Mail ai miei amici dall’India di 2 Parte
TRAINS 2 Il treno per Calcutta e’ in ritardo soltanto di 3 ore e mezza, ormai un nulla.
Nella mia batteria di cuccette ci sono due vecchi indiani, un australiano che e’ un hare krishna, un israeliano che suona la batteria da quando aveva sei anni, e un giapponese con un orecchino piantato nel mento.
Come se non bastasse, io indosso i mieie occhiali ghandiani che ho contrattato per 15mila lire a Jaipur.
Sembra una barzelletta, e forse.
I due vecchi sono splendidi, l’australiano li fa ridere dandogli il biglietto del bhang shop di Jaisalmer che usavo come segnalibro, e quando ridono sembra che si accartoccino.Sono evidentemente fratelli, hanno gli occhi trasparenti e devono avere piu’ o meno 400 anni.
Il giapponese cerca per cinque minuti di dirci a quanto ammonta la popolazione di Tokyo.Lo fa contando sulle dita, cercando di convertire il numero in inglese, e dopo un po’ rinuncia.
L’israeliano parla del servizio militare, che tutti nel suo paese devono fare a 18 anni e, se ho capito bene, dura tre anni e mezzo.
Per questo ci sono un sacco di israeliani in viaggio, dice, festeggiano la fine della ferma.
A causa dell’asma, ha passato il tempo nell’esercito come addetto alle Comunicazioni, ma avrebbe voluto essere un combattente (fighter), come i suoi amici, tutti nei carristi.
Gli chiedo se gli piace la guerra e mi risponde che no, voleva soltanto difendere la propria terra e proteggere il proprio paese.
Non gli dico altro ma penso ancora a Emma Goldman, e ai tre concetti fondamentali, religione, patria e terra, che da quando il tempo era bambino non fanno che generare guerra e fame e terrore e morte.
E penso agli zingari, che il concetto di patria non ce l’hanno, e nemmeno quello di possesso di una terra, e infatti una guerra non l’hanno mai fatta.
Il giapponese e l’israeliano si mostrano la collezione di dischi, estraendo dagli zaini cd player e minidisc, e i due vecchi ci guardano come se fossimo appena arrivati tra gli indigeni con delle sacche piene di specchi.
Il giapponese, che e’ in viaggio da dieci mesi, ci chiede di tradurgli “ticket to ride’, perche’ ci sono alcuni passaggi che non riesce a comprendere.
E’ allora che dice di conoscere i Beatles da un mese.
I miei occhi non possono fare a meno di avere quell’espressione che grida: Eh?Ma come cazzo fai a non conoscere i Beatles?Vieni da marte?Sei cresciuto in una grotta sottomarina? “Il Giappone e’ lontano” sorride, e capisco che non intende in senso geografico.
Ma un po’ lo invidio, pensando a tutti i pezzi che deve ancora ascoltare, a tutta la musica che lo colpira’ e a quello che sentira’ e che lo fara’ sobbalzare.
Quando mi sveglio al mattino, l’australiano (molto simpatico) tiene acceso un incenso e legge un libro sul Kundalini.E’ seduto in mezzo ai due vecchi, che per tutto il viaggio sono stati distanti, uno appoggiato al finestrino e l’altro rannicchiato all’altra estremita’ della cuccetta.
Probabilmente e’ perche’ hanno gli occhi rasparenti, penso, e quando si gurdano tra loro si vedono attraverso.Probabilmente da troppo vicino questo li confonde.
L’australiano mi dice: “quell’uomo ha cambiato la mia vita.Prima bevevo, fumavo, e parlavo in continuazione.” Credo che legga sul mio volto la considerazione: potevi smettere di bere e di fumare con un po’ di buona volonta’ ed evitavi di tagliarti i capelli in quel modo.
Viva Las vegas.
Allora mi parla del potere della meditazione, e della tranquillita’, e del colore arancione (anche se lui, a parte la pettinatura, e’ un classico backpacker)che rappresenta l’astinenza dal sesso.
