Magie turche

ITINERARIO: Un viaggio iniziato tanto tempo fa Marocco, Aprile 2003, un autobus scassato dondola lungo la strada fra Marrakech e El Rachidia. Seduti sugli sporchi seggiolini, Bernardo ed io parliamo del significato del viaggiare, della ricchezza che si condivide e del legame che si crea fra compagni di viaggio: amici, genitori, fratelli. Ecco,...
Scritto da: braulio
magie turche
Partenza il: 26/12/2008
Ritorno il: 05/01/2008
Viaggiatori: in gruppo
Spesa: 1000 €
ITINERARIO: Un viaggio iniziato tanto tempo fa Marocco, Aprile 2003, un autobus scassato dondola lungo la strada fra Marrakech e El Rachidia. Seduti sugli sporchi seggiolini, Bernardo ed io parliamo del significato del viaggiare, della ricchezza che si condivide e del legame che si crea fra compagni di viaggio: amici, genitori, fratelli. Ecco, fratelli. “Che bello sarebbe fare un viaggio fra fratelli – dico – chissà che un giorno non si possa davvero realizzare”. Dicembre 2008, un aereo verso Istanbul scansa le nuvole per portare me e mio fratello Dario a destinazione, a continuare quel viaggio iniziato tanto tempo fa.

L’arrivo a İstanbul Parlare di questa città è un’impresa difficile, perché quasi tutte le parole per descriverla sono già state scritte ed i racconti sono tantissimi. Molti iniziano più o meno così: “Bisanzio, Costantinopoli, Istanbul … “. Anche scoprirla è arduo, le guide turistiche hanno già sviscerato ogni strada, ogni palazzo, ogni negozio. Ed allora nel nostro viaggio ci dedichiamo alla scoperta delle persone, andandole a cercare nei quartieri al di fuori dai circuiti turistici, con le necessarie curiosità e voglia di contaminazione. L’arrivo è molto soft, Istanbul è fin da subito città accogliente. Abbiamo prenotato una stanza in un hotel in pieno Sultanahmet e già la prima sera, appena lasciati gli zaini in camera, partiamo per un giretto perlustrativo, giusto per perdersi subito, seguendo il consiglio di una buona guida, secondo la quale “Per comprendere meglio l’atmosfera bianca e nera di Istanbul, che accentua questo senso di tristezza e lo rende inesorabile, quasi fosse un destino comune a tutti gli abitanti, è necessario atterrare qui da una ricca città occidentale e mettersi a girare subito per le strade affollate, oppure andare sul ponte di Galata, che è il cuore di Istanbul, e vedere la folla di persone che vagano qua e la con gli abiti sempre di un colore anonimo, pallidi, grigi, ombrosi” (Orhan Pamuk).

Esplorando la città Fin dal primo giorno, iniziamo le giornate con una colazione turca al ristorante dell’hotel, con ambiente e clientela molto occidentale e cucina ricercata (“turca moderna”, si dice) ma al di sotto delle aspettative. Prima tappa, la Sultanahmet classica: Aya Sofya e moschea blu. Tantissime foto nella prima, un pò di sincera emozione nella seconda: entrare in una moschea è come essere invitati a casa di qualcuno che si conosce ancora poco, solo che questo qualcuno è tutto un mondo.

Pranzo a base di kebap nel posto sbagliato, perché qui i nomi sono veramente tutti simili. In seguito scopriremo che a fianco del ristorante originale, pluri-citato dalle guide turistiche, sono spuntati nel tempo tutta una serie di emulatori con i nomi ingannevolmente simili. Evidente esempio delle tattiche di guerriglia commercial-turistica assai frequenti a Istanbul. Per digerire ricominciamo a camminare, scendendo fino al mar di Marmara e percorrendo tutte le mura del palazzo Topkapi fino alla stazione ed al ponte di Galata, che ci accoglie con una distesa ordinata di lenze ed il profumo dei panini al pesce. Lo attraversiamo, ma solo per il tempo di gettare un’occhiata fugace alla Istanbul moderna, dove realmente le facce sembrano diverse.

Per concludere la giornata, cena a base di Köfte, polpette di carne, sulla via principale del quartiere, sovraffollata di turisti. Al ritorno cerchiamo un pò di autenticità scendendo sotto Aya Sofya ed invece troviamo un quartiere irreale, fatto di ostelli, locali e negozi di souvenir, che senza turisti in giro assume un’aria spettrale.

