Mail ai miei amici dall’India di 3 parte

Itinerario: Delhi-Agra-Jaipur-Bundi-Pushkar-Udaipur-Jodhpur- Jaisalmer-Bikaner-Delhi-Varanasi-Calcutta-Puri- Chennai-Kanyakumari-Varkala-Kochi-Gokarna- Goa-Mumbai-Omkareshwar-Delhi 100 giorni in India (http://www.freefred.org/india/)30.01.2002 28 01 2002 - Luna piena di Gennaio Gokarna, Karnataka Dal diario di bordo del marinaio...
Scritto da: Davide Banda
mail ai miei amici dall'india di 3 parte
Partenza il: 10/11/2001
Ritorno il: 23/02/2002
Viaggiatori: da solo
Spesa: 1000 €
Itinerario: Delhi-Agra-Jaipur-Bundi-Pushkar-Udaipur-Jodhpur- Jaisalmer-Bikaner-Delhi-Varanasi-Calcutta-Puri- Chennai-Kanyakumari-Varkala-Kochi-Gokarna- Goa-Mumbai-Omkareshwar-Delhi 100 giorni in India (http://www.Freefred.Org/india/)

30.01.2002 28 01 2002 – Luna piena di Gennaio Gokarna, Karnataka Dal diario di bordo del marinaio Johnson: BACKWATERS Partiamo da Varkala (io e Nir) insieme a tre svizzeri che abbiamo conosciuto nella guest house, alla volta di Kollam.

(Uno di loro sta facendo una pausa, perche’ ha fumato troppo in Svizzera.

Io e Nir ne ammiriamo la forza di volonta’, o forse la follia, comunque sia questo ci basta per convincerci di come la Svizzera non sia solo orologi, cioccolato e banche) Da li’ vogliamo prendere la barca che ci portera’ ad Allaphuza, con un viaggio di 8 ore attraverso le acque interne (backwaters), la rete di canali che attraversa il Kerala.

Non c’e’ mai stato un posto piu’ verde.

I canali sono pieni di meduse, e di pescatori, e sulle rive corrono bambini usciti dalla foresta che ci chiedono una penna.

Ci sono uccelli che sembrano falchi, uccelli che sembrano flamingos, e serpenti d’acqua, e palme, dappertutto palme.

Giochiamo a scacchi, beviamo birre (io), e dopo la pausa pomeridiana di 20 minuti, che obbliga me e Nir ad addentrarci nel villaggio e a fumare 2 joint consecutivi, stiamo immobili sul ponte a fissare il tramonto come se anche anche il tramonto da un momento all’altro dovesse diventare verde.

KOCHI Gli svizzeri si fermano ad Allaphuza, due di loro sono infermieri e sono interessati a una clinica ayurvedica che dicono essere buona.

(“Ci sono bastati 5 minuti per capire che era un pacco”, mi dira’ poi uno di loro quando ci rivedremo a Kochi.) Io e Nir andiamo direttamente a Kochi, anzi a Fort Cochin, la parte storica, lontana dal caos di Ernakulam, la citta’ nuova e moderna, con le sue navi da carico e il tempio di Shiva.

Fort Cochin e’ forse il posto meno indiano in cui sono stato.

L’influenza portoghese e olandese e’ chiarissima, le strade sono strette e le case sono basse, ci sono chiese e la grande basilica di Santa Cruz, e sulla spiaggia le meravigliose grandi reti da pesca cinesi.

E poi la Sinagoga, piccola e bellissima.

Kochi e’ una storica presenza ebraica in India.

Mi ci porta Nir, ed e’ la prima sinagoga in cui entro in vita mia.

C’e’ un’atmosfera quasi europea nei caffe’che espongono in vendita quadri terribili con le vetrine piene di porcellane e di servizi da the’.

Ma la cosa piu’ bella di Fort Cochin sono senz’altro gli affreschi del Mattancherry Palace.

Non posso descriverli, ne’ tantomeno mostrarli.

E’ la prima volta che L’india mi risulta incomprensibile.

Non si possono fare foto agli affreschi, ovviamente, ma al palazzo non vendono ne’ libri ne’ cartoline.

(Hanno solo libri su Hampi, che e’ un po’ come se a Roma avessero soltanto libri su Venezia) E’stato stampato soltanto un libro con le foto degli affreschi, dal governo, e sono 2 anni che e’ ormai fuori stampa.

Mah.

Una sera siamo sulla terrazza.Un israeliano suona la chitarra, la sua ragazza e Nir cantano.Un inglese con la maglietta della nazionale indiana ascolta e guarda.

Io parlo con una ragazza di Siena, che si e’ fatta battezzare 2 anni fa nell’ashram di Osho, il guru degli occidentali, a Pune.

Non ne so mezza, quindi pongo domande in continuazione.

Il chitarrista e’ un fan dei primi Metallica, ma per quest’occasione suona pezzi un po’ piu’ leggeri.

Tra gli altri, America, di Simon and Garfunkel.

E’ davvero strano ascoltarla qui.

Mentre ne ascolto il testo, non posso non pensare a come tutti noi su questa terrazza, che andiamo e veniamo da posti diversi dell’India, siamo lontani anni luce dall’efficienza, magari leggendaria, dei famosi autobus della Greyhound.

La musica si interrompe per un attimo, il chitarrista apparecchia un chiloom.

Non mi accorgo di quanto sono stonato finche’ io e Nir non siamo in una bakery con davanti un cartone di fette di torta, fumiamo anche se non si potrebbe e ho in mano una bibita al mango.

Mentre giochiamo a scacchi nella mia stanza (una partita, un joint, questa e’ la regola), Nir mi dice che i suoi genitori a Bombay sono stati “fulled”.

La guida ne parla in continuazione: il riscio’ driver dice ai turisti che il loro albergo e’ pieno (full), chiuso, o che non esiste piu’ o che e’ andato a fuoco giusto il giorno prima.

Poi li porta in un altro albergo, di solito piu’ costoso, e dal quale riceve una sostanziosa commissione.

Ci ridiamo sopra perche’ a noi, almeno per questo viaggio, non potra’ piu’ succedere.

“Tu credi che Israele sia un deserto?” mi chiede sorridendo la madre di Nir.

E’ giovanissima, ed e’ arrivata a sorpresa.

Nir aspettava il marito di sua madre, che veniva in India tre settimane per festeggiare il suo compleanno.

Sto a fare colazione con loro, al Kashi Art Cafe’, dove dopo 2 mesi bevo tre magnifici caffe’ fatti con una gigantesca moka italiana.

“Haifa, la nostra citta’, e’ verdissima.E scommetto che pensi anche che gli uomini siano tutti vestiti di nero con la barba e le trecce, come i tradizionalisti.Per noi, sono un’attrazione.” Non posso avere rivincite questa volta, perche’ i genitori di Nir conoscono l’Italia (tra l’altro hanno fatto scalo a Milano e mi fanno vedere il mio primo Euro) e il patrigno ama il nostro sud ed e’ stato piu’ volte nel nostro paese.

