabilmente si era attaccata alle scarpe quando abbiamo camminato su una pozzanghera. Poiché non ci accontentavamo dell’orango visto il giorno prima, la mattina dopo siamo rientrati per il pasto delle 10, con la speranza di vederne qualcuno in più. Abbiamo dovuto ripagare il biglietto e già sulla passerella che ci portava alla piattaforma del pranzo, abbiamo incontrato una famigliola di macachi che stavano seduti sul corrimano della passerella che ci guardavano incuriositi. Al momento del pasto si sono presentati diversi oranghi e tanti macachi, grandi e piccoli per un pasto decisamente più affollato. Nel pomeriggio siamo ripartiti da Sandakan per tornare a Kuala Lumpur la sera, volando ancora con AirAsia. A Kuala avrei passato gli ultimi due giorni prima di ripartire per Roma.

La giornata di Ferragosto l’abbiamo trascorsa in giro per il centro a fare shopping, approfittando anche dei saldi di agosto, tra Chinatown, il Central Market e i grandi centri commerciali a downtown. Tra un centro commerciale e l’altro siamo saliti sulla KL Tower, la quarta torre per comunicazioni più alta al mondo, simile alla Skytower di Auckland o la AMP Tower di Sydney, dove è possibile salire fino ad un piano panoramico posto a circa 270 mt. Da cui si vede tutta la città a 360°. Al piano superiore c’è anche un ristorante che ruota di un giro completo in un’ora. L’ultimo giorno doveva cominciare con la visita alle Petronas Twin Towers: il nostro obiettivo era salire sullo Skybridge, il ponte che collega le due torri al 41° piano, il punto più alto raggiungibile. Purtroppo per tutto il mese di agosto il ponte era chiuso per manutenzione e così malvolentieri siamo stati costretti a rinunciare. Nell’attesa che i negozi di KLCC aprissero, abbiamo fatto un giro per i giardini sotto le torri dove c’è anche un laghetto di cui una parte è adibita a piscina peri bambini. Il sole però già scottava così siamo rientrati a KLCC per iniziare il giro dei negozi. Non abbiamo fatto molti acquisti ad eccezione di un po’ di cd nuovi ed originali perché lì, diversamente da noi, costano poco, l’equivalente di 9 euro. Dopo il pranzo al ristorante indonesiano di KLCC ci siamo diretti verso Batu Caves, a circa mezz’ora di auto dal centro di Kuala Lumpur. Si tratta di caverne naturali molto ampie al cui interno si trovano templi e altari induisti. Per raggiungerle bisogna salire 272 ripidi gradini, stretti e di alzata alta. Lungo la salita si incontrano i macachi in attesa che i turisti gli diano qualcosa da mangiare o ne attirino l’attenzione. La salita l’abbiamo effettuata sotto una leggera pioggia che l’ha resa meno faticosa. Giunti in cima, si entra nella caverna principale, molto grande, con ai lati diversi altari che rappresentano scene di vita delle divinità induiste. Le caverne sono buie: ed a parte l’illuminazione artificiale, peraltro soffusa, la poca luce naturale filtra attraverso alcuni lucernai naturali che si trovano in cima. In fondo alla caverna, qualche decina di gradini porta ad un antro, dalla volta completamente aperta, tipo cenote, al cui interno c’è il tempio principale. La discesa la affrontiamo sotto il sole che nel frattempo è uscito dalle nuvole e, nonostante si tratti di discesa, il caldo la rende faticosa quanto una salita. Successivamente siamo entrati in due caverne attigue dove sono rappresentate scene di vita di shiva con statue molto colorate e a grandezza naturale. Dalle Batu Caves ci siamo spostati verso il Tempio Cinese, il più grande di Kuala Lumpur, posto in cima ad una collina da cui si vede downtown. Mentre ci dirigevamo al tempio ha iniziato a piovere in maniera “tropicale”, ma il tempio ha i passaggi al coperto, così siamo comunque riusciti a vederlo. All’interno ci sono tre grandi statue di Buddha dorate, le mura intere sono lavorate finemente e le bacchette accese diffondevano l’odore di incenso dentro e fuori. All’esterno del tempio alcune statue di animali rappresentavano il calendario cinese. Tornati a casa, c’è stato giusto il tempo di chiudere la valigia, andare a cena e poi all’aeroporto. Il volo di ritorno è comodo perché si parte a mezzanotte e si arriva alle 6 del mattino, se si riesce a dormire si ammortizza subito il fuso orario.

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