Appunto, penso, viva Las vegas.
Ci salutiamo alla stazione di Howrah.L’israeliano va in Thailandia, il giapponese cerca un biglietto scontato per tornare a casa, e l’australiano va a chiacchierare col suo maestro.
resto soltanto io a vagabondare per la citta’ e nei suoi giardini.
Ora so perche’ sono cosi’ magro.Sto diventando un elfo.
KOLKATA (Calcutta) Calcutta e’una citta’ bellissima, forse la piu’ bella che ho visto finora.
Le strade sono larghe, i giardini sono grandi e pieni di fiori e lo spazio e’ enorme, dappertutto, persino sui marciapiedi.
E’ anche la citta’ piu’ pulita che ho visto in India.E non ci sonno mucche per strada.Questo un po’ mi dispiace, perche’ mi sorride avere ogni tanto una mucca che mi cammina accanto nel traffico.
Calcutta, sara’ forse il clima (aehm, qui fanno 24 gradi)e’ una citta’ che mi sembra solare.
(E’ ovvio che in questa descrizione non rientrano i milioni di persone che nelle sue periferie e nelle sue baracche, vivono sconfitte tra spazzatura, cani morti e bambini color polvere) Al contrario di Varanasi, avvolta nella nebbia, dove c’era un’atmosfera quasi da ultimo giorno di assedio, tutti vendono tutto, si bruciano i morti, e si salvi chi puo’.
Paracadutisticamente non ho paura della morte, ma probabile a causa di cicatrici cattoliche non mi affascina nemmeno starle vicino troppo a lungo.
Qui a Calcutta i giovani sono eleganti e vestono felpe sportive, le ragazze oltre al saari portano i pantaloni e le gonne di jeans.
Per questo ovviamente, il quartiere universitario e’ uno spettacolo.
E’ una citta’ gigantesca, divisa dal fiume Hooghly, che all’opposto del Gange che trascina con se’ tutto quanto, sembra scorrere leggero sotto l’Howrah Bridge, un magnifico ponte privo di pilastri di sostegno, che lo stupido governo indiano non mi permette di fotografare da vicino.
Le strade sotto il ponte sono occupate dai venditori di ghirlande, una visione totale di fiori dove i miei passi diventano petali.
A Calcutta c’e’ anche il Victoria Memorial, un assurdamente grande edificio tutto di marmo bianco costruito dagli inglesi per autocelebrarsi.
Non male, ma per i miei gusti un po’ troppo brithish e regina madre.
Attorno pero’ c’e’ uno splendido parco di piscine, le cui panchine sono perfette per fumare uno spino di soppiatto mentre si legge il Telegraph.
Sono stato allo zoo, ovviamente.Quando ce n’e’ uno ci vado sempre, anche se non so piu’ il perche’.
Anche questo e’ triste e deprimente come tutti gli altri zoo del pianeta.
Ci sono dei coccodrilli che sembrano pietre, un rinoceronte senza corno, e dei felini evidentemente disgustati dal genere umano.
Ma perlomeno allo zoo, per un paio d’ore, condivido con gli animali in gabbia gli sguardi puntati addosso di tutti i bambini dell’India.
Calcutta e’ anche l’unica citta’ al mondo dove sono rimasti, e non solo come attrazione turistica, i riscio’ trainati da uomini a piedi.
Non ne ho ancora preso uno, vado quasi sempre a piedi, Calcutta permette il mio modo di vedere preferito, cioe’ la deriva.
E poi c’e’ la metropolitana.
Ma prima o poi prendero’ un riscio’ umano, e sapro’ com’e’.
Oggi sono stato al planetario, uno dei piu’ grandi del mondo, e ci ho visto piu’ stelle che nel deserto.
E al tempio di Kali (you keep yourself too busy, mi ha detto il padrone dell’albergo di Bikaner, e ancora ci rifletto)che e’ uno dei piu’ importanti dell’India.