“A venezia ci hanno proprio fottuto in un ristorante”, mi dice, mentre la madre di Nir fa un gesto come per invitarlo a non parlare in modo volgare.

“Ma io a lei l’avevo detto gia’ prima di partire.

Venezia e’ un posto fatto per fottere i turisti.Ci fotteranno, ma non c’e’ niente di male.A Venezia e’ naturale.” Io e Nir cerchiamo di far entrare i suoi genitori nell’ottica dei prezzi indiani, ma non c’e’ speranza.

“Questa cosa costa un dollaro”, ci dice il marito di sua madre, “In Israele ne costa cinque.Non m’importa se per un indiano e’ una fortuna, per me e’ un dollaro.” Discorso chiuso.Sono arrivati i ricchi, e stanno qui solo 3 settimane.

Il Kerala e’ uno degli stati col piu’ alto grado di istruzione dell’India.

Persino la Lonely Planet e’ costretta a dare atto di questo al governo comunista.Non democratico, non di sinistra, proprio comunista.

Non ne so mezza, ma per me che vengo da un paese di camicie nere, dove comunista e’ un’offesa infamante da televisione, e’ divertente vedere le strade di Ernakulam tappezzate di bandiere con la falce e martello, e sui muri e nei cartelloni le facce di Che Guevara e di Marx, e persino Lenin ed Engels.

JEFF Jeff e’ un indiano di Londra, agente turistico, – “E’ imbarazzante”, mi dice, “tutti gli indiani, nessuno escluso, mi parla sempre prima in hindi, ma io ovviamente non so una parola.Sembra che a volte trovino assurdo che ci siano indiani che vivono al di fuori dell’India, ma cazzo Londra e’ piena.” Ci conosciamo arrivati alla stazione di Kumta, alle 5 del mattino, e prendiamo insieme il minibus delle 6 per Gokarna.

Sappiamo che ci sono 4 spiaggie, tutte abbastanza lontane, e ci incamminiamo verso la prima, con gli zaini in spalla.

A un certo punto, ci fermiamo per riposarci e Jeff rolla una canna d’erba.

Per ricambiare ne faccio anch’io una con l’ultimo pezzo di Parvati che mi e’ rimasto, dopodiche’ Jeff, inspiegabilmente, ne prepara un’altra.

Sono le 7.30 del mattino, io ho dormito piu’ o meno 2 ore in cuccetta, abbiamo appena fumato 3 joint e siamo sulla luna.

I sentieri, quasi invisibili, che portano alle spiaggie di Gokarna, passano in mezzo a una specie di deserto giallo e rosso, spezzato soltanto da enormi rocce nere, che Jeff sospetta essere di origine vulcanica.

Infatti, ci perdiamo.

Ci salva una signora indiana, reindirizzandoci verso la strada giusta.

E’ una fortuna, visto che la nostra presunta scorciatoia, per una spiaggia che tra l’altro ancora non sapevamo dov’era, stava per condurci nell’alta foresta.

GOKARNA (KUDLEE BEACH) E’ difficile per me descrivere la spiaggia.Non ho inventato io le parole che uso, e se e’ vero che sono soltanto una convenzione, probabilmente non vale la pena inventarne di nuove.

Posso soltanto dire che non credevo che in India ci fossero ancora spiaggie cosi’ belle e cosi’ deserte.

Sto nella prima (non avrei potuto fare un passo di piu’ con lo zaino in spalla, ed ero troppo stanco anche per aspettare una barca.) A Kudlee Beach dovrebbero esserci gli europei, nella seconda spiaggia, Om Beach, gli israeliani, e le altre due, piu’ lontane, sono praticamente vuote.

In realta’ a Kudlee Beach non c’e’ quasi nessuno.Incontro due italiani, Stefano, da Cecina, da 25 anni in India, parla hindi e si crede hindu ma e’ partito subito, e Fabio, di vicino Sondrio, e’ stato da Sai Baba e poi qui.

E’ in India per la seconda volta e mi sembra che ne abbia visto un decimo di quello che ho visto io.

E’ un modo diverso di viaggiare.Io, questa volta, ho corso.

Ma ho visto i cibi variare, le spezie e le facce cambiare, i diversi modi di annuire e gli dei differenti da pregare.

Ho riposato poco ma sono contento di aver visto le strade di sabbia del Rajasthan, il tramonto sul lago sacro di Pushkar, il Taj Mahal e le ragazze in minigonna a Calcutta.

Ho visto sacrificare un agnello ma un altro l’ho visto nascere in mezzo al deserto.

E ho bevuto chai dappertutto.Nei bicchieri di vetro, grandi e piccoli, nella tazza da caffelatte, nei bicchieri di plastica delle stazioni, sui treni, dove ti danno un bicchiere di latte caldo con una bustina di the’ dentro, e in quelle piccole brocche di terracotta, che indianamente sono usa e getta, e nel bicchiere di metallo con o senza piattino.

Almeno un chai, di questo sono certo, l’ho bevuto in tutti i posti in cui sono stato.E mi piace pensare di aver bevuto un sorso di tutti quei posti diversi, soltanto uno, senza arrivare alla fine del gusto, quando la lingua trova pace, forse perche’ non cercavo pace ma confusione.

Di certo, non cercavo risposte.L’india trabocca di gente in cerca di risposte, e di persone che le conoscono tutte.

Io, per quel che mi riguarda, mi faccio un sacco di domande tutti i giorni, e mi rispondo in continuazione.A volte le risposte sono buone, spesso sono da buttare, ma questo e’.

Probabilmente, quando avro’ finito le domande, mi tocchera’ andare in cerca di domande nuove, e finche’ saro’ capace (spero) non smettero’ di cercare domande buone.

Sto al Green Sea Cafe’, in una capanna (hut) sulla spiaggia.Costa 50 rupie al giorno (1 dollaro) ma ne pago 60 per il materasso.Ma anche con quello, il mio sacco a pelo e il copriletto che ho preso a Varkala, la mia distanza dal suolo direi non superi i 5 cm.

Insomma, dormo per terra, e prendo l’acqua dolce da un pozzo con un secchio.

C’e’ la corrente elettrica (la sera), non c’e’ il bagno, ma hanno le sigarette e le birre.E quando apro la porta al mattino, voltando leggermente la testa verso sinistra, vedo il mare arabico.

Tutti noi, credo, collezioniamo dei momenti, piu’ o meno speciali, da conservare come amuleti per quando le cose cominceranno ad andare diversamente.

Come dei talismani di bene.

Uno dei miei talismani d’ora in poi saranno i bagni al tramonto a Kudlee Beach, quando il mare si ingrossa e l’acqua diventa fredda mentre il cielo diventa rosso, e la luna e’ gia’ alta sopra le palme alle mie spalle.

Allora, non c’e’ niente di piu’ mistico di una spiaggia.

E la spiaggia, forse, e’ una strada perfetta.

Per quanto pochi, a Kudlee Beach l’umanita’ e’ piuttosto varia.