Secondo giorno Usciamo in strada e ci accoglie una pioggia intermittente ma tenace, che insieme al vento freddo che soffia dal Bosforo non ci lascerà per tutto il giorno. Iniziamo dal palazzo Topkapı, giusto dietro l’hotel. Il palazzo è impressionante ed anche se le esposizioni non sono sempre curatissime, le cose da vedere sono sufficienti per intrattenerci quasi quattro ore: fantasie da occidentale a parte, l’harem è senza dubbio la parte più succulenta, di cui fotografiamo soprattutto i dettagli dell’interno. Dopo pranzo ripartiamo un pò abbacchiati per l’acqua che continua a cadere, fino a quando non ci imbattiamo nella vera perla di questi primi giorni: nascosta in una via secondaria, nello scantinato del municipio di Eminönü si nasconde la cisterna di Teodosio. Scendiamo furtivamente passando davanti al custode distratto da qualche programma televisivo pomeridiano e scattiamo a ripetizione foto piene di fascino (speriamo siano venute bene).

Finiamo di esplorare la via principale di Sultanahmet fino alla moschea Hürriyet Meydanı, a quest’ora praticamente deserta, in cui ci decidiamo a entrare una volta vinto il timore iniziale. Sulla via del ritorno ci fermiamo a bere un tè all’İlesam Lokali, un locale fumoso ma accogliente fra le tombe del vicino cimitero.

Arriva la neve Il terzo giorno comincia e si conclude allo stesso modo, con una spolverata di bianco che cade sulla città. Ma se al mattino è appena accennata, la sera si fa insistente, tanto da farci pregustare per domani succulenti scatti di moschee innevate. Al risveglio si vedrà…

Spendiamo la mattinata persi nel Grand Bazar, deludente rappresentazione di un mercato orientale. Le vie principali sono strapiene di cianfrusaglie, souvenir e merci contraffatte, a volte le tre cose contemporaneamente. Solo sfuggendo al flusso principale si scoprono negli han angolini autenticamente turchi, piccoli cortili dove gli artigiani producono le merci propinate ai turisti pochi metri più in la. Nonostante quanto si possa leggere sulle guide, vorrei vedere con i miei occhi un turco fare acquisti al Grand Bazar per credere che non sia ormai ridotto a pura attrazione turistica.

Dopo un kebap al volo ci perdiamo fra le bancarelle nelle strade adiacenti al bazar, in cui il livello degli oggetti in vendita scende drammaticamente. Vediamo in vendita caricabatterie per cellulari, pile, abbigliamento scadente, sigarette sfuse..

Più tardi troviamo il primo dei due caravanserragli che ci illuminano la giornata: Bü k Valide Han. Percorriamo tutto il buio corridoio al primo piano, prima con diffidenza e via via con sempre più disinvoltura. Non si può definire un posto raccomandabile ma la sua autenticità è affascinante. Ce ne andiamo con la sensazione della marachella appena compiuta e le dita sporche di marmellata.

Il successivo, Büyük Yeni Han, è in miglior stato di conservazione e ampiamente e variamente frequentato, ma non vediamo nessun occidentale in giro e questo è stranissimo perché il posto merita sicuramente una visita. Poi scendiamo per le strade affollate – sembra che tutta Istanbul dovesse fare acquisti oggi – fino al Bazar delle spezie, che percorriamo velocemente, facendo poche foto, già saturi di colori e forme orientali.

Prendiamo un panino al pesce ai baracchini accanto al ponte di Galata. Sembrano ambulanti ed invece sono business perfettamente organizzati.

La sera saliamo a Beyoğlu, percorrendo tutta İstiklsl Cad fino a piazza Taksim. Finalmente. Qui Istanbul ha un’ altra faccia, altre facce, più autentiche. Quando arriva la neve ci rifugiamo da İmroz a mangiare meze, per la prima volta circondati da una chiassosa clientela turca di habituè. Vorremo uscire dopo la cena, ma la stanchezza ed il freddo ci convincono a incamminarci lungo la strada che scende al ponte per rincasare (il tunel chiude alle 21, ahimè).

Quarto giorno, detto anche di Hakan Sükür Se lo sport avvicina i popoli, il calcio li fonde proprio. E allora può succedere che il cameriere conosca a memoria tutti i calciatori turchi passati dai campionati esteri ed in particolare Hakan Sükür, il toro del Bosforo, attaccante del Torino nella stagione 1995/1996. Alla parola “Italia” attacca a ripetere “Hakan Sükür! Hakan Sükür!” e bastano un paio di battute per fare amicizia. Come premio, vinciamo un tour della cucina con spiegazione illustrata del menu, con il cuoco che ci guarda e ridacchia sotto i baffi.