Ci arrivo tra la folla, giusto in tempo per il sacrificio quotidiano.
All’interno del tempio, in un minuscolo recinto, un uomo ha tra le mani un piccolo agnello nero, che sembra essere tutto bagnato.
Il collo dell’agnello viene circondato di ghirlande di fiori, poi viene appoggiato tra due specie di legni, a cui viene aggiunto orizzontalmente un ferro lungo piu’ o meno di 20 cm, trasformando il tutto in un’apparente rudimentale ghigliottina.
Ma non c’e’ lama.
Un altro uomo si avvicina e con un unico colpo di spada(o quello che e’) taglia la testa dell’agnello.Il sangue schizza, e l’interno del recinto ne era gia’ pieno prima.L’uomo prende il corpo dell’agnello e la sua testa ed esce per portarli in una baracca li’ vicino, dove si prenderanno cura di quel che resta della vittima sacrificale.
L’unica cosa che sono riuscito a pensare, e che mi e’ uscita da un lampo di fumetti d’infanzia e’ stata: sono pazzi questi Romani.
Come regalo di Natale mi sono fatto una tola di Parvatia, come l’ha chiamto il tappetaro che me l’ha venduto.
Il nome viene dalla Parvati Valley, nel nord, e a sua volta da Parvati, moglie di shiva.
E’ come fumare un acido al gusto di miele.
Adesso quindi, in questo giorno che noi dell’ West abbiamo inventato per far nascere un bambino speciale, che in fondo dovrei essere anch’io, vado a farmi uno spino di comete che mi conduca verso una cena di pesce.
Buon Natale ——————————————————————————————— 01.01.2002 Eccomi, pensa Johnson, sono arrivato.
Adesso c’e’ un momento di pausa per lasciare aperta la porta del tempo trascorso, e ricordarsi.
A cominciare da quando si era svegliato a Bophal, in mezzo alla notte, il suo zainetto andato, e una voce nella testa che gli diceva: “dio ma quanto sei stato stupido, babi, bauscia, pirla, scemo, tonto..” E un’altra voce, piu’ forte, che aveva chiuso la bocca a quell’altra: “sei stato intelligente come un casco di banane, ma non e’ questo il momento di pensarci.” Quella voce, piu’ che il treno successivo, l’aveva portato ad Agra, davanti al Taj mahal.
L’esattezza, perfetta.
Johnson guarda l’acqua bassa, che prende luce.E’ un mare nuovo questo della Baia del Bengala, un altro mare in cui bagnarsi per arrivare a conoscerli tutti.
E poi arrivano gli altri pensieri, con un rumore di monete.
Il primo viaggio in autobus, verso Jaipur, di notte.
Da allora non aveva mai piu’ viaggiato di notte in bus, solo su un treno.Perche’ il treno e’ un continuo muoversi vivo, le persone che si spostano, le famiglie che mangiano, i venditori di tutto, le grida alle stazioni – chaaaai! chaaaai! – mentre l’autobus e’ come stare dentro a un frigorifero a luce spenta.
Non succede niente tranne andare su e’ giu’, e non si vede niente, troppo buio, troppo vicino.
Adesso ascolta il rumore della risacca, e lo ascolta finche’ non gli resta familiare.
Quella volta che il cammelliere si era preso una spina in un dito, per impedire che un cespuglio gli arrivasse addosso.
Erano spine lunghe e cattive, Johnson se ne era trovata una infilzata in una suola, mentre camminava per la strada principale di Bikaner.
L’unico posto al mondo in cui non gli venisse voglia di fumare.
La spina non era riuscita ad arrivare al piede, ma se ne stava li’, infilata nella scarpa, dritta e dura come un chiodo.
In realta’ non erano scarpe, quelli che indossava Johnson, ma sandali, i primi che avesse mai indossato in vita sua.