C’e’ qualche nudista, chi fa yoga al mattino presto e chi si esercita col nunchaku al tramonto.C’e’ quello che io chiamo il Principe Carlo, che sara’ qui da 6 mesi ma usa un ombrellino da passeggio per proteggersi dal sole ed e’ ancora bianco come il primo giorno.E ovviamente, c’e’ chi suona la chitarra e le tablas.Ma il piu’ indimenticabile e’ sicuramente l’inglese, sosia grasso ma perfetto del cantante degli Smashing Pumpkins, che tutte le sere si unisce ai giovani indiani che giocano a cricket sulla spiaggia (a volte la palla va in mare, e allora corrono tutti a cercarla).Lo fanno sempre cominciare come esterno – che e’ un po’ come dirgli “visto che non sai fare nulla, almeno vai a raccogliere la palla” – ma lui e’ sempre li’, finche’ non gli danno la mazza in mano e allora si concentra, per cercare di restare il piu’ a lungo possibile in battuta.

Ma anche allora, si vede che non riesce, nemmeno per un attimo, a smettere di sorridere.

Domenico, da Napoli, cita qualcuno che ha meravigliosamente detto: “Cammina sempre come se sotto il tuo piede ci fosse il tuo cuore.Le rocce diventeranno piume.” A Gokarna i piu’ splendidi discorsi da bar della mia vita.

Se mi fermo ad ascoltare, l’India sembra dirmi una cosa soltanto:disegna.

E allora, quando scende la sera, davanti a una birra, sul mio album con in copertina il sorriso di un attore Tamil, disegno i miei dei della fantascienza.

“Hai un bell’hobby”, mi ha detto un indiano nel buio di un bar di Fort Cochin, “disegnare mentre bevi una birra e fumi sigarette.E’ un po’ il mio stesso hobby, solo che io non disegno.” Cosi’ disegno tra gli altri il Signore dei Cerchi, e il Signore dei Cigni, e il Signore del Cricket, danzante sui tre paletti, e il Signore del Charas, e il Signore dei Draghi, assassino del bene e del male, finalmente.

Ma cosi’, ovviamente, la pace e’ lontana.

P.S.: Alcune di queste cose le ho scritte in spiaggia.Per quanto ami la posta elettronica, e’ ovvio che a volte si perda qualcosa.

In questo caso, la sabbia.

Gokarna, Karnataka ————————————————————————- 05.02.2002 A Kudle Beach dimentico le scarpe, imparo a spegnere le candele con le dita, e regalo i miei disegni ai bambini truccati da Hanuman che mendicano sulla spiaggia.

“Sai Baba”, mi ha detto Fabio, “dice di non dare soldi ai bambini, o continueranno sempre a mendicare e non troveranno mai un lavoro.” Mi chiedo se e’ per cazzate come questa che c’e’ la fila fuori dal suo Ashram.

Avranno dai 3 ai 7 anni, i bambini che ogni giorno scalano le colline da Gokarna a Kudle Beach a Om Beach (e quello e’ un brutto sentiero), e ritorno.

Li preferisco mendicanti e stanchi in spiaggia che chiusi in un garage a cucire sarong o a pulire in ginocchio le carrozze dei treni in corsa.

In spiaggia capita che possano fermarsi a riposare all’ombra, scherzare con l’acqua, giocare dieci minuti a pallone con qualche turista.

(anche se gli indiani, bisogna dirlo, non sanno giocare a pallone).

A volte qualcuno ( o forse soltanto io) gli offre una Coca, visto che e’ questo che chiedono.Allora mi verrebbe da dirgli della Coca Cola come multinazionale assassina, che nella teoria dell’ordine e del caos, e’ responsabile coscientemente dello stato di poverta’ e dello sfruttammento di una gran parte della popolazione mondiale.

Ma e’ un discorso da occidentale, buono per i dopocena impegnati, o per far arrossire qualche signora al party dell’ ambasciatore.

E inoltre, la mia bibita preferita qui e’ senz’altro il Maaza, e lo fa, purtroppo, la Coca Cola.

E sopratutto in India, e’ il sistema della caste, piu’ veloce di qualunque multinazionale, a trasformare la poverta’ prima in una colpa e poi in un destino.

Questi bambini vestiti da dio non hanno bisogno di un lavoro (Sai Baba forse) ma di essere liberi, come i cani.

L’India ama i suoi bambini, ma non ama i suoi cani.

Ma io, ovviamente, non posso non amarli.

Perche’ hanno tutti la stessa faccia dei miei disegni, e sono sempre dappertutto anche se nessuno li vuole.

E sopratutto perche’ i cani, pulciosi come a volte certi bambini, sembrano essere l’unica cosa in India a non essere sacra.

Kerouac, che resta una delle ragioni principali per cui non odio l’America ma i suoi Presidenti, diceva che gli uomini buoni hanno karma di colombe.

Io, che non so con certezza dove stiano il buono e il cattivo, qui oggi ho karma di cane.

A Kudle Beach sono arrivate due svedesi.Una sembra un orso di peluche appena uscito da una vetrina, e dice sempre “Jesus God”, l’altra, che non e’ bionda e non ha gli occhi azzurri, quando sorride fa impazzire le onde e i granchi escono da sotto la sabbia per applaudire.

“Too Shy”, troppo timido, mi diceva Nir, per essere italiano.

Non so, ma “shy” e’ una delle parole inglesi che mi piacciono di piu’.

L’inglese, che non imparero’ mai a parlare ma forse sto imparando a leggere, e’ una lingua bella.

Leggo ancora John Irving, considerandomi fortunato per aver stupidamente sempre ignorato i suoi libri, cosi’ ora devo ancora leggerli tutti.

Mi serve ancora il vocabolario ovviamente, ma e’ utile, e a volte mi accorgo, con stupore, che anche l’inglese ha tutte le parole.

Ogni tanto vado a Gokarna (per la rete per esempio, in spiaggia c’e’ un internet cafe’ ma o non c’e’ corrente o non c’e’ connessione, o come oggi per comprare una penna) e passeggio guardando i pellegrini, i monaci, e la totalita’ dell’India in fiori e pitture davanti al tempio in cui ovviamente non mi fanno entrare.

E guardo le decine di quelle che sembrano offerte votive, stauette di cobra dentro a piccole nicchie, che circondano il tempio di Naga, il dio serpente.

Poi, torno in spiaggia.

Dicendomi (come sto facendo ora) che il mattino dopo prendero’ l’autobus del mattino per Palolem, quella che secondo la Lonely Planet dovrebbe essere la spiaggia piu’ bella di Goa, distante soltanto tre ore.

Anche se lo svizzero vestito di conchiglie, che e’ stato a Goa per il full moon party ed e’ tornato ieri, mi ha detto che Palolem e’ un inferno di shop che ti chiamano mentre cammini, come nei miei peggiori incubi del Rajasthan.

“Non mi piace l’atmosfera che c’e’ a Goa”, dice “troppa gente che sniffa e cose di questo genere.” Siccome entrambi sappiamo, essendoci passati a vicenda uno dei chiloom che nel dopocena il barista implora di fumare, che non abbiamo nulla contro nessun tipo di sostanza, so che vuol dire: assicurati di avere un buon lucchetto per la tua stanza, e di affidare sempre a qualcuno le tue cose quando vai in acqua.