Per arrivare fino qua partiamo da una mattina spesa in Asia, ovvero sull’altra sponda del Bosforo. Prendiamo un traghetto dal molo due di Eminönü ed in venti minuti siamo a Kadiköy, Asia. Magie di una città a cavallo fra due continenti. Come ci avevano anticipato in hotel, su questa sponda l’atmosfera è ancora diversa e forse definitivamente turca. Pochissimi turisti, qualche pendolare di fretta, tante facce rilassate. Risaliamo la collina lungo una delle strade principali, dove case in legno in stile ottomano si alternano ad edifici moderni, finché non scopriamo un negozio di cianfrusaglie che vende alcuni pezzi della nostra storia recente: telefoni a disco, videogiochi di prima generazione, macchine fotografiche meccaniche, joystick per la vecchia Playstation e via dicendo. Sto per comprare un vero finto Rolex “Daytona” ma Dario per fortuna mi ferma. Alla fine usciamo a mani vuote nella strada leggermente imbiancata dalla neve.

Svoltiamo a destra e continuiamo a salire. Ci fermiamo a prendere un çai in un caffè dall’aria moderna, gestito da due giovani che non resistono alla tentazione del solito gioco di prestigio: un çai 2 lire, due çai 5 lire. Va bene la cortesia di chi è ospite in un paese straniero, ma questo giochino ci ha un pò stufato; da adesso cominceremo a chiedere chiarimenti sui conti con “maggiorazione turistica”.

Scendiamo fino all’imbarcadero all’ora perfetta per un dürüm kebap di agnello a una bancarella del porto. A pancia piena, siamo quasi pronti alla traversata di ritorno quando ci imbattiamo nel mercato alimentare. Scatto una ventina di foto ai banchi del pesce suscitando reazioni contrastanti fra gli ambulanti.

La sera saliamo a Beyoglü per una birra in un locale sorprendentemente intrigante, il Cafè LeMan, e la cena da quel Hacı Abdullah in cui conoscere Hakan Sükür si rivelerà inaspettatamente prezioso. Il cibo è delizioso ma, anche se la guida sostiene che il locale è “frequentato in massima parte da turchi”, siamo circondati da italiani: per il futuro ci promettiamo di evitare il più possibile i posti consigliati dalle guide.

Quinto giorno: goodbye 2008 Arrivano i giorni un pò sottotono anche in un viaggio e oggi è uno di questi. Fin da quando usciamo dall’hotel una pioggia fitta ci perseguita – non è nevischio come ieri, che scivola addosso e non bagna, sono proprio gocce fini di pioggia che in poco tempo inzuppano tutto – e non ci lascia fino al tramonto, rendendo sgradevole passeggiare.

La nostra esplorazione di Istanbul sta procedendo concentricamente: all’inizio Sultanahmet e la parte antica della città, che adesso percorriamo con familiarità, quindi poco a poco iniziamo ad avventurarci nei quartieri più periferici. Oggi prendiamo il battello per Üsküdar, per continuare l’esplorazione della sponda asiatica. In realtà non è molto differente da Kadiköy vista ieri e l’unico incontro notevole della visita è quello con il muezzin della moschea davanti all’imbarcadero, Iskele Camii, mentre richiama i fedeli alla preghiera: un duetto a base di versetti coranici con il muezzin della moschea vicina. Ci addentriamo nel quartiere del mercato, mangiamo un simit per portare avanti il viaggio parallelo nella gastronomia turca e ci imbarchiamo per Beşiktaş, di nuovo sulla sponda europea.

Scesi dal battello ci accoglie un quartiere pieno di vita in cui ci addentriamo volentieri. Pranziamo con Börek (sfoglia al formaggio) e çai e poi compriamo del te da portare in Italia come souvenir. L’autenticità della zona ci garantisce che non siano prodotti turistici – come quelli che invece si vedono nei negozi della zona di Sultanahmet – ed infatti comunichiamo a gesti con il proprietario che non parla per niente inglese (e ci guarda perplesso). A Beşiktaş visitiamo il palazzo imperiale di Dolmabahçe, che i sultani fecero costruire per sostituire la residenza di Topkap con una in stile più europeo (che errore..). Solo visite guidate, per cui non ci resta che adeguarci e sopportare lo stile “gregge di pecore”. Ci confondiamo fra i turisti giapponesi che come nelle barzellette si fotografano davanti a qualunque oggetto. Usciti dal palazzo e tornati all’imbarcadero – destinazione Eminönü e quindi hotel – smette improvvisamente di piovere e ıl cielo si infuoca nel più bel tramonto turco visto finora.

Una volta sbarcati ci infiliamo nelle strade intorno al mercato egizio, dove la gente si affretta a fare gli ultimi acquisti dell’anno. I colori ed i profumi del venditore di kokoreç non ci lasciano indifferenti. Ci perdiamo nelle viscere del mercato.

La sera usciamo per il capodanno più estemporaneo che abbia mai vissuto. Con un sacco di dubbi (i turchi lo festeggiano? Ci sarà gente in giro? Si può bere alcol in strada?) prendiamo un taxi fino a piazza Taksim, che dovrebbe essere l’epicentro dei festeggiamenti. Quindi scendiamo lungo Istiklal Cad facendoci largo fra la folla che la percorrere in un senso e nell’altro, come un’autostrada umana a due corsie. Ci sorprende e ci preoccupa la quantità di polizia in giro, praticamente una camionetta ad ogni angolo.

Ascoltiamo un pò di musica turca al Barabar e brindiamo al nuovo anno in un simpatico Nice Istanbul, seguendo il conto alla rovescia con la televisione turca. Alla fine niente di speciale ma almeno siamo in grado di rispondere al grosso dubbio iniziale: i turchi festeggiano l’arrivo del nuovo anno, ma con moderazione.

Sesto giorno I postumi della notte precedente vengono velocemente cancellati e la città si rimette in moto coi suoi ritmi abituali. Fortunatamente Dario frena i miei slanci esplorativi e decidiamo di dedicare la giornata di oggi ad una passeggiata rilassante. Per la prima volta usciamo senza guida – in ogni viaggio c’è sempre un giorno in cui si ripete questa magia – e cominciamo a camminare, con una sensazione mista di familiarità e incoscienza. Il sole che per la prima volta si è deciso a comparire fa assumere alla città colori del tutto nuovi.

Yeni Camii, ponte di Galata, i mercati, Divan Yolu: luoghi ormai abituali in cui camminare, lasciandosi guidare solo dalla curiosità e dall’ispirazione del momento. Per la prima volta ci fermiamo a chiedere i prezzi degli oggetti in vendita, sottolineando con sorrisi o smorfie del viso le nostre reazioni. Poi esausti, ci rilassiamo con un succo di melograno seduti a dei tavolini piazzati praticamente in mezzo di strada.

Scendiamo verso la piccola Aya Sofya ed il paesaggio urbano cambia completamente. Vecchie case di legno, alcune ristrutturate ma molte cadenti, bambini che giocano in strada, panni appesi alle finestre. Si respira l’aria di una Istanbul più autentica a poche centinaia di metri dalle affollatissime zone turistiche.

Per dirla con le parole di Orhan Pamuk “La sporcizia delle strade secondarie, il tanfo emanato dai bidoni della spazzatura, i buchi, le salite e le discese interminabili sulle vie e i marciapiedi, tutto quel disordine, quel caos e quel subbuglio che fanno di Istanbul la vera Istanbul”.

Alle 22 usciamo di nuovo alla ricerca di cibo – parlare di fame sarebbe obiettivamente fuori luogo – e proviamo un piccolo ristorante segnalato su internet da alcuni viaggiatori italiani che ci hanno preceduto: Akdamar. Né fascino né cucina particolarmente notevole, un caso evidente di come le recensioni a volte possano essere piuttosto soggettive. Accettiamo comunque di buon grado questo piccolo contrattempo, anche in virtù della reale simpatia del “famoso” Nasir, il proprietario.

Settimo giorno Ore 12:03.

Giro la chiave, metto la freccia, guardo nello specchietto prima di immettermi nel flusso del traffico e via, è partita l’avventura automobilistica turca.

Si comincia col caos di Istanbul, i pedoni da evitare, i clacson impazziti. Fuori scorrono immagini note ma con una prospettiva nuova, stradale. Quando lasciamo il centro vediamo la periferia della grande città, quella dove non ci saremmo mai avventurati, ed in quaranta minuti arriviamo al ponte sul Bosforo, con il magnifico panorama dello stretto ai nostri piedi.

Lasciamo Istanbul ed inizia l’autostrada Istanbul-Ankara, con la nostra Fiat Albea che ci porta ora verso Izmıt, città divisa fra i panorami industriali dei cementifici da un lato e l’ultimo lembo del mar di Marmara che lentamente scompare dall’altro. Quando ci fermiamo per la benzina, il benzinaio ci da il benvenuto nella Turchia profonda: non parla assolutamente inglese, inizia la commedia della comunicazione a gesti. La strada punta ora ai 1450 metri di Gerede. Il paesaggio cambia notevolmente e una fitta coltre di neve ricopre tutto, facendoci anche temere di rimanere bloccati da qualche parte.

Ed invece alle cinque arriviamo a destinazione: Safranbolu, in un’atmosfera surreale di neve e silenzio, in cui le austere case ottomane ci riportano indietro nel tempo. Ci sistemiamo alla Bastoncu Pansiyon, una casa ottomana trasformata in albergo dove si sta un pò come in famiglia: numero di ospiti quattro, noi compresi.

Oggi abbiamo viaggiato abbastanza ed adesso siamo un pò perplessi sul prosieguo. Domani esploreremo la zona e poi si vedrà se tornare anticipatamente a Istanbul. Il clima certo non incoraggia.

Ottavo giorno Questa mattina ci alziamo controvoglia da un letto particolarmente accogliente, mentre fuori nevica fıtto. Dopo la colazione con il figlio della proprietaria – gli altri ospiti sono già usciti, chissà per andare dove – ci confondiamo nel mercato settimanale nella piazza del Cinci Han, fra le verdure imbiancate, poi esploriamo il paesino, imbattendoci spesso negli “altri due”.

Dei bambini ci fermano, non per venderci qualcosa stavolta ma per pura curiosità infantile. Non si negano per una foto di gruppo e subito dopo si gettano per la discesa con gli slittini, godendosi la neve su questi bidoni di plastica tagliati a metà. Con così pochi turisti, ci sentiamo trattati come persone, come se nell’intimità dell’inverno il paese ci accogliesse con benevolenza.

Decidiamo di ripartire per Istanbul all’ora di pranzo: è stata un’escursione sfortunata ma ve bene così. Evitiamo l’autostrada e facciamo la statale D-100, sprofondando velocemente nella periferia industriale e confermando una volta di più che le periferie delle grandi città sono veramente tutte uguali.

Al tramonto Istanbul ci accoglie per la seconda volta in pochi giorni, ma questa volta con la spontaneità dei vecchi amici .

Utimo giorno Il nono giorno è l’ultimo giorno. E’ domenica, usciamo in auto in una Istanbul ancora deserta.

Proviamo con il mercato del pesce di Maraba, ma la “piazzetta dai colori vivaci” – così come la descrivono le guide – è ancora spenta. Nella chiesa vicina la messa ha attirato cinque fedeli, di cui uno seduto in fondo sta chiaramente dormendo. Una signoria ci invita ad entrare, gentilmente rifiutiamo e ci muoviamo verso il castello delle sette torri, un piccolo lampo turistico in questa mattinata lenta. Poi percorriamo le mura fino al vecchio ponte di Galata, glorioso relitto in attesa di una degna fine e che ospita temporaneamente una stazione dei vigili del fuoco. Per spezzare la noia un gentilissimo pompiere ci fa entrare a fare qualche foto: la gentilezza di queste persone è senza dubbio la parte migliore della visita. Attraversiamo il fiume per visitare il museo dell’industria, un’isola moderna in questo mare di anacronismi. Tornando in hotel in auto ci sentiamo a nostro agio, è un vero peccato andarsene domani: una volta finito di vedere le “tappe obbligate”, si inizia a godersi veramente l’esperienza.

Ultima cena ancora da Haci, ma ormai abbiamo abbandonato l’ottica turisticamente innocente dei primi giorni e guardiamo divertiti la coppia di italiani del tavolo accanto che accettano i suggerimenti sul “menu del giorno”. Dopo dieci giorni di ristoranti abbiamo maturato una specie di allergia alla ruffianeria dei camerieri ed un autentico senso di fastidio verso certi trucchetti.

Ciao Istanbul, ce ne andiamo con lo spirito con cui siamo arrivati, con “…Lo stesso entusiasmo che prova un botanico, in un bosco, di fronte alla diversità e ricchezza delle piante, proprio per i molteplici aspetti della città, che ogni giorno produceva qualcosa di nuovo, una stranezza, una rovina o una follia, fra le sorprese dell’occidentalizzazione, dell’emigrazione e della storia”. Orhan Pamuk, Istanbul



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