Li aveva comprati una sera che la deriva del passo l’aveva portato nel quartiere musulmano di Udaipur.
Se ne era accorto lentamente, vedendo i cappellini bianchi e i camicioni lunghi.
Non c’era niente di ostile, gli uomini erano forse meno espansivi degli hindus, ma i loro bambini sgambavano per strada probabilmente piu’ felici dei loro nemici.
Mentre stava contrattando il prezzo, due giovani erano entrati nel negozio e gli avevano chiesto se sapeva chi fosse Osama Bin Laden.
Il negoziante li aveva cacciati, e loro ridendo se ne erano andati, prima di sentire quello che Johnson diceva sempre in questi casi: “I don’t need enemies”.
A quegli stessi sandali, che in questo momento camminavano leggeri sulla sabbia, si era staccata una cucitura mentre scendeva da un autobus a Calcutta.
Adesso Johnson sta guardando attorno, e vede costruzioni da una parte sola, dall’altra e’ tutto orizzonte, acqua, vele e vento che arriva.
A Jodhpur, dovette difendersi da un tizio che voleva a tutti i costi convincerlo a comprare un vestito di Armani.
Prima Johnson disse che credeva che i suoi vestiti di Armani erano originali come la borsa Champion che aveva comprato a Pushkar era veramente Champion, ma il tipo, giovane, camminava troppo veloce,insisteva, garantendone l’autenticita’.
Allora provo’ a dirgli che di certo erano troppo cari, e non poteva certamente permettersi un vestito di Armani, in fondo era un backpacker.
Il tizio, che si aspettava la considerazione dal primo istante, affermo’ che persino Madonna e Chevy Chase erano venuti a Jodhpur a comprare i suoi abiti, e questo metteva la parola fine alla faccenda se fossero a buon mercato o meno.
Allora Johnson, col suo fragile inglese, aveva quasi gridato:’Amico, devo stare in India ancora 2 mesi”, e aveva allargato le braccia con le mani aperte in un gesto circolare, come per invitare l’altro ad aprire gli occhi e a guardarsi attorno. Le fogne a cielo aperto delimitavano una strada di sabbia, ai cui lati le mucche banchettavano con la spazzatura, e cuccioli di maiale si rotolavano davanti a un ristorante.
“Mi dici che cazzo me ne faccio di un vestito di Armani?” Ma ora tutto questo e’ in una scatola.La scatola contiene prese di tempo, e qualcos’altro che non si puo’ dire.
E’ chiusa bene ma scattera’ come una molla ogni volta che verra’ riaperta.
Ha appena detto a qualcuno tu non puoi capire, non voglio pesce, marjuana, oppio, collanine, statue, braccialetti, funghi (hai detto funghi?) o che altro, tu non puoi capire tutto quello che mi serve ora e’ qui.
Johnson affonda i piedi scalzi nella sabbia.
Non e’ piu’ da nessuna parte ora, in nessun pianeta.
In nessun luogo e in nessun paese.
Non e’ piu’ nemmeno in India.
Adesso e’ in spiaggia.
PURI Cosi’ sto in spiaggia.A Puri, in Orissa.
E’ una delle quattro citta’ e centri di pellegrinaggio piu’ sacri dell’India, (dhams)e per questo c’e’ un bhang shop.Anzi, due.
E’ famosa per il suo tempio dedicato a Jagannath, dio dell’universo, impersonificazione di Vishnu.Il tempio e’ aperto a tutti gli hindus, senza distinzione di casta.
Ovviamente io invece, non posso entrare.
Adorano dunque Jagannath, la cui rappresentazione e’ la piu’ bella e interessante che ho finora visto in India.
Di solito e’ raffigurato in compagnia della sorella e del fratello, e perlopiu’ non hanno aspetto antropomorfo (la sorella non ha nemmeno le braccia)bensi’ sono qualcosa di piatto, nero, come delle facce sopra a dei vasi molto simili a delle abat-jour.