Insomma, immagino,la cosiddetta noia della vita, che qui a Gokarna, sembra ancora lontana.

A Kudle Beach non solo lascio la mia borsa in spiaggia quando vado in acqua ma spesso lascio anche aperta la porta della mia capanna.

(tanto ha una porta di carta velina che si butta giu’ con un urlo) Anche Jeff e’ stato a trovare un suo amico a Goa e poi e’ tornato.

“Goa e’ bella ma tre giorni sono abbastanza.” Ma ci andro’ a Goa.Forse domani, forse dopodomani.

Anche se ogni sera, quando cammino sulla spiaggia al tramonto verso una birra, il bagnasciuga che diventa uno specchio, e mi fermo controsole a guardarmi attorno, mi chiedo davvero come trovare la forza per muovermi da qui.

Dove quando non so cosa fare guardo il mare, e se non c’e’ la luna e quindi nemmeno il mare, guardo il buio.

Dove al mattino la riva e’ piena di stelle marine che hanno perduto la strada, e alla sera arrivano gli uccelli e i falchi, e ieri, nel cielo del pomeriggio c’era probabilmente uno pterodattilo.

E dove tutto succede sempre quando deve succedere.

Gokarna 050202 —————————————————————————– 07.02.2002 DISCLAIMER: Questa cosa non contiene nulla di interessante riguardo al viaggio, quindi, anche se purtroppo lo saprai solo dopo averla ricevuta, se non vuoi leggerla, cancellala.

Zen mail.

Mi piace il Sea Green Cafe’ perche’ e’ solamente indiano, e non concede quasi nulla alla mitologia freak.

Ci sono tavoli e sedie (solo i turisti si siedono sulle stuoie), niente poster di Bob Marley e la musica di solito sono dei sitar rallentati dall’antico mangianastri appoggiato al frigorifero, che e’ invece quasi nuovo, e tiene fredde le birre.

Dove sta Jeff, due chai shop piu’ in la’, c’e’ un solo tavolo basso e quasi perennemente i Doors.

Probabile questo si rifletta anche nella clientela, visto che ogni tanto c’e’ qualcuno che dorme per terra, scordato dopo un chiloom di troppo.

Ci sono anche Mark e Gerson, inglesi, e alcolizzati.

Bevono whisky (indiano) e coca dal primo mattino, facendo scuotere la testa ai cuochi e ai baristi, abituati forse a facce annullate dall’oppio ma non a due Bukowsky occidentali.

Mark e’ tranquillo, beve e disegna, Gerson (o qualcosa del genere), e’ piu’ schizzato ma in fondo (se si tralascia la disperazione) simpatico.Ha il pregio, se cosi’ vogliamo chiamarlo, di portare sempre una ventata di tensione in un’atmosfera spesso felicemente immobile.

Anche nei momenti di pace migliore infatti, i fuochi artificiali che escono dalle tasche laterali dei suoi pantaloni insinuano un’aria di sorpresa e di pericolo.

Perche’ nessuno sa quale sara’ il prossimo cane a cui Gerson mirera’ con un razzo infilato in una bottiglia di coca cola, o il prossimo turista che vedra’ il suo arrivo salutato con una trentina di petardi fatti esplodere in spiaggia.

Anche questo preoccupa i baristi.

Ieri, nel chai shop alla fine della spiaggia, e’ andata a fuoco una capanna, sembra una candela creduta spenta e invece ancora viva.

Io e Jeff abbiamo lasciato il backgammon e siamo corsi insieme agli indiani, senza torcia e completamente inutili.

Non abbiamo nemmeno visto il fumo ne’ capito bene cos’era successo.

Hanno dovuto dircelo dopo.

Probabilmente e’ stato il “good one”.

In questo ribaltamento della domanda e dell’ offerta, cosi’ curioso per me che vengo da una stato cattolicamente proibizionista, io e jeff per chiedere del fumo abbiamo tirato fuori le nostre scatole, con l’ultimo rimasto del fumo peggiore, e abbiamo detto: “Non vogliamo questo (benche’ in Italia, “questo”, sarebbe un sogno), capisci? Piu’ morbido, piu’ buono.” “The good one.” ha detto l’indiano.

“The good one” a Gokarna sembra essere il cream.

Quando il giorno dopo ce l’ha portato, e abbiamo visto quella specie di spugna di olio che stonava solo a guardarla, lo stesso, noiosamente, abbiamo contrattato il prezzo e chiesto di provarlo.Ma sapevamo.

Quasi contemporaneamente abbiamo detto al terzo tiro: “sinceramente, amico, questa e’ una delle cose migliori che ho fumato in vita mia.” Puo’ sembrare che io parli soltanto di hashish, ma mentre fumo faccio anche molto altro.

Prima per esempio, parlavo con Angelos, mentre fumavamo una canna d’erba gigante che mi ha spiegato essere una forma di ospitalita’ che deriva dai Turchi.I greci, in ricordo di quando la maggior parte dell’erba veniva dalla Turchia hanno assunto l’abitudine di fare giganteschi joint (tre cartine) perche’ si possano fumare lentamente in gruppo, come in un antico accampamento.

“La mia ragazza e’ tedesca” mi diceva “l’anno scorso era da me in inverno, e a Salonicco e’ nevicato per due giorni di fila.

Ovviamente, siamo stati in casa due giorni.Lei non capiva, diceva che in Germania quando nevica tutti fanno lo stesso tutto.

Ma per noi e’ troppo freddo.

In Grecia, quando nevica, stiamo in casa.” Domani, e’ deciso, vado a Goa.

Lascio a qualcun altro il compito di difendere “giovane”, il cane giovane, dalle angherie del vivere in India.

D’altra parte, e’ intelligente come una pietra e saggio come una stufa.

byez ———————————————————————– 15.02.2002 GOA (Palolem and Chapora/Vagator) Mentre faccio colazione a Gokarna, con lo zaino appoggiato alla sedia, conosco Isabelle e Valerie, di Parigi.

Anche loro stanno andando a Goa, cosi’ dividiamo il taxi.

Sono in India per la seconda e la sesta volta, sono belle e Valerie rolla in continuazione (in India c’e’ sempre qualcuno che rolla in continuazione).

Io non so ancora dove andare, in verita’.

Loro vanno a Palolem, la prima spiaggia, e cosi’ ci vado anch’io.

Scappano, ma lo fanno bene e da parecchio tempo, dalla vita ricca dei sabati sera e delle boutiques della buona, forse buonissima, borghesia parigina.

Sul treno per Palolem ascolto Isabelle parlarmi dettagliatamente di un posto in cui sa che non andro’ (a volte il charas…).

Ma resto ad ascoltare mentre mi parla di montagne e di valli dove la marijuana cresce libera ed altissima, e dappertutto.

“Se quando scendi alla stazione degli autobus vai a fare pipi’, la fai su una pianta d’erba” A Palolem sono loro a farmi vedere i posti (Isabelle c’e’ gia’ stata) e farmi scegliere dove dormire.

