Madhya e Uttar Pradesh

Riflessioni su un viaggio
Scritto da: ArturoB
madhya e uttar pradesh
Partenza il: 26/11/2011
Ritorno il: 10/12/2011
Viaggiatori: 1
Spesa: 2000 €
Dopo aver apprezzato le architetture del Rajastan, la natura del Kerala e il misticismo del Tamil Nadu, eccomi nel Madhya Pradesh a cercare cosa? Non lo so e ancora non l’ho capito.

Il mio viaggio comincia da Roma dove mi imbarco su di un comodo volo della China Airlines, senza scalo su Delhi. La compagnia è buona, senza fronzoli, puntuale ed efficiente. Come al solito le pratiche burocratiche all’aeroporto della capitale sono lunghissime ed estenuanti. In India c’è sempre chi controlla, quello che controlla chi controlla, e un altro che controlla quello che controlla chi controlla. Poi pare che lo sport preferito sia quello di far riempire moduli e distinte, mi hanno chiesto perfino la paternità per fare un biglietto di un museo.

Torniamo a noi… senza uscire dall’aeroporto proseguo per Gwalior per una tappa di avvicinamento. Volo Air india 421. Il pilota, probabilmente campione di rodeo, ci fa vivere l’emozione di questo sport: in fase di avvicinamento all’aeroporto, prima va in picchiata, poi improvvisamente ridà manetta e cabra, poi vira violentemente. Vedo il viso della hostess che ostenta un sorriso, ma finge male. Amo viaggiare in aereo e non ho mai avuto paura. Prima.

L’albergo recensito da tanti viaggiatori si dimostra molto al di sotto di ogni aspettativa. E’ decentratissimo, lurido fino all’inverosimile e rumorosissimo. Poso le valige e cerco di uscire da quell’incubo. Peggio. Una bolgia dantesca a confronto è il paradiso. Cerco un posto dove mangiare e, a parte i chioschetti di street food, non c’è nient’altro. Come un miraggio vedo un Mac Donald’s, da me sempre aborrito, e mi siedo a mangiare un qualcosa di cui non ricordo neanche il nome. Anche il cibo del Mac prende le caratteristiche del Paese in cui si trova: è tutto piccantissimo. Rientro in “albergo” e chiedo di cambiare stanza, non mi dicono di no, però la stanza rimane quella. Ho la malsana curiosità di guardare sotto il lenzuolo, e poco manca che vomito la cena. Decido di anticipare la partenza di un giorno. Non è possibile cancellare senza spese, non fa niente, pago e me ne vado la mattina successiva dopo aver prenotato un treno per Jhansi, destinazione Orchha. Ci sono molti treni cancellati a causa nebbia e molti altri portano forti ritardi, il mio treno il Bhopal Shabti arriva e riparte in perfetto orario, e poi dicono degli svizzeri.

Con poco meno di due euro e venti centesimi, ho il posto prenotato, una bottiglia d’acqua, un tè e una merendina niente male. Fuori dalla stazione riesco a spuntare un tuctuc che per 200 rupie contro le 600 richieste, dopo 17 km mi lascia davanti all’unico albergo decente che ho trovato in questo viaggio, l’Orchha Resort. Leggermente fuori dal paese, questo albergo si trova in una buona posizione proprio sul fiume Betwa di fronte ai cenotafi. Si scusano per avermi assegnato una stanza rumorosa e me la cambiano immediatamente. La piscina a forma di loto è graziosa. L’albergo dispone anche di una spa e si praticano massaggi ayurvedici. Sono fortunato: oggi c’è gran festa in paese, si festeggia RamRaja, il paese brulica di santoni e dai vicini villaggi sono venuti proprio tutti. Ho visto il cassone di un rimorchio agricolo, dove la notte hanno dormito almeno 30 persone una sull’altra. Ho visto anche stabilire il record di capienza di un tuctuc: 20 anime fra donne, bambini e una capretta. Gironzolo un po’ per l’unica strada e per il tempio, rubando immagini molto suggestive. Il giorno successivo lo dedico alla visita del complesso che ospita i tre palazzi per cui Orchha va famosa. Mi imbatto in Santosh, una guida che sfoggia un italiano un po’ incerto e mi affido a lui per la visita. E’ abbastanza bravo, e con un piccolo sovrapprezzo mi conduce con la sua moto a visitare un piccolo tempio poco fuori dal paese. A sua detta, lì si respira un’aura mistica. Sarà, ma a me non mi ha ispirato niente. Sarà lui a fornirmi il taxi per Khajuraho a prezzo stracciato, e sempre lui mi metterà in contatto con suo fratello, che lì mi farà da guida.

Per ciò che concerne il vitto, Orccha non offre molto. Ci sono due ristoranti appena decenti: il Blue Sky e il Mediterraneo. Li ho provati entrambi con poca soddisfazione. Invece ottimo il ristorante presso l’hotel Amar Mahal, pagando un po’ meno del doppio dei suddetti. Ovviamente tutto un altro ambiente e un’altra qualità.

Dopo aver visto il Tempio e i palazzi, Orchha non offre di più, a meno che qualche temerario voglia tentare il rafting sulle rapide, organizzato dal locale club nautico per 1800 rupie.

Qui, come del resto in tutto il Madhya Pradesh, l’occupazione principale è quella di fregare il turista, per cui: contrattare sempre, chiedere in anticipo i prezzi di ogni cosa e assicurarsi di essersi fatti capire.

Tre giorni in questo centro sono troppi, per cui l’ultimo giorno scorre pigramente tra la piscina e qualche passeggiata lungo il fiume.

Il viaggio prosegue e la mattina successiva il mio autista si presenta puntualissimo per percorrere i 170 km che ci separano da Kajuraho. Prima di arrivare in paese, ci fermiamo a raccogliere il fratello di Santosh, che, avvisato, mi attende sulla strada per farmi da mentore nel mio soggiorno. Miracolo di Photoshop, l’albergo Zen si rivela ben diverso. Soliti asciugamani memori di tempi migliori, lampadine di abatjour fulminate e proprietario traffichino che insiste per farmi vedere le sue creazioni in argento. Avevo letto di quanto fossero insistenti e petulanti i venditori ambulanti e i procacciatori d’affari, ma a tutto c’è un limite.

A ogni piè sospinto: ciao amico,vis cantri? ittaliano?, solo parlare!, visita mio negosio! No comprare, solo vedere!

Comincio il giro con il mio Virgilio che dopo avermi presentato al suo amico ristoratore (Bella Vista Restaurant: niente male), con la sua moto mi mostra l’old village e mi offre un tè nell’albergo di un suo parente, sperando che vi vada a soggiornare. L’albergo, hotel Isabel, è sicuramente migliore del mio e costa anche meno, peccato che ho già pagato dall’Italia. Gli chiedo quanto vuole per questo lavoro di accompagno, e lui quasi si offende, dicendo che non vuole niente e che lo fa solo per amicizia… sì vabbè!

Decido per il giorno successivo di andare a vedere la riserva naturale di Panna. Partenza alle 5,00. L’autista arriva il albergo alle 6,00: sorry, sorry. Partiamo, è buio e dopo circa 40 minuti arriviamo davanti ad un cancello dove ci aspetta un ranger con una jeep. Ci fermiamo davanti alla direzione dove dopo aver riempito la solita modulistica e dopo aver ottenuto un pacco di ricevute pago la cifra di 2.230 rupie, cifra tonda… mah!

Fa un freddo cane, entriamo nel recinto vero e proprio e ci viene assegnata una guida, che mi dice, che se alla fine sarò soddisfatto, avrebbe piacere di ricevere una mancia. E’ molto ossequioso e ogni tre secondi mi dice: thank you sir!

Delle tigri promesse, neanche l’ombra, anzi no, abbiamo visto le orme su un terreno adiacente alla strada. A parte i cerbiatti e i pavoni, tutto ciò che è stato possibile vedere sono state le scimmie e i maiali selvatici di cui abbondano tutti i villaggi limitrofi. Il giro dura circa tre ore e alla fine è senza lode e senza infamia.

Per gentile concessione dell’autista della jeep, dopo essere usciti dalla riserva, ci dirigiamo alle Pandao Waterfalls. Sono delle cascate quasi per niente menzionate, che invece si trovano in un contesto naturale molto bello. Peccato che la stagione sia piuttosto secca, altrimenti lo spettacolo sarebbe stato decisamente migliore.

Torniamo che è quasi ora di pranzo, mangio qualcosa e vado a rimettere in pari il sonno perduto. Alle 16,00 la mia guida mi aspetta in sella alla sua rombante moto per andare a vedere le Raneh Falls, famose cascate a circa 20 chilometri. Non rimpiango di essermi portato un foulard che mi ha fatto da bandana, da sciarpa e da mascherina per la polvere. Viaggiare in moto su quelle strade è veramente massacrante, e sì che alla moto ci sono abituato!

Purtroppo la stagione secca, trasforma quello che potrebbe essere un possente spettacolo della natura in un più tranquillo ma non meno suggestivo canyon della lunghezza di 5 chilometri. Ogni tanto in prossimità di buche o crateri, ristagna dell’acqua che forma dei laghetti. La guida è molto competente e parla un ottimo inglese.

Lasciamo le cascate che ormai è già buio. La strada tutta a buche e il freddo rendono il viaggio di ritorno un calvario.

A cena decido di provare il “Mediterraneo” celebrato da tutte le guide. La pizza è ottima, il cameriere scorbutico, ma la sorpresa arriva alla fine: al momento di uscire dal ristorante il cameriere mi chiama e mi dice che gli ho dato 50 rupie di meno. Sono arcisicuro di avergli dato i soldi giusti, ma non mi va di discutere, poi per 50 rupie… Vengo a sapere poi che non è la prima volta che fa questo giochetto.

Questo è l’aspetto più negativo che ho riscontrato in questo viaggio: il fatto che tutti o quasi tutti ricorrano a sistemi piuttosto antipatici per lucrare sul turista. Dov’è finita la dignità di un popolo che ci ha lasciato importanti e indelebili testimonianze di storia, arte e cultura? Gli artisti, gli artigiani e gli stessi scalpellini che tanto hanno dato lustro a questo paese, hanno lasciato il posto ad una progenie di imbroglioni, pasticcioni e ottusi burocrati.

Amavo l’India, ma quello che ho vissuto in questi giorni ha messo a dura prova il sentimento che ho sempre provato per questo popolo.

Ma torniamo al viaggio. Il giorno successivo, Jack, la mia guida mi porta ai templi orientali. Mi lascia davanti all’ingresso e mi dice che tornerà tra 20 minuti. Arriva dopo tre quarti d’ora scusandosi. Proseguiamo per un altro tempio e mi dice che mi lascia mezz’ora di tempo per visitarlo. Il tempio è talmente piccolo che dopo 5 minuti, ho finito. Stavolta rimango sotto un sole a picco per un’ora, in mezzo alla campagna popolata solo da mucche e da qualche raro passante. Chiedo un passaggio ad un ragazzo col motorino e faccio per rientrare in albergo. In quel momento arriva Jack che mi trova visibilmente arrabbiato. Gli spiego in un inglese molto concitato che la serietà è alla base di ogni rapporto di lavoro, lui si scusa, io lo liquido e gli allungo 1000 rupie, non lo voglio più vedere, né sentire. Prova a dire che 1000 sono poche, ma vista la mia faccia, subito desiste. Non aveva detto che non voleva soldi e lo faceva solo per amicizia?

Non vedo l’ora di lasciare questa città, vado a vedere i Western Temples con le loro famose raffigurazioni erotiche, molto belle, e mi colpisce il commento in dialetto torinese di una signora dietro di me che dice: “Dopo aver visto le Piramidi, Machu Picchu e Angkor Wat, non ti colpisce più niente. Sono belle queste sculture, ma non mi hanno trasmesso l’emozione che aspettavo.” Concordo.

La mattina successiva, con tre ore di anticipo raggiungo il piccolo aeroporto. Ovviamente sono il primo a fare il check in, ma ciò non toglie che un’ora in fila per secure control dei bagagli mi tocca lo stesso. Ed è qui che si raggiunge l’apoteosi della burocrazia indiana: E’ l’unico volo in quella giornata. Tutti andiamo a Varanasi, dunque tutti abbiamo la stessa carta di imbarco. Il solerte impiegato controlla con meticolosità i dati di ogni biglietto, girandolo e rigirandolo fra le mani e poi con un evidenziatore giallo traccia una linea sul numero del volo. I suddetti biglietti saranno ricontrollati dall’addetto al metal detector, dall’impiegato del gate, da altri due tizi alla base della scaletta e dalla hostess, prima di entrare materialmente a bordo.

Varanasi, arriviamo!

Il tassista, forse parente di quel Kartikeyan che correva in formula uno, fila veloce, schivando mucche e carretti. Arrivato a trecento metri dall’albergo mi dice che lì c’è troppo traffico e mi lascia su una rotatoria, affidandomi alle cure di un conducente di risciò.

L’hotel, il Gupta Inn, tanto osannato nei siti di prenotazione alberghi (Booking.com, Opodo,Octopus,ecc.) si rivela inferiore alle aspettative, anche perché il prezzo faceva presagire ben altro. Il proprietario mi accoglie con grandi sorrisi e pacche sulle spalle, mi invita bere un tè nel negozio adiacente di sua proprietà, tenta di mostrarmi sete, pashmina e collanine, ma visto il mio fermo rifiuto, mi propone un tour delle cose più importanti al prezzo forfettario di 4000 rupie. Probabilmente, se avessi avuto la conoscenza della città, la voglia di combattere con tassisti, procacciatori e guide improvvisate avrei risparmiato, ma sono stanco e soprattutto deluso da questo viaggio che mi ha rivelato un aspetto sconosciuto dell’India.

Si comincia subito stasera. Oggi, non so se sia vero, c’è gran festa sui ghats. Eccezionalmente la cerimonia serale sarà dedicata anche al dio Brahma. Il tuctuc ci ferma ad un incrocio non molto distante dai ghats, per arrivarci percorriamo una strada pavimentata da escrementi di mucca, immondizia di ogni genere, sputi rossi di betel e pozzanghere di liquidi non identificati. Da una porta di una casa si affaccia un tizio che sgrulla una specie di tovaglia e…..voilà: esce un topo morto.

Prendiamo una barca e una bambina subito ci vende un lumino votivo. Arriviamo davanti al ghat principale. Lo spettacolo è bello, un po’ lunghetto, ma bello. Ci troviamo al ghat Dasaswhamed stipati davanti a cinque bramini che celebrano il rituale muovendosi all’unisono. Ci saranno più di duecento barche cariche di turisti che dopo aver lasciato galleggiare in acqua il lumino si scatenano in un’orgia fotografica . Passiamo davanti alle pire che stanno bruciando gli ultimi morti. Lo spettacolo, se così si può definire, è toccante e lascia un senso di infinita tristezza.

A letto presto, domani la sveglia è alle cinque per andare a vedere l’alba sul Gange, prima però lungo la strada occorre fermarsi perché c’è una grande festa mussulmana. Decine di ragazzi simulano dei combattimenti con delle scimitarre, ci sono dei mangiafuoco e altri ragazzi agitano delle bandiere, inoltre ci sono dei baldacchini portati a spalla dai fedeli; poi ad un tratto tutto tace, il muezzin inizia la preghiera e molti entrano in moschea, ma la maggior parte rimane fuori a chiacchierare. Sta facendo chiaro ed è ora di andare ai ghats. L’aria è fresca e sui sedili delle barche c’è umidità. Non è ancora giorno e molti indù già stanno immersi a purificarsi. Vista la temperatura e il colore dell’acqua non si può certo dire che sia invitante, ma certo la loro fede è più forte di quella di noi cristiani che abbiamo un senso della religione molto meno radicato.

La visita prosegue dall’altra parte della città al Tempio di Sarnat. Qui ho veramente sentito un’aura mistica nel silenzio di questo tempio annesso al monastero dove studiano i giovanissimi tibetani.

L’ultimo giorno a Varanasi inizia con una nebbia stile Valpadana. Non si vede neanche il palazzo di fronte. Decido comunque di andare a rivedere il fiume, stavolta da terra. Mi affido ad un conducente di tuctuc il quale mi ferma ad un certo punto e mi dice che siamo arrivati, il Gange sta appena voltato a sinistra. Un altro furbacchione. Non conoscendo la città mi sono fidato. Chiedo ad un negoziante come arrivare ai ghat e mi risponde che ci sono ancora almeno 2 chilometri e mi conviene prendere un risciò. Fatto! Stavolta sono veramente arrivato. Sulle scalinate c’è un po’ di tutto. Mendicanti, venditori di collanine, sadhu, barcaioli in cerca di clienti, santoni, molti dei quali dall’aspetto un po’ fumato. Percorro le scalinate schivando cacche e sputi fino al crematorio principale di Manikarnika dove un bramino mi dice che non si può fotografare. Non ci pensavo nemmeno, ho troppo rispetto per i defunti. Lui mi dice che comunque con una offerta posso fare qualche scatto. Vergogna!

In prossimità delle pire si leva una densa colonna di fumo, ma non è i solo fumo che si può trovare in questo posto. Un esercito di spacciatori mi propone hashish e marijuana. Mi dicono che Varanasi è l’unico posto in India dove è legale. Io non fumo e perfino i peperoni mi rimangono sullo stomaco, figurarsi la droga!

Ritorno indietro e riesco a cogliere delle belle immagini della vita sui ghats. Fedeli che eseguono bagni purificatori, bambini che comunque usano il fiume per fare dei tuffi, lavandai che sbattono energicamente i panni su delle pietre e giovani che si esercitano con un rudimentale cricket perfettamente uguale alla nostra lippa o nizza, come si dice a Roma. Chi ha la mia età se lo può ricordare.

Decido di tornare a piedi in albergo. Sono solo sette chilometri e visto che da dieci giorni non vado in palestra, questa passeggiata certo non mi farà male. Ho un buon senso dell’orientamento e mi ricordo la strada dell’andata, ma non ho fatto i conti con l’inquinamento e con il traffico. Per ben due volte ho rischiato di finire sotto ad una macchina. I marciapiedi non esistono e i pedoni non godono della benché minima attenzione da parte di chi guida. Lungo la strada mi fermo ad un Money Change autorizzato della Western Union dove l’impiegato mi fa vedere un giornale che riporta il cambio a 63 (l’attuale cambio è circa 68/69) afferro la maniglia della porta dando uno sguardo piuttosto eloquente al malandrino. Ok, ok: 68, però ci sono le commissioni, lo guardo di nuovo, o meglio lo brucio con lo sguardo, ok, ok 68, ma non mi regali niente per me? Se lo sapessero alla Western Union!

Addio Varanasi! Partenza per Delhi. Volo SpiceJet, puntuale e molto economico 37€. Si arriva al terminal 1, e siccome voglio provare la Metro Express, devo attendere lo shuttle per arrivare al terminal 3. Con sole 80 rupie e in un quarto d’ora mi trovo alla stazione centrale di Delhi dopo aver sperimentato un treno modernissimo e pulitissimo (mi sono vergognato per le nostre ferrovie da quinto mondo).

Fuori dalla stazione solito spettacolo deprimente del conduttore di tuctuc che per portarmi in albergo che dista solo 700 metri, mi chiede 350 rupie. Normalmente ci vorrebbero 20 rupie, glie ne propongo 80. Ok, si parte.

L’albergo, il Lal’s Haveli, appare molto meno bello di quanto figura nelle foto, però è abbastanza pulito e il personale è gentile. Dopo aver posato le valige, faccio un giro per il quartiere e scopro una strada piena di negozi di ogni genere, soprattutto souvenir di discreta qualità.

Mi fermo lo stomaco con un somosa comprato in una piccola friggitoria, piccante ma buonissimo e poi mi siedo al tavolo di un ristorantino fronte strada, frequentato da giovani saccopelisti. Il quartiere di Paharganj è caratterizzato da alberghi e ristoranti dedicati ad un turismo improntato all’economia.

La mattina successiva esco di buon ora per fare gli ultimi acquisti, ma tutti, dal portiere al tassista mi dicono che essendo venerdì, tutti i negozi sono chiusi. Mi sembra strano: che c’entrano gli indù col venerdì? Un po’ deluso vado a passeggiare dalla parti di Connaught Place e, poco alla volta tutti i negozi aprono, mah!

Concludo i miei acquisti nel quartiere di Karol Bagh in un mercato dove sei anni fa comprai delle belle sete. Questa volta non ho trovato cose interessanti e soprattutto il quartiere mi sembra molto degradato.

Il mio viaggio volge al termine.

Riprendo la metropolitana per raggiungere l’aeroporto e stranamente il biglietto costa 30 rupie, cinquanta in meno dell’andata.

Dopo innumerevoli controlli e file sono davanti al gate in attesa che venga annunciato il mio volo.

Torno volentieri a casa, dopo aver trascorso due settimane in India. Non so se vi tornerò ancora. Ripeto, conosco bene e amo questo Paese con tutti i suoi contrasti stridenti: la povertà di tanti e il benessere di pochissimi, lo squallore degli slums e la ricchezza dei templi e dei palazzi, il sorriso dei bambini e l’arroganza di chiunque indossi una divisa. Amo i loro cibi piccanti e i loro pasticcini ultradolci e quelle donne costrette a mendicare con i bambini in braccio, ma belle e dignitose come delle regine.



    Commenti

    Lascia un commento

    Leggi anche