(vedere qui che meraviglia: Questo pone domande.Per esempio, quanto sono grandi?quanto sono alti? tre metri?trenta?sono piccoli come giocattoli o cambiano statura a seconda dei casi? (questo l’ho chiesto a un pescatore, che mi ha detto che in quella forma Jagannath e’ alto piu’ o meno 40 cm.
Non molto per il dio dell’universo, ho pensato) E come si muovono?Come si spostano, come camminano quando camminano? Trottano?Saltellano?Volano? Conoscerei probabilmente le risposte se mi facessero entrare nel tempio, ma non mi faranno mai entrare.
L’induismo non fa proseliti perche’ non accetta la conversione.
Per questo molti templi sono chiusi ai non hindus.
Le nostre chiese sono sempre aperte perche’ il prete spera sempre che prima o poi qualcuno cada in trance e si inginocchi davanti all’altare, ma questo in India non avrebbe importanza.
Hindu si puo’ solo nascere.
Non mi faranno mai entrare dentro al Jagannath Mandir, mai e poi mai e poi mai.
Nemmeno se mi presentassi a braccetto con lo zombie di Ghandi, o scendessi dalla scaletta di un elicottero che distribuisce biglietti da cento dollari.
Nemmeno se facessi la strada fino al tempio strisciando su dei rasoi.
E mi verrebbe da salire sul tetto di un Ambassador e tenere un comizio che comincia cosi’: “E quando sarebbe stato, esattamente, giorno mese e anno, che il vostro dio vi ha detto che non voleva vedermi?” Nonostante non mi facciano entrare, o forse per quello, compro immagini svariate di Jagannath e della sua famiglia.
La rappresentazione di Jagannath e’ estremamente varia e complessa ma sempre precisa e chiara, e anche quando lo stile e’ opposto la figura mantiene sempre un’identita’ pura, attraverso i tratti distintivi che la caratterizzano: il colore nero e piatto, gli occhi grandi e tondi rossi e bianchi, le ghirlande di fiori e l’aspetto da pupazzo cattivo con in mano un potere che non controlla.
Questa disquisizione in critical language per dire che mi chiedo quando sia nata, e come, la rappresentazione figurativa di Jagannath, e addirittura per la prima volta mi chiedo se non debba esserci stato per forza di cose un modello, e quindi in definitiva se Jagannath, chissa’ quando, non sia esistito davvero.
Se cosi’ fosse, potrei vederlo.
La spiaggia e’ larga, non tropicale ma ci sono delle belle onde.
I turisti occidentali sono pochi e per questo il mio asciugamano e’ quotidianamente circondato da venditori e/o spaccciatori.
E c’e’ un altro terribile spettro che si aggira per le spiagge indiane.
Ne avevo sentito sussurrare, nelle ombre delle guest house, in alcune citta’ che ho attraversato.
E’ una presenza costante e misteriosa, che agisce in modo piu’ chiassoso che furtivo, ed e’ piu’ entusiasta che rilassata: e’ il turista indiano.
I turisti indiani amano fare conoscenza con gli stranieri, battere pacche sulle spalle, stringere forte la mano, far firmare le loro agende e scattare foto in compagnia.
Soltanto oggi tre volte.Un autografo sul diario e due foto in cui faccio la parte dell’amico straniero.
Non so quanto a lungo la mia mente potra’ sopportare tutto questo.
“Nyarlatothep, il Caos strisciante.Io sono l’ultimo e parlero’ al vuoto in ascolto.” Quando credevo che ormai non ci fosse piu’ nulla che potesse stupirmi, ho incontrato un belga in spiaggia.E’ stato sposato con 2 donne indiane e per farmi comprendere il credo a cui appartiene ha estratto da un sacchetto due copie belle nuove di The Watchtower, altresi’ nota come La Torre di Guardia.
Insomma, era un testimone di Geova.
Sono 25000 in India, e ancora mi chiedo come e perche’ ci siano arrivati.