Scelgo una capanna sulla spiaggia in una minuscola spiaggia, proprio accanto alla lunghissima spiaggia di Palolem.

E’ forse il giorno piu’ facile della mia vita in India.

C’e’ un momento, in cui siamo sulla spiaggia, io con la testa appoggiata a una specie di piroga, Valerie che rolla alla mia sinistra e Isabelle che prende il sole sulla destra; se guardo in alto, vedo il sole proprio accanto alla palma di fronte a me, come in una cartolina.

Mi manca soltanto un cocktail in mano e poi ho realizzato il sogno dell’italiano che gioca tutte le settimane al totocalcio.

Ma non e’ cosi’ perfetto.Palolem e’ una spiaggia magnifica, piu’ bella (forse) di kudle beach, qui ci sono soltanto palme, ma la prima volta che ho visto i lettini bianchi sulla spiaggia ho sentito un brivido lungo la schiena.

Siamo a Montecarlo? ho pensato.

E Palolem e’ un po’ Montecarlo senza il Casino, o Copacabana senza il samba, e senza le ragazze che lo ballano.

E siccome vuole essere mantenuta tranquilla, la spiaggia e’ piena di poliziotti in borghese e non.

Terranno forse tranquille le famiglie, un po’ meno me.

Insomma, e’ probabilmente vero che io non sono mai contento ma questo posto e’ un fottuto Club Med.

Richie, un gallese senza peli tranne che due piccoli baffi, tranquillo e gentilissimo, se ne va domani, dopo essere stato qui 6 mesi.

La famiglia che gli affitta la stanza ha organizzato una festa e una cena, a cui ovviamente siamo tutti invitati.

Stiamo prima sotto il portico a fumare chiloom e tutte le erbe del mondo, mangiando squalo fritto (la mia prima volta).

C’e’ un russo, un tedesco con sua moglie, cosi’ stonato che solo un miracolo puo’ averlo salvato finora in sella alla sua Enfield 750.

Altri francesi, qualche indiano, una donna che sembra un uomo, e ogni tanto, della cattiva filosofia.

E, ovviamente, techno, trance e volume a palla.

Qualcuno balla, io come al solito mi limito a restare leggermente meno immobile del solito.

La donna che sembra un uomo, tedesca ma nata ed educata nell’Algeria francese, comincia a schizzare, e mi grida, con le mani a coppa, che questa musica non le piace, perche’ la rende nervosa.

Non faccio che muovere la testa, non riuscendo forse a fare altro, ma in fondo vorrei dirgli forse allora non dovevi venire a Goa.

Forse non dovevi venire a questa, seppur piccola, festa.

E di certo, non dovresti stare cosi’ vicino alle casse.

Ma Goa e’ il posto dove piu’ facilmente la parola “freak” prende la “s”, diventando “freaks”, mostri, ed e’ chiaramente piena di chi abita un altro pianeta.

Anche se non e’ quasi mai un pianeta che venga voglia di esplorare.

Se potessi guardare da vicino il pianeta con un telescopio, so che mi apparirebbe come un pianeta infelice, e solo.

Come una luna senza cani, come Marte senza i marziani.

E Goa, come tutta l’India, sembra essere piena, davvero piena, di gente che sa come stanno le cose, e ti dice cosa e’ giusto e cosa e’ sbagliato.

(“non voglio dirti cosa e’ giusto e cosa e’ sbagliato, ma…”) Ma io non sono pronto per questa sicurezza, troppo affine forse, anche se potrebbe essere un bene, alla semplicita’.

Non mi basta essere vivo; non mi basta enjoy nature and life.

Il divertimento deve la sua esistenza allo stile di vita, incentrato sul lavoro e la produzione, e mescolato col pensiero cattolico della colpa e del sacrificio, a cui ormai siamo abituati.

Esiste soltanto come riflesso di qualcosa che ci diventa cosi’ insopportabile da costringerci a prendere delle pause.

Se smettessimo di affidare le nostre vite a un grottesco sistema che ci vede paradossalmente essere consumatori, alimenti e distruttori del sistema stesso, probabilmente il divertimento non avrebbe piu’ senso.

Troppe volte il divertimento e’ soltanto lo spreco della cosa migliore che abiamo: il tempo libero.

Non ho soluzioni, chiaro, ma bisogna essere felici.

E siccome alla fine probabilmente una parte di me viene da Rimbaud e da Baudelaire (non queste persone allegre) alla fine credo che si puo’ anche non essere felici, forse e’ sufficiente essere densi.

Platon Fred GOA (CHAPORA/VAGATOR) Lascio Palolem e decido che gia’ che sono a Goa tanto vale che vada nel centro della commercialita’, Chapora e Vagator.

Se mi fermo a bere una birra in uno dei bar sulla strada, posso vedere la sfilata di motociclisti tatuati (grazie a dio ho anch’io un tatuaggio, altrimenti mi sentirei nudo)che cavalcano delle enormi Enfield.

Per quanto Valerie e Isabelle mi abbiano detto di avere visto anche indiani alla guida dellle Enfield, io non ne ho mai visto uno.

Gli indiani che possono permetterselo, guidano delle veloci e leggere Suzuki di picola cilindrata.

Sara’ perche’ ci sono strade in India (non a Goa, dove se stessi di piu’ probabilmente noleggerei anch’io uno scooter, le strade sono larghe e nuove) dove una Enfield non passa nemmeno.

Goa e’ piccola, splendida e cattolica.E’ un posto dove si riposano i viaggiatori prima di andare sulle montagne, o dove si viene in villeggiatura.

Ma non ho tempo per capirla, ne’ per affittare uno scooter, e comunque, sinceramente, non starei mai 3 mesi a Goa.

Arrivandoci dopo 2 mesi, la mia prima volta in India, con ancora tutte le visioni da riflettere e da mettere insieme, Vagator sembra decisamente Riccione, o come immagino debba essere Ibiza.

Non ho piu’ l’eta’ per mangiare degli acidi in continuazione, e sto tornando verso un nulla incorniciato da un conto in banca quasi a zero.

A Goa si sta bene, ma si sta solo bene.

Ora, non e’ abbastanza.

Fondamentalmente, anche se so che e’ un giudizio un po’ affrettato, a Goa non c’e’ niente che non so.

E sopratutto, credo, ho voglia di muovermi.

A parte gli eroismi del viaggiatore, da buon turista ho voglia di riprendere in mano la Guida (“your bible”, come la chiamano in Rajasthan) e guardare cosa mi dice di questo o di quell’altro posto.

Alcuni dei momenti importanti di questo viaggio sono state anche le notti in cui nel fumo della mia stanza spiegavo la cartina sul letto, aprivo la guida, sfogliavo l’orario dei treni e mi dicevo: “Dove vado domani?E sopratutto, come ci arrivo?” Cosi’ decido di andare verso Omkareshwar, un posto piccolo piccolo in Madya Pradesh, il centro dell’India, passando per Bombay.

Perche’ mi mancano un sacco di cose ma credo starei volentieri in viaggio qualche altro mese.

