Madagascar: il paese blu

Partiamo da Firenze il 27 Luglio per Parigi dove dovremo dormire una notte per imbarcarci il giorno dopo per Antananarivo, la capitale del Madagascar. Facciamo in tempo a vedere Notre Dame, la Torre Eiffel e la chiesetta di Saint Sulpice dove si trova la linea della rosa (anche noi abbiamo letto il Codice!). In realtà però siamo stanchi morti e...
Scritto da: Silvina
madagascar: il paese blu
Partenza il: 27/07/2006
Ritorno il: 21/08/2006
Viaggiatori: in coppia
Partiamo da Firenze il 27 Luglio per Parigi dove dovremo dormire una notte per imbarcarci il giorno dopo per Antananarivo, la capitale del Madagascar. Facciamo in tempo a vedere Notre Dame, la Torre Eiffel e la chiesetta di Saint Sulpice dove si trova la linea della rosa (anche noi abbiamo letto il Codice!).

In realtà però siamo stanchi morti e non riusciamo a passare dagli Champs Eliseé e dall’Arco di Trionfo, peccato, ma tanto Parigi è vicina e possiamo tornarci presto, e poi io comincio già a sentire la fibrillazione per il volo del giorno dopo (10 ore!).

28 Luglio: giornata interamente occupata dal viaggio. Saliamo su un AirBus dell’AirFrance, bellissimo, gigante, con lo schermino davanti su cui puoi vedere films, telefilms, giocare ai videogames, scegliere la musica da ascoltare in cuffia, seguire la rotta che l’aereo sta seguendo… Insomma non vediamo l’ora di decollare per giocare un po’.

Il volo è tranquillo, dall’alto vediamo le coste della Toscana (e le spiagge bianche di Rosignano!), il mar Mediterraneo e poi comincia l’Africa, immensa. Il Sahara visto dall’alto è uno spettacolo quasi commovente, le nuvole che fanno ombra per terra e nient’altro, non si vedono case né strade, l’unica linea che rompe la monotonia è il Nilo, un serpente nero che striscia sulla sabbia.

Riusciamo a dormire un po’ ma seduto davanti a me c’è un bambino fantastico che ha un sacco di voglia di giocare, e che possiamo fare? Giochiamo anche noi! Atterriamo alle 10 di sera in perfetto orario. Siamo rassegnati alla perdita dei bagagli (che abbiamo imbarcato a Firenze due giorni prima) e invece no! Eccoli! Lanciati a mano dal personale dell’aeroporto perché il nastro trasportatore è rotto, ma ci sono tutti e due.

All’uscita ci aspetta la nostra guida, una signora malgascia che parla molto bene italiano e che ci accompagnerà in albergo e ci porterà in giro per la città il giorno dopo. La strada che dall’aeroporto ci conduce all’Hotel de France non è lunga, facciamo due chiacchiere ma siamo stanchissimi, giusto il tempo di accorgerci che fa un freddo cane e che è un buio pesto: non ci sono lampioni lungo la strada e nemmeno dalle case arriva tanta luce! 29 Luglio: l’appuntamento con Dina è per le 8 e mezzo, facciamo colazione (buona, con i croissant caldi e la frutta fresca) e cominciamo a scontrarci con il francese (la lingua) ma abbiamo una gran voglia di cominciare questa vacanza che io ho voluto fortissimamente.

Dina ci fa da guida e Arsù da autista, è sempre così gentile! Ci apre sempre la portiera ma dopo un paio di volte mi sento già in imbarazzo! Vediamo le colline sacre della città, il palazzo del re Adriamponimerina che in è pratica una capanna di legno e della regina Ranavalona I che, sotto l’influsso dell’Inghilterra, abbandona le costruzioni tradizionali a beneficio di un palazzo, sempre in legno, ma più in stile “europeo” con arredi e suppellettili. Tira un vento freddo ghiacciato che ci sferza la faccia, rimpiango di non avere con me uno dei miei molteplici cappellini di lana.