Oh che mail lunga, quando forse bastava dire: Sto a Puri, in spiaggia.Ho 4 tipi differenti di fumo, 10 gr. D’erba e 5 gr. D’oppio.E’ molto buono, e morbido, e forse devo ancora imparare a governarlo.
Prendo il sole, bevo birre, mangio pesce.
Ho due radio.
Come tutti gli esseri viventi, non mi dispiacerebbe prima o poi incontrare il dio dell’Universo.
Anche se, nonostante Jagannath, continuo a non credere in nessun dio.
Alla fine credo sempre nelle solite due cose: la curiosita’ e l’abbronzatura.
Buon Anno
ARAGOSTE “Sai cosa c’e’ di peggio del rumore delle unghie sulla lavagna?” Johnson fece segno di no con la testa.
“Le grida delle aragoste.Quando le sbatti vive nell’acqua bollente.
Atroce, ti si gela il sangue.Per un certo tempo la mia coscienza non riusciva a sopportarne nemmeno l’idea.
Mi credi se ti dico che sono stato quasi tre anni senza nemmeno guardare un’ aragosta?” Johnson cerco’ di inventarsi un’espressione di stupore.
Non ci riusci’ benissimo ma l’altro sembro’ non farci caso.
“Poi, grazie a dio e al mio maestro, sono riuscito a risolvere la situazione.Quando mi viene voglia di un’aragosta, vado in un ristorante e ne ordino due.Una me la faccio cucinare con le patate, e l’altra la infilo viva nella borsa, vado in spiaggia, le tolgo gli elastici dalle chele, e la butto in mare.
Una muore, ma l’altra e’ salva.
Pace per tutti.
In un paese povero e’ piuttosto semplice avere la pancia piena e la coscienza a posto.” Buon anno ——————————————————————————————— 17.01.2002 CHENNAI (MADRAS) “Liquor ruins family people and life” c’e’ scritto sulle bottiglie di birra in Tamil Nadu.
A Chennai mi sono riposato in un bell’hotel cheap e con tv color.
Mi ricordero’ i giganteschi cartelloni dipinti della cinematografia Tamil, con le sagome degli attori alte dieci metri che escono in prospettiva da uno sfondo teatrale, e sembrano guardare in basso verso l’inesplicabile traffico di tutte le grandi citta’ indiane, fatto di migliaia di veicoli troppo differenti l’uno dall’altro per poter davvero circolare contemporaneamente.
E mi ricordero’ la St.Mary Church, con le sue lapidi del tempo dell’Impero Britannico.Come ho pensato agli inglesi, partiti dalla loro isola con idee di guerra e di vittoria, e ai loro ingegneri venuti in India per costruire ponti e morire di malaria, e ai suoi capitani, venuti a conquistare popoli e poi caduti nell’assedio di una citta’ di cui ora nessuno ricorda il nome, o mentre cercavano di doppiare il Capo di Buona Speranza, o semplicemente sotto una tenda, per un colpo di sole.
In quella chiesa sembra esserci scolpito sui muri in marmo bianco quanto per ciascuno sia piccolo il proprio tempo.
MADURAI Ho dormito tra gli insetti, ma sono stato 4 volte al tempio.
Nemmeno i miei occhi possono descriverlo, figuriamoci le parole, cosi’: KANYAKUMARI (CAPE COMORIN) E’ la punta dell’India, dove si incontrano tre mari: l’oceano indiano, il mare della Baia del Bengala e il mare arabico.
E’ retorica da guida turistica ma mi piace pensare di averli toccati e visti tutti e tre, contemporaneamente, mentre me ne stavo in pace sulla terrazza del Gandhi Memorial a guardare le acque diverse combattere battaglie di schiuma.
VARKALA, KERALA Ora sto di nuovo in spiaggia.
Un luogo magnifico, un’atmosfera splendida e rilassante.