Come John Irving fa dire ad Homer Wells, in una di quelle frasi che sembrano scritte apposta per il momento in cui le stai leggendo: And how do I say, “I miss you”? he wondered – when I don’t mean, “I want to come back!”? GOA (Madgaon) Madgaon, in cui sto solo mezza giornata, non ha nulla di particolare da offrire, tranne forse quell’atmosfera indiana di tensione continua che scopro essere (sembra assurdo lo so) quello che mi mancava a Palolem e Chapora.

Verso sera, vado come al solito alla deriva, dalle parti del mercato.

Per quanto stia andando a Bombay e non possa cambiare per due giorni e mi siano rimaste poche rupie, voglio comunque bere la mia ultima birra di Goa.

Vedo due piccoli caffe’, dalle vetrine interamente ricoperte di bottiglie di alcolici, cosi’ tipici delle spiaggie di Goa, che senza pensarci entro nel primo.

Al contrario di Chapora pero’, qui le pareti non sono dipinte con funghi o disegni psichedelici, niente lungi colorati alle pareti, che sono invece color arancione spento.

Il posto e’ piccolo, affollato e quasi buio.

Solo uomini, con facce lombrosianamente criminali o quantomeno non cosi’ amichevoli.

Sono i facchini del mercato, credo, sono qui a sbronzarsi dopo, o probabilmente durante, il turno di lavoro.

Bevono improbabili liquori mischiandoli alla soda, o mischiandoli tra loro.

Vorrei dire ehi guardate che alla fine facciamo lo stesso mestiere, ma il mio aspetto, sopratutto quando viaggio, e’ estremamente europeo, e per quanto i miei vestiti siano sporchi e strappati, so di sembrare molto piu’ ricco di quanto sia in realta’.

Insomma, e’ una di quelle volte, (un’altra volta in Brasile ma allora era un bar per gay), in cui so di essere entrato nel posto sbagliato.

Vado nel tavolo in fondo, l’unico libero, alterno sguardi al telegiornale che non comprendo a pose in cui fingo di ripassare tutte le arti marziali che la mia vita da pericoloso agente segeto mi ha insegnato (“amico, posso romperti un braccio con un dito”, vorrebbe dire il mio sguardo).

Ma alla fine, a parte qualche occhiata e qualche “hello” biascicato, non mi succede nulla.

Gli indiani sono gente tranquilla.Bevo la mia Belo, saluto, ed esco.

E forse, mi sento meglio.

BOMBAY (MUMBAI) Quasi tutti quelli con cui ho parlato, odiavano Bombay.

A me, come le altre grandi citta’ che ho visto in India, piace moltissimo.

E’il posto perfetto per dire che in India non ho trovato me stesso ma un sacco di altre persone.

A Bombay, nessun dubbio, c’e’ davvero un sacco di gente.

Durante le ore di punta tutti sono dappertutto, sembra che non ci sia piu’ spazio; ci sono tutte le cose, tutte le facce, tutte le scarpe, tutto di tutto.

C’e’ anche una strada in cui ci sono i pittori di insegne.

Stanno sui marciapiedi fuori dalle loro botteghe a dipingere lettere in hindi sopra strisce di tessuto, con dei pennelli piccoli e piatti.

Sono tutti bravissimi ma ieri c’era un vecchio con una mano cosi’ ferma, perfetta e veloce, e un segno cosi’ puro ed efficace che stavo per gettare tutti i miei disegni in mare.

Bombay e’ anche la citta’ piu’ cara dell’India.

Grazie al consiglio di un olandese con cui condividevo la tragica attesa all’ufficio prenotazioni ferroviarie di Panaj (GOA), sto all’Hotel Prince (camera 17), vicino alla stazione Victoria Terminus (magnifica coi suoi leoni e i suoi mostri gotici che le escono dalla testa).

Per Bombay e’ veramente cheap, pago soltanto 175 rupie.

E’ forse il posto piu’ basso, piu’ misero forse, in cui ho dormito.

La mia singola al primo piano (bagno esterno) e’ lunga circa 2 metri e mezzo e molto piu’ stretta delle mie braccia allargate.

Sono stanze costruite dal nulla, senza finestre, e i muri, o meglio le pareti, sono di compensato.

E c’e’, inspiegabilmente, sempre qualcuno che dorme in terra nel corridoio.

Ma in camera ho uno speccchio, un posacenere e un cestino, le tre cose (le ultime due quasi sempre) che spesso mancano nei budget hotel indiani.

Bombay e’comunque una citta’ geniale, con tutte le antichita’ e tutte le modernita’, e camminare alla sera per Marine Drive, il lungomare sulla baia, coi grattacieli in lontananza, fino a Chowpatty Beach, dove tutti vendono tutto e i giovani innamorati fanno gli attori davanti alla luna, e’ allegro e’ magnifico.

E ho visto il Gateway of India, questo arco gigante, proprio sul mare, e l’Universita’, un incrocio tra Notre Dame e il nome della Rosa.

E questa mattina un indiano mi ha portato a casa sua dove sua madre, 300 anni, ha estratto prima una piccola valigetta che conteneva una bilancia e poi una palla di afgano grande come due palle da tennis.

Non ho comprato pero’,troppo caro.

L’ho detto che Bombay e’ la citta’piu’ cara dell”india.

Ma a parte questo, e’ un posto fantasico e non credete a chi vi dice il contrario.

Probabilmente non gli piacerebbe nemmeno Rio de Janeiro e nemmeno New York.

“Odio Bombay, vado la’ un paio di giorni a trovare degli amici, poi torno a Goa.” mi ha detto la ragazza (anche lei di Parigi tra l’altro) con cui ho diviso la mia ultima sigaretta in treno, “e’troppo grande, non sai mai dove sei.” E’ vero solo in parte, e poi, altrimenti, dove starebbe il bello? Dio mi guardi, ho pensato in quel momento, dal sapere sempre dove sono.

Stasera parto per Indore, da dove domattina dovrei prendere un autobus per Omkareshwar.Anche Nir ci sta arrivando, ma credo non faremo in tempo a beccarci, peccato.

bzzzzzzzzzzzzz ————————————————————————————————- 16.02.2002 AN INDIAN TALE E’ difficile trovare un treno per Indore.

Ce n’e’ solo uno, e tutti quanti, indiani e turisti, in questi giorni sembrano andare verso nord.

Vado percio’ in un’agenzia e ci accordiamo per 200 rupie extra oltre il prezzo del biglietto, che dovrebbero servire come mance.

Il segreto e’ la waiting list, o meglio, scalare la waiting list.A Calcutta sono partito cosi’ sotto le feste di Natale.

Vado a prendere il biglietto alle 17, e mi dicono di tornare alle 18.Il treno e’ alle 19 e la stazione di Central Bombay non e’ cosi’ vicina all’agenzia.

A condividere la mia sorte c’e’ un ragazzino di Hong Kong, da cinque giorni in India, per una vacanza di 10 giorni.A lui e’ stato promesso un biglietto per Delhi.Alle 18.00 ci portano in taxi in stazione , apparentemente gratis, ma ancora dei nostri biglietti non c’e’ traccia.