La città vera e propria mi colpisce duro sotto lo sterno: tantissimi bambini stracciati e sporchi che chiedono caramelle e penne per scrivere, mendicanti, venditori di ogni genere di cose, lungo le strade ci sono decine di casupole di legno che vendono ortaggi, frutta, canna da zucchero. Passiamo vicino ad un fiume e vediamo le donne che lavano i panni e li mettono ad asciugare sulle pietre lungo le sponde, peccato che l’acqua del fiume è marrone! Dina ci dice che in città quasi nessuno ha la lavatrice. E noi siamo dentro una macchina che in confronto alle Renault4 scassate che ci sfrecciano accanto, sembra una limousine, belli puliti, con tanti soldi da spendere e tutti ci guardano e ci salutano.

Sto male, e questa sensazione non mi abbandonerà più. Continuiamo il giro della città il pomeriggio ma alle 4 siamo di nuovo in albergo e pensiamo di andare a fare un giro al mercato centrale della città che è lì vicino.

Gente a fiumi, rivoli d’acqua scura che scorre lungo le casupole dove stanno i venditori, tantissimi colori, la gente che ci fissa tra il divertito e l’insolente, provo a fare una foto ma non ci riesco, mi sembra un po’ violare quell’atmosfera così familiare. Passiamo dalla zona dove si vende la carne, e scappiamo velocemente in albergo: un odore nauseabondo di marcio ci colpisce le narici, vedo con la coda dell’occhio quarti di zebù appesi circondati dalle mosche, polli spennati ammassati l’uno sull’altro, interiora e altre cose appese a ganci arrugginiti, devo tenere la testa bassa e lottare contro la voglia di vomitare.

Voglio solo chiudermi in albergo e scappare via da questa città dove la povertà è così sfacciata che fa male, in campagna, mi dico, sarà diverso, sarà più dignitoso.

30 Luglio: facciamo conoscenza con il nostro autista, Elie, che ci porterà fino a Ifaty. Parla inglese! Per fortuna, e non sappiamo ancora quanto questo ci semplificherà la vita.

Ci allontaniamo da Antananarivo dirigendoci a sud verso Antsirabe e le risaie prendono sempre più campo, capiamo che le casette fatte di mattoni rossi e con il tetto di foglie di banano che Dina ci aveva detto essere “case tradizionali” in realtà sono le case del 90% della popolazione, dove al piano di sopra dormono figli (per terra) e genitori (su stuoie o materassi) e di sotto stanno le bestie. Non ci sono mobili, arredi, niente. Solo il fuoco che serve sia per cucinare che per illuminare le stanze, e il cui fumo esce dalla finestra o dal tetto, senza comignolo.

La terra è rossa ovunque, sembra sanguinare e sarà anche per questo che mi sembra che l’uomo abbia usato violenza a questi luoghi, disboscando per creare spazi per l’agricoltura, l’allevamento e i suoi villaggi. Vediamo lungo la strada ampie chiazze nere, testimonianza di incendi, che, capiremo dopo, sono usati come metodo per rubare spazio alla foresta.

Elie ci porta a vedere i due laghi che si trovano poco fuori la città e che sono meta anche di gite dei malgasci. Siamo ancora un po’ intimoriti da questa persona gentilissima che ci porta in macchina fino a un metro dall’acqua e che non ci lascia mai, noi abituati a fare tanti chilometri a piedi e soprattutto a prenderci il nostro tempo.