Immagino perche’ molti arrivano qui da Goa, quindi gia’ rilassati, e chi viene dal Sud, come me, e’ troppo stanco del viaggio per non essere completamente in pace.
Il Kerala e’ la terra verde dell’India.
E a volte il Kerala e’ cosi’ verde che anche le sue notti sono d’erba.
PEOPLE “Abbiamo dei problemi con i tedeschi.Niente sul piano pratico, e’ soltanto una sensazione.Ho avuto anche una ragazza tedesca.
E Israele e la Germania hanno spesso scambi culturali.
Sono stato anch’io in Germania a studiare.
Molti tedeschi, sopratutto i giovani, si sentivano in colpa verso di me.Sinceramente colpevoli, con questo peso che non meritano che li accompagnera’ per sempre.
Ma io non riesco a provare pena (mercy) per loro.
Lo so bene che le nuove generazioni non hanno nulla a che fare con la storia recente, ma devi pensare che noi cresciamo con l’Olocausto (e usa la parola “olocaust”, per me immagino, pensando in realta alla Shoa’).
Fin da bambini ci parlano di quello che e ‘successo, e vediamo filmati, immagini, e ascoltiamo racconti.
Forse e’ anche eccessivo, ma alla fine e’ successo poco piu’ di 50 anni fa, e’ successo a mio nonno.”
“Siamo piccoli.E abbiamo solo 50 anni.Nessuno pensa mai che lo stato di Israele ha solo 50 anni.Ma siamo ebrei, ovunque nel mondo, non ci sentiamo israeliani, ci sentiamo ebrei.
E abbiamo sempre paura.In gruppo possiamo sembrare forti, ma stiamo in gruppo perche’ abbiamo sempre paura, come se dovessimo sempre difenderci da qualcosa o ci aspettassimo sempre di essere assaliti.
Perche’ siamo sempre stati cacciati, attaccati, e abbiamo sempre dovuto difenderci.
Adesso, e’ vero, e’ il nostro esercito ad attaccare, ma e’ per paura, ancora una volta.
Pensiamo che se concediamo qualcosa ai Palestinesi poi vorranno di piu’ e poi sempre di piu’.
E molti ebrei non si fidano degli Arabi, per la loro fama di mercanti.
Abbiamo paura di essere imbrogliati, come bambini.
Siamo circondati, il Libano, la Siria, e noi siamo cosi’ piccoli, e soltanto 6 milioni, che ci sembra impossibile concedere anche solo un metro della nostra terra, perche’ temiamo che poi i paesi arabi stringerebbero il cerchio e ci schiaccierebbero.
La pace e’ un’idea da televisione.Gli arabi e gli ebrei non si amano e non si fidano l’uno dell’altro.Per noi, come per i Palestinesi, la pace e’ un tempo in cui, pur non piacendoci, riusciremo a vivere uno accanto all’altro senza sangue e senza bombe, senza la paura di essere su un autobus che esplodera’ o di essere uccisi dai soldati a un posto di blocco.Questa e’ la nostra pace.” Questo e’ Nir (“Nir, like Nirvana”, come dice agli indiani quando si presenta) da Israele, in viaggio di un anno dopo il militare.
Dopo il primo anno di addestramento ha pero’ chiesto di non combattere e di avere un lavoro d’uficio, anche se per la vita’ non potra’ per questo lavorare per il Governo o negli uffici pubblici.
Ci scambiamo spesso discorsi sui nostri paesi.
Io gli dico che di Israele in Occidente abbiamo soltanto le immagini dei carri armati lungo la striscia di Gaza, e lui mi parla della scena trance di Tel Aviv, e di come il 60 per cento degli israeliani non sia praticante ne’ tradizionalista.
Poi tocca a me spiegargli che noi italiani non siamo come nei film di Scorsese, non siamo tutti uomini d’onore, e non mangiamo soltanto pizza.