Domando cose al ragazzino perche’ molti viaggiatori mi hanno detto che Hong Kong e’ il posto piu’ bello che abbiano mai visto.

Mi dice che in effetti non e’ male, ma e’ molto cara.

Ma anche i salari, ovviamente, sono spesso adeguati.

“Io lavoro con i computer, niente di che, risolvo i problemi in una ditta, troubleshooting insomma.

Prendo all’incirca 5000 dollari al mese.” Si, non male.

Siamo sul marciapiede N. 14 ad aspettare i biglietti, mezz’ora prima della partenza prevista del treno, perlomeno il mio.

Il ragazzino continua a parlare di come Bombay sia sporca (sta andando a Jaipur, li’ gli verra’ un infarto) e sembra avere in tutto una fiducia cieca.

Ma io so che c’e’ qualcosa che non va.

Alla fine, la waiting list si basa anche sulle cancellazioni dell’ultima ora ma non dell’ultimo minuto.

Un tipo dell’agenzia di viaggi mi dice di andare con lui e mi da’ un biglietto.

Se fossi in India da 5 giorni ci sarei cascato.

Ma grazie a dio ho visto molti biglietti di treno.

E vedo che innanzitutto e’ un biglieto per Bophal.

Chiedo al primo passante se il treno ferma ad Indore, e lui risponde di no, facendo incazzare il mio accompagnatore.

Sui biglietti indiani, quando impari a leggerli, c’e’ scritto tutto.Ovviamente la partenza e la destinazione, il numero e il nome del treno, l’orario di partenza, la classe, l’orario di acquisto ecc.

Il biglietto che ho in mano e’ un biglietto in classe ordinaria (cioe’ senza posto, ne vendono quanti ne chiedono), per Bophal, comprato 15 minuti prima per 170 rupie (io avevo pagato 300 per la sleeper class).

Sono stato accondiscendente molte volte in India, perche’ mi sento un ospite, perche’ sono una persona tranquilla e perche’ e’ troppo facile pensare che tutti gli indiani vogliano imbrogliarti quando cosi’ assolutamente non e’.

Ma questa volta e’ troppo chiaro.

La cosa che mi fa piu’ incazzare non e’ il tentativo maldestro di truffa quanto che se non me ne fossi accorto avrei viaggiato per 12 ore in piedi schiacciato tra persone e sacchi di iuta.

Cosi’ urlo.

Allora l’accompagnatore mi porta dal suo boss.

E ovviamente grido al suo boss, in mezzo alla folla della Central Station, e il mio inglese non e’ mai stato cosi’ fluido, preciso, lo intercalo con qualche “porca madonna” e non balbetto nemmeno.

E ogni volta che urlo la parola “cheat”, imbroglio, mi viene in mente quando giocavo a Diablo in rete.

Il boss mi rida’ senza storie le mie 500 rupie.

Esco dalla stazione pensando se dare 100 dollari agli spacciatori che circolano nei pressi del Taj Mahal Hotel per dare fuoco all’agenzia di viaggi.

E quando ci penso, sono sinceramente preoccupato per il ragazzino di Hong Kong che era in India da 5 giorni e sembrava fidarsi di tutti.

Io sono ancora a Bombay, lui potrebbe essere dovunque.

Tra poco prendo quindi un autobus (incrociando le dita)per Indore.

Giusto quelle 14 ore.

———————————————————————————– 22.02.2002 Lascio Bombay il 16 febbraio, probabilmente quasi nello stesso istante in cui Ursula Andress scende al Taj Mahal Hotel (350 dollari a notte, ma gli indiani dicono che non li vale).

Questa citta’, per quanto possa sembrare incredibile ha un lato, parola che odio, “glamour”.

Ed e’ anche stato il primo posto in India dove le ragazze mi guardavano.

Sapevo che Nir stava arrivando, ci sentivamo per posta, ma non mi aspettavo di vederlo alla partenza degli autobus.

Prendiamo due bus diversi ma andiamo nello stesso posto.

Ci rivediamo alla prima sosta di ristoro, entrambi ovviamente abbiamo un joint pronto nella borsa.Stavolta e’ lui, al contrario di me, ad avere dell’ottimo charas, che mi salva almeno 3 delle 14 ore di buche, salti, scossoni e tremiti di bus per arrivare ad Indore.

Da li’, prendo un altro autobus, per altre tre ore di strada peggiore, e finalmente, alle 14 arrivo ad Omkareshwar.

Un belga a cui ho chiesto informazioni sull’autobus mi porta in una guest house, o meglio, come si chiamano qui, darahmsala (forse).

Mi accoglie un vecchio (dai 40 agli 80) indiano bizzarro, che mi porta a vedere una stanza sulla terrazza.

A Bombay credevo di aver toccato il fondo, a Gokarna l’essenziale, ma l’India e’ sempre piena di sorprese.

Nella stanza c’e’ una ventola, che va fatta funzionare inserendo i fili direttamente nella presa, e una lampadina.

Nient’altro, tantomeno un letto.

Ma non posso non prenderla.Il posto e’ bello e a Bombay ho speso molto e sopratutto queste 4 mura mi costano solo 30 rupie (quando 48 sono un dollaro).

Non ho mai pagato cosi’ poco per dormire, nemmeno nel deserto.

In questo modo comunque, stavolta dormo davvero per terra.

E passo da uno dei nascondigli di Moro (questo mi ricordava la mia stanza a Bombay) a una specie di cella con due nicchie e nessun letto.

Questo posto e’ strano dal primo momento.

Scendo per chiedere dov’e’ la doccia.

“Chiloom after?” mi chiede il vecchio, “I have chiloom, you have smoke”, aggiunge.

Risalgo per una delle tre scale che portano sulla terrazza.Sul pianerottolo del primo piano c’e’ una scimmia grande come un bambino che non mi lascia passare.Dovro’ abituarmi, questo posto, e il posto dove dormo, e’ pieno di scimmie.Sono scimmie rosse, che possono anche essere aggressive.

Rifletto se costruirmi una lancia con una canna di bamboo e il mio coltello.

Dopo la doccia, lo squilibrato che sembra gestire questo posto mi chiama di sotto e mi mostra il solito libro da compilare coi dati dei miei documenti.

“You, together, police station” dice in continuazione.

“ok, Andiamo”, dico, ma lui continua a ripetere solo queste 4 parole.

Alla fine comprendo che together significa tu e il libro andate dalla polizia, poi me lo riporti.”Together”.

E’ la prima volta che devo andarci io, ma questo posto e’ cosi’ strano che vado alla stazione di polizia.

E’ su una piccola collina, di fronte alla fermata degli autobus all’ingresso del paese.Due tavoli fuori sotto un portico, davanti a 2 stanze con la porta aperta; alcune moto, senza nessuna insegna, sono parcheggiate nel minuscolo cortile.

In piedi, e seduti sui gradini c’e’ un sacco di gente.

Non si capisce chi siano i poliziotti, chi i delinquenti (se ci sono), chi sia li’ per caso, chi sia amico dei poliziotti o amico dei delinquenti (se ne hanno).