Arriviamo ad Antsirabe all’ora di pranzo. La città è piena di pousse pousse, i risciò coloratissimi che aspettano, tutti in fila, di portare i turisti e malgasci. Veniamo seguiti da almeno due, ogni volta che ci spostiamo da soli, ma l’idea di farmi portare su un carretto da un ragazzo piccolo e magro mi fa stare male, non voglio salirci. Saliamo in albergo (l’Arotel) giusto il tempo per fare una doccia e per pranzare, l’albergo è grande pulito ma un po’ scialbino, c’è anche una piscina nella quale mi vorrei tuffare ma la temperatura esterna non lo consente. Dopo pranzo Elie ci porta in giro per la città in macchina, mi sembra di essere una di quelle turiste giapponesi che fanno le foto dai finestrini… La città consiste di una strada principale e di alcune vie secondarie ma non assomiglia a niente di quello che conosco, capirò con il tempo che qui il concetto di città è molto diverso dal nostro. Alla fine arriviamo da un signore che si chiama Josef che lavora e vende le pietre preziose, ci fa vedere il suo laboratorio, (che è chiuso perché è domenica) dove usano strumenti solo manuali, e poi ci fa vedere tutto quello che vende. Compro un sacco di roba, anche per vincere l’imbarazzo, e poi i prezzi sono tutti molto bassi. Però esco un po’ risentita, ho l’impressione che Elie ci abbia portato da un suo amico, che ci abbia trattato da turisti “polli da spennare”. Non mi piace ma mi rassegno all’idea che in un viaggio così ci può stare. Capirò diversi giorni dopo che i tour operator organizzano queste visite ai laboratori per promuovere l’attività artigianale e anche perché nelle città non ci sono musei o costruzioni architettoniche particolari da vedere.

31 Luglio: di nuovo in partenza, stavolta per Fianarantsoa con tappa intermedia a Ambositra dove Elie ci dice che la nostra guida parla italiano. Bene! Il francese mi risulta più ostico di quanto credessi, e poi nessuno mi aiuta quando dico che non capisco, anzi, tutti rimangono perplessi come se non fosse contemplato, per loro, che qualcuno possa non parlare francese fluentemente.

La strada è in buone condizioni e la nostra macchina è una jeep Toyota un po’ vecchiotta ma comoda, un dieselone rumorosissimo anche perché Elie tiene tutti i finestrini aperti! Non ho voglia di parlare molto, un po’ per il rumore, un po’ per il vento e perché mi voglio godere il panorama. Ogni tanto mi sento in colpa perché penso che Elie si sta annoiando a morte ma Maurizio mi dice, giustamente, che ci sarà abituato.

La strada è deserta, per chilometri e chilometri ci siamo solo noi, quando incontriamo dei passanti o dei villaggi tutti ci salutano con la mano, fanno grandi sorrisi e i bambini addirittura ci seguono correndo per un po’. E ci urlano “Vasà, vasà” cioè “straniero”, a volte accompagnato da “Bon bon” cioè caramelle. Naturalmente noi non le abbiamo ma anche la Lonely dice di non dare caramelle ai bambini perché poi non hanno i soldi per il dentista. Però le penne le potevamo portare.

Ambositra è sconcertante, la nostra guida che parla italiano perché lo sta imparando (da sola, con un librino) preferisce però parlare in francese. È una ragazzina alta un metro e mezzo che quando siamo scesi di macchina ho scambiato per la sorella maggiore del bambino che mi chiedeva una penna così insistentemente che ho dovuto regalargli la mia. Ha un paio di infradito di plastica che qui sono la calzatura più diffusa, un paio di pantaloni della tuta e un golfino di lana bucato. In realtà ha 25 anni e ha già una bambina, fa la guida da alcuni anni e dice che vuole imparare bene l’italiano perché ci sono tanti turisti italiani lì. Mi sento soffocare, mi dice che ad Ambositra vanno tante persone dalle campagne sia a vendere che a comprare un po’ di tutto ma che la gente delle campagne è un po’ “sempliciotta”, questo almeno è il senso del discorso, perché si vestono ancora con il Lamba, che è una specie di mantello che fa in realtà anche da vestito, e che a loro piacciono i colori sgargianti, ma in città la vita è molto diversa… Mi guardo intorno e mi verrebbe voglia di chiedere “Quale città?”. Le case si susseguono una addosso all’altra e non c’è un tetto che sia di mattoni; lungo la strada principale, appena voltato l’angolo vediamo cumuli di spazzatura e di legno che bruciano, i bambini vanno in giro scalzi e sporchi e i vecchi sono così vecchi che sembrano fare parte del paesaggio da sempre. Sto male.

Ci porta a casa di una signora che fila la seta grezza e ne ottiene sciarpe, ci fanno vedere tutto il procedimento, in una casa composta da tre stanze, ci fanno sedere davanti a un tavolino e nell’angolo c’è il letto. Mi sembra di stare in un sogno, mi fa vedere le sciarpe che fanno e io chiedo se non ne hanno una più grande, me la mostrano ma mi dicono che è cara: 90.000 Ariary cioè 35 euro, ma mi dicono che si può trattare. Io che non sono capace nemmeno a casa mia, qui di fronte a questa miseria soverchiante non so che fare, ma capisco che è quasi obbligatorio. La pago 75.000 Ar (30 euro) e la ragazzina alla fine mi dà anche il biglietto da visita, se i nostri amici vogliono andare in Madagascar, dice, e poi per mandarle un po’ di soldi per finire il liceo, aggiunge. E la sua mamma ride divertita da quella figlia anche un po’ sfacciata. Sono annientata, andiamo a pranzo con un nodo al posto dello stomaco. Per la prima volta pronuncio le parole “Voglio tornare a casa” e da adesso in poi lo farò tutti i giorni.

Arriviamo in tardo pomeriggio allo Tsara Gues House, un albergo bellissimo! E pensiamo di andare a prelevare i soldi agli sportelli automatici che ci sono lì vicino all’albergo ma… Sorpresa! Accettano solo le VISA e noi abbiamo 3 Mastercard! PA-NI-CO, i soldi ce li abbiamo ma non ci basteranno per tutto il viaggio! Consultando la Lonely Planet (che, contrariamente al solito, si rivela NON fondamentale) scopriamo che alla Bank of Africa danno anticipi di contante anche con l Mastercard ma al momento è chiusa, vabbè tanto tra 2 giorni torniamo a dormire qui, ci andiamo dopodomani. Improvvisamente ci troviamo in un posto dove non funziona il gioco “infilo-la-carta-magnetica-escono-i-soldini”. E per me, occidentale, è un po’ traumatico.

01 Agosto: partiamo la mattina per il parco nazionale Ranomafana. Arriviamo dopo una mezz’ora di pista in mezzo alla foresta. La strada è in rifacimento e ci sono un sacco di persone che lavorano, Elie ci dice che la maggior parte delle volte sono persone che abitano nei villaggi vicini alla strada che le ditte assoldano per fare i lavori (penso che forse se il lavoro è fatto bene è vantaggioso per loro innanzitutto). Sono quasi tutti scalzi e cucinano su dei fornelletti improvvisati dei granchi, ce lo dice sempre Elie, che vivono nella foresta. IL BIRGUS!!! Infatti lo trovo segnalato nei cartelloni che sono all’ingresso del Parco ma non riesco a vederlo, peccato! Il nostro albergo, il Setam Lodge, è composto da una serie di bungalow tutti in muratura ed è disposto su una collinetta. È molto bellino, sembra di stare sulle Alpi! La giornata è strana, soleggiata ma fredda. L’escursione diurna nel Parco dura 3 ore, le nostre due guide (soprannominate la bella e la capretta) ci fanno vedere tutto il vedibile, finalmente facciamo conoscenza con i lemuri! Sono dappertutto, di molte specie diverse e non hanno per niente paura di quelle strane creature che stanno laggiù per terra a fotografarli in tutte le posizioni. Per vederli dobbiamo sempre deviare dal sentiero principale e usciamo dal parco stravolti e sporchissimi. Il Ranomafana è una foresta umida e in effetti, nonostante il sole, c’è fango ovunque che fa fare anche dei begli scivoloni! (io stranamente riesco a mantenere l’equilibrio).

Il pomeriggio, quando noi siamo in albergo, inizia a piovere, il cielo si copre di nuvole, le vediamo arrivare dalla vetrata della sala da pranzo dell’albergo, e inizia a scendere una pioggerellina fitta e costante…Cazzo! il K-way è rimasto a casa! Poi però improvvisamente smette di piovere ed Elie, come ci aveva promesso, ci porta alla Piscina calda che è una vasca di acqua termale a pochi chilometri dall’albergo. È bellissimo, con quel freddino buttarsi nell’acqua tiepida è favoloso. È pieno di bambini accompagnati dai genitori e ci sono pochi turisti. Poi arriva un gruppo di ragazzi italiani che cominciano a fare la lotta e i tuffi e si fanno il vuoto intorno… È strano però vedere come istantaneamente, con l’arrivo dei turisti, i bambini, che occupavano tutta la vasca, si mettono tutti da un lato e dall’altro si dispongono i “bianchi”. Restiamo un’oretta ma le nostre guide ci aspettano per l’escursione notturna nel Parco!!!! Arriviamo all’ingresso e partiamo sperando che non piova perché sennò ci prendiamo la polmonite! Il percorso è lo stesso della mattina, arriviamo a una radura dove c’è una specie di tettoia con delle panchine e la capretta ci spiega che lì le guide portano il cibo ai lemuri, per farli vedere ai turisti (anche se ho un brivido, sempre a causa del francese, quando la capretta mi dice che “passeremo la notte qui” e penso “Oddio ora se la turista francese che apre lo zaino tira fuori un sacco a pelo svengo!”). C’è già un Fossa Fossana che è un predatore lì accucciato che aspetta e ci guarda incuriosito e vediamo anche un Microcebus che è una specie di topolino tenerissimo (sempre un lemure, però) che si arrampica sui tronchi.

Torniamo in albergo un po’ stravolti e facciamo la doccia al lume di candela perché è saltata la luce e, dalle candele pronte sul comodino, immagino che sia una cosa abbastanza frequente.

02 Agosto: Torniamo a Fianarantsoa, sovvertendo il programma che voleva che ci tornassimo dopo pranzo, perché dobbiamo andare in Banca a prendere questi soldi maledetti prima che mi venga un’ulcera. Alla Bank Of Africa, sempre aiutati da Elie che ci fa da interprete, la signora, dopo una prima titubanza, ci dice che non ci sono problemi e che dobbiamo tornare il pomeriggio. Peccato che il pomeriggio ci dice che la richiesta è stata rifiutata e non si sa perché. Io non so come ho fatto a non cadere per terra. Per fortuna che c’è Serge che ci fa da guida per la città e che interrompe il tour perché –mi dice- non sono tranquilla e vede dai miei occhi che non lo ascolto mentre parla (io sono senza parole, potrebbe fare il suo lavoro senza darsi troppo pensiero).

Insomma ci richiede un nuovo prelievo e ci fa presente che con la Western Union è tutto molto più semplice. Io sono nel panico totale, già mi vedo a lavare i piatti a Nosy Be, Maurizio come al solito mantiene la calma e la lucidità che gli faranno guadagnare alla fine della vacanza l’appellativo di “santo”. Alla fine, grazie alla mamma, riusciamo ad avere i soldi per la mattina seguente.

Risolti i problemi logistici, facciamo un giro per la città: Fianarantsoa è la cosa di più simile a una città che vedremo in tutto il viaggio (anche se ancora non lo sappiamo), la fondazione voluta dal proprietario dell’albergo in cui siamo (lo Tsara Guest House) ha lo scopo di tutelare il centro cittadino dal punto di vista architettonico imponendo la costruzione di case che rispettino lo “stile tradizionale” (cioè che abbiano tetto di tegole e mura di mattoni rossi) per evitare il degrado già visto altrove fatto di case in lamiera e baracche di vario tipo.

Serge (la nostra guida) è un ragazzo gentilissimo, molto orgoglioso della sua città così ben curata e così “multireligiosa” visto che ci sono molte chiese tutte di religioni diverse, in una ci fa anche entrare e rimango molto colpita dalla fusione di stili: la chiesa è cattolica con tre navate, colonne in pietra e abside finale ma è tutta dipinta con colori sgargianti tipicamente africani: verde, rosa, azzurro, … altra cosa che mi colpisce è la numerosità (per una città tutto sommato abbastanza piccola) di spazi nei quali la gente si ritrova per partecipare a spettacoli o concerti o per discutere dei problemi comuni.

03-05 Agosto: dopo aver finalmente avuto i nostri soldini (e dopo aver debitamente ringraziato Serge al quale ci ripromettiamo di mandare un regalo appena tornati a casa) partiamo per il Parco dell’ Andringitra, un massiccio roccioso a sud di Fianarantsoa.

Il viaggio è abbastanza lungo soprattutto l’ultima parte che facciamo su una pista molto accidentata. Il paesaggio lentamente cambia, le risaie si fanno meno fitte e si innalzano sull’orizzonte grandi pareti rocciose. Arriviamo nel primo pomeriggio a Camp Catta dove passeremo ben tre notti (il nostro record di permanenza) anche se Elie ci dice che secondo lui sono sprecate (ma si affretta a ricordarci che gli autisti non possono decidere niente sull’itinerario, devono solo eseguire…).

Camp Catta è un campeggio in mezzo al niente di questi luoghi, circondato da vegetazione bassa e da montagne, immerso in una pace assoluta, le camere sono in realtà tanti piccoli bungalow rossi in muratura realizzati sullo stile delle case tradizionali, non c’è linea telefonica né copertura cellulare, l’acqua calda c’è grazie a dei pannelli solari (e quindi è poca visto che il sole tramonta alle cinque e mezza) ma ci dicono alla reception che se ne abbiamo bisogno possiamo chiederla (scopriremo l’ultimo giorno che, come avevamo sospettato, sono le donne delle pulizie a riscaldarla in grandi pentoloni sul fuoco e a distribuirla poi con secchi di plastica colorati). La luce elettrica la fornisce un generatore che è in funzione dalle 18 fino a mezzanotte o giù di lì.

A Camp Catta ci sono delle guide per ogni gruppo di persone e la nostra è un ragazzo dolcissimo che parla in francese molto lentamente usando parole semplici perché ha capito che ho qualche difficoltà. È uno dei pochi con i quali sono riuscita ad avere un dialogo più o meno coerente.

Nei tre giorni che rimaniamo facciamo un’escursione per principianti visto che il capetto delle guide ci dice che l’ascesa al “Camaleonte”, la montagna che domina la vallata così chiamata perché le rocce sulla sommità ricordano un camaleonte appunto, è un po’ difficile. E andiamo a vedere i lemuri Catta (quelli del film Disney, finalmente!) che stanno lì sulle rocce e ti guardano incuriositi col musino a punta e gli occhi rossi e le piscine che il fiume forma lungo il suo corso. La nostra guida decide anche di buttarsi in acqua, io il massimo che riesco a fare è infilarci i piedini perché è fredda da morire!!! Lungo il fiume incontriamo come sempre le donne che lavano i panni e che si mettono in faccia quell’impasto colorato che è poi una maschera di bellezza ricavata da una pianta, attraversiamo i villaggi in cui tutti ci osservano nelle nostre tenute da perfetti turisti, con tanto di macchina fotografica al polso e i bambini ci inseguono chiedendoci le caramelle e le donne ci salutano da lontano.

Rimaniamo affascinati dal grande lavoro fatto nel dispensario da un ragazzo che fa nascere i bambini e cura malattie non gravi ed effettua interventi di piccola chirurgia con mezzi e medicine da zona di guerra. Ci fa vedere i locali e ci spiega che gran parte dell’attività sono i parti e che le donne vanno lì a partorire dalle zone vicine (non tutte perché se abitano troppo lontano con le doglie non ce la fanno ad arrivare) ma allo stesso tempo stanno formando le donne dei villaggi per insegnare le tecniche di parto “moderno”. Accanto al dispensario ci sono anche delle stanze in cui possono alloggiare i parenti delle donne…

06 Agosto: Ripartiamo dall’Andringitra e ci dirigiamo verso Isalo, il paesaggio cambia ancora, la vegetazione diventa ancora più rada e si innalzano dal suolo enormi blocchi di pietra rossastra, ognuno con una forma ben definita e con una storia: il “Cappello del Vescovo” ad esempio è un massiccio sul quale gli abitanti della zona si sono rifugiati durante la dominazione francese e dal quale si sono buttati suicidandosi tutti, hanno preferito la morte alla schiavitù.

La strada si snoda davanti a noi e dietro di noi dritta e lunghissima, chilometri di asfalto vuoto interrotto solo ogni tanto da qualche jeep che sfreccia acanto a noi suonando il clacson mentre il guidatore solleva un braccio in segno di saluto. Non sono tutti amici di Elie come credevamo all’inizio, è solo che gli autisti (o comunque quelli che possiedono una macchina) sono una piccola comunità i cui membri si danno aiuto e sostegno in caso di bisogno e sono sempre pronti a scambiarsi un sorriso o un gesto amichevole.

Il clima comincia lentamente a migliorare, c’è il sole e l’aria è limpida e nelle ore centrali della giornata è molto caldo, per fortuna!! Il nostro hotel, il Relais de la Reine è “il più bello e costoso di tutto il Madagascar” ci dice Elie ed ha ragione, è un piccolo paradiso che si scorge a malapena tra le rocce, tanto è ben integrato con il luogo e l’ambiente circostante. Si chiama così perché poco distante c’è una roccia che guardata da un certo punto di vista sembra una regina ed è formato da costruzioni in pietra che ospitano 4 camere ciascuna circondate da giardini in cui si trovano piante con fiori variopinti e palme di ogni genere. C’è anche una piscina e ci fiondiamo subito a distenderci sulle sdraio prima dell’appuntamento con Elie delle 17 (ci ha detto che andiamo a vedere il tramonto alla finestra di Isalo).

Lo spettacolo del tramonto dietro la finestra di Isalo è meraviglioso, un po’ affollato ma meraviglioso.

07 Agosto: Escursione al Parco di Isalo. Ci alziamo in mezzo ad una nebbia fittissima e a un freddo pungente e penso che non sembra proprio di essere in Africa, ma poco dopo il cielo si apre in un azzurro meraviglioso… meno male che non ho rinunciato ai pantaloni corti! La nostra guida, Solo, è un ragazzo dalla risata aperta e contagiosa che a tratti diventa serissimo, (quando mi dice ad esempio, che il prossimo inverno vuole andare a Antananarivo ad imparare l’italiano perché ci sono tanti turisti italiani) e che trova divertentissima la parola “tartaruga”. Parla inglese per fortuna e riusciamo a comunicare in maniera abbastanza fluida, ci porta alla Piscina Nera e alla Piscina Blu, alla Cascata delle Ninfe e, nel pomeriggio, ci porta sulla cima di un massiccio dal quale si domina un panorama grandioso: le rocce rosse e vedi stratificate si stagliano sull’orizzonte adagiate su una vegetazione bassa.

La cosa che ci colpisce è il silenzio irreale che ci pervade e che non voglio sciupare con parole inutili in un inglese stentato. Ci riposiamo seduti sulle rocce e spettinati dal vento. Ripartiamo dopo qualche minuto per la Piscina Naturale dove si può fare il bagno (o meglio si potrebbe se ci fossimo ricordati il costume) e che è piena di turisti francesi schiamazzanti e accaldati. Rimaniamo un po’ ma siamo un po’ allergici ai turisti e, dopo aver