“Ho passato i primi tre mesi in India senza parlare con gli indiani, solo con i turisti e gli israeliani.” dice, “Avevo una specie di paura nei riguardi degli indiani, ma ora mi e’ passata, e saluto tutti e cerco sempre di parlare con tutti.” E mentre camminiamo verso la spiaggia, ogni volta non posso fare a meno di sorridere vedendo l’espressione sorpresa degli indiani che si vedono salutati da un turista con tanto entusiasmo.
Stiamo qui, a Varkala, in Kerala; fumiamo erba (“very strong stuff”, come direbbe Nir)e passiamo le giornate in spiaggia tra sabbia e onde.
Dicendoci ogni giorno che il giorno dopo andremo a vedere il tempio, e allo spettacolo di katakhali e io portero’ il mio zaino da un calzolaio (sembra essere l’unica via) ad aggiustare.
PEOPLE 2 “Si’ e’ vero che possiamo avere tipi di inchino differente a seconda della persona che incontriamo.L’anno scorso ho lavorato in un casino’ e mi hanno insegnato tre tipi differenti di saluto con la mano, e inoltre dovevamo pronunciare alcune parole con toni di voce piu’ alti o piu’ bassi perche’ l’esatta pronuncia non si confondesse col rumore che fa la leva delle slot machine.
Dio mio, e’ una cosa cosi’ stupida.
Il Giappone e’ troppo strano, troppo bizzarro.
Credo che se la mia generazione non riesce a cambiarlo, non mi verra’ mai voglia di restarci.” Questa e’ Yakura, una giapponese piccola cosi’.
TRAVELLING Mi piace spostarmi e viaggiare.
Mi piace partire e mi piace arrivare.
Mi piace quel momento di assoluto stupore che si mischia con l’ ignoranza di tutto quello che mi circonda quando esco da una stazione, o scendo da un bus indiano affollato come uno stadio.
Quando non so ancora dov’e’ niente e devo ancora dare i nomi alle cose.
Ho smesso da un po’ di prenotare gli hotel, anche se arrivo di notte.
E quando arrivo prima dell’alba, aspetto il sorgere del sole in stazione e poi vado a cercare un altro letto di legno in cui passare le notti successive e peggiorare il mio mal di schiena (anche se il mare sembra fargli bene).
Perche’ mi piace quando la vita appare.
Come quando da bambini non si puo’ uscire dal giardino, o attraversare la strada.
Allora e’ il tempo che passa che scandisce e permette visibilita’ allo spazio.
Crescendo, si puo’ arrivare fino al parco,andare oltre la scuola, passare i binari della ferrovia.
E ogni volta sono mondi che si aprono.
Dopo la scuola c’e’un campo da calcio, dopo la chiesa un quartiere mai visto, dopo la ferrovia, quasi mai, ma sarebbe bello, c’e’ un fiume.
Viaggiare, il mio modo di viaggiare, ha qualcosa in comune con questa sensazione, come se la crescita non fosse soltanto un fatto naturale, ma fosse strettamente collegata allo spazio differente che si attraversa, e si potesse quindi continuare a crescere aumentando la quantita’ di spazio percorso, o conosciuto.
Per questo, forse, mi muovo cosi’ spesso.
Con sempre la sensazione di dover ricominciare tutto da capo.
Con la paura e il gelo che ti da’ a volte lo sconosciuto, lo stupore del mai visto, il calore vivo che prende il corpo quando si incontra qualcosa di nuovo.
Perche’ ogni citta’ e’ un mondo che si apre.
Probabilmente non e’ un’esperienza di conoscenza profonda, e’ qualcosa di leggero, e probabilmente azzurro.
Non ha importanza dove io sia, se in India o da un’altra parte.
Quello che conta sono i mondi che si aprono.
E sono venuto in India, non a cercare me stesso, o qualcun altro, ne’ attirato da una qualche esperienza spirituale, ma soltanto perche’ sapevo che in India, i mondi da aprire sarebbero stati infiniti.
VARKALA 17012002