Il poliziotto che sembra in comando comincia a compilare il foglio con i miei dati e poi mi chiede, per la prima volta in vita mia credo, l’impronta digitale del mio pollice sinistro.

Vedo che e’ una pratica comune.

Per un attimno, rifletto sul dire no ed andarmene da questa citta’.

Chiedo se e’ obbligatorio.All’ovvia risposta affermativa, intingo meno che posso il dito nell’inchiostro e lo schiaccio sulla carta sperando di confondere le linee.Ma temo non sia servito.

Ora i cattivi sapranno per sempre chi sono.

Poi, finalmente, vado alla deriva per Omkareshwar.

E’ un posto molto piccolo, tra due fiumi che creano un’isola di una parte del villaggio.Estremamente sacro, come a Pushkar infatti, sono proibite le uova, la carne e gli alcolici.E pieno di templi, costruiti sulle colline a ridosso del fiume, e di boschi, pieni di scimmie e di scoiattoli.

Sono io questa volta a restare colpito.Io che ho trovato Bombay glamour.

(“Sono ancora terrorizata da Bombay”, mi ha detto la ragazza che ha fatto il viaggio con Nir.) Questo posto e’ cosi’ intenso, profondo, denso, indiano, che mi lascia senza respiro.I negozianti non mi guardano nemmeno, e le persone, sopratutto i bambini, tornano a guardarmi come un alieno.

Non c’e’, nemmeno alla stazione degli autobus, una sola scritta in inglese.

E Rivedo tutti gli animali dell’India:cani, muli, mucche, capre, maiali, scimmie e bufali tutti liberi e selvaggi per strada.

E ho visto anche una scimmia che prendeva a schiaffi un cane.

Capisco perche’ chi c’e’ stato mi ha detto che e’ un posto dove bisognerebbe stare settimane.Ogni metro di questo luogo andrebbe esplorato a fondo.

Compro per le strade, dai venditori di meravigliosa paccottiglia religiosa, un baby Krishna in ginocchio, perche’ mi spaventa.

Lo metto in una delle nicchie della mia stanza, insieme alle uniche cose, a parte la mia magnifica collezione di oggetti di metallo, che credo terro’ tra tutto quello che ho comprato in India.

Il Buddha che mi ha regalato Nir quando ci siamo salutati a Kochi, un Ganesha dentro a una cupola di vetro, preso in treno, che circondo di due braccialetti poveri che ho comprato a Varanasi; una cartolina di Hanuman, Re delle Scimmie, e una con la foto di un cobra.

E infine un piccolo Nandi, il toro cavalcatura di Shiva, che ho comprato a Gokarna 2 settimane fa.

Ormai mi manca forse soltanto una statuetta di Nataraj,o Shiva danzante.

Gli hindu credono che il mondo sia stato creato quando Shiva (creatore e distruttore) ha scosso l’universo ballando la danza cosmica.

Vado in giro, di sopra, di sotto, per 5 rupie atrraverso il fiume in barca, mi siedo a bere una soda.

Guardo sfilare i pellegrini, gli animali, i sadhu, i bambini, tutti.

Sulla montagna, per la festa che ci sara’ nei prossimi giorni, e’ stato disegnato con pietre e gesso un gigantesco Om.

Un bambino vestito di leopardo spinge un triciclo.

Vado sul ponte che collega il villaggio all’isola.Ci sono uccelli grandi che volano in alto, e uccelli piccoli che sfiorano il basso.

E, sembra incredibile, pesci che saltano nell’acqua.

Mentre guardo al tramonto le nuvole rosa, complice probabilmente il charas, quello che vedo mentre fumo sul ponte e’ un luogo dove ci sono piu’ dei di quanti forse ne esistono davvero, sospesi sopra un fiume dei sogni circondato di templi.

La racconto come la so, con tutti gli errori del caso.

In India quando un fiume si biforca, il posto diventa sacro.

Ad Omkareshwar il fiume che si biforca e’ il Narmada, il terzo (credo), dopo il Gange e lo Yamuna, tra i 7 fiumi piu sacri dell’India.

E se questo non bastasse c’e’ anche uno dei dodici (soltanto dodici in tutta l’India) BARA YOTI LINGAM.

Il lingam e’ un simbolo fallico riferito a Shiva, ce ne sono molti in tutti l’india, ma solo altri undici hanno l’importanza che ha questo in un tempio di Omkareshwar.

I nomi dei dodici bara yoti lingam detti in sequenza compongono un mantra.

E oggi, 19 febbraio, e sono fortunato, e’ il compleanno del Narmada.

Le strade sono affollate come solo in Brasile per il carnevale.Tutto e ‘ lampadine intermittenti come solo l’India puo’ confusionare, e questo posto e’ cosi’ puro, vero, indiano.

In India a volte si hanno solo due scelte: o stare in camera o andarci in mezzo.

Io e Nir e un altro israeliano ci andiamo in mezzo.

Allora vedo tutto quello che le parole non sanno dire.

Tutti i colori che si accendono e sfumano, la gente, centinaia di persone, che lascia nel fiume le fiaccole (e lo facciamo anche noi), e la corrente le porta via, creando una striscia di fuoco.E andiamo sul fiume in barca, circondati di fiamme, e anche le colline sono piene di fuochi, sembra tutto un incendio, le scale che scendono dal monte e dal tempio sono anch’esse illuminate di fiaccole.

Poi accendono anche l’Om gigante, e mentre ascoltiamo il mantra ripetuto all’infinito e guardiamo questa scena di assedio e di festa, dove tutto brucia e canta e crede, siamo anche noi per un attimo parte di questo posto cosi’ puro, cosi’ denso, cosi’.

Omkareshwar mi ha colpito, davvero.Non i suoi sadhu, che piacciono tanto agli occidentali, ma che io considero egoisti come monache di clausura o business men, ma il luogo, la gente, il fiume, tutto sembra essere puro.

E’ una parola che ho usato a sproposito centinaia di volte.Qui credo si riprenda il significato che ha.

Sul mio ultimo treno non passa nessuno a chiedermi cosa voglio per cena.

Cosi’ accetto il cibo che mi offre la famiglia indiana cche viaggia nel mio scompartimento.Patate, lenticchie, gobi, paratha, limone agrodolce.

Molti turisti non mangiano il cibo indiano, e non parlano quasi con gli indiani.

Perche’ sono invadenti, a volte incomprensibili, spesso forse semplicemente troppi.

Ma sono sempre pronti a dividere quello che hanno, e sono curiosi, e a volte ingenui o semplici (per alcuni la semplicita’ e motivo di scherno, io finche’ posso, preferisco commuovermi), anche se in realta’ non ne riusciamo a vedere la complessita’, cosi’ ben nascosta da un alfabeto di gesti e di atteggiamenti troppo difficili da comprendere in poco tempo.

E sono sempre in festa, sembra, e sempre cosi’ vicino a dio, e insomma, credo che mi mancheranno.

Sto a Delhi piena di polizia, di polvere e di tutto.

Ma sto tornando.

Ultima trasmissione.

Basta scrittura, probabile ce ne sia stata troppa.

Con alcuni di voi, ci vediamo davvero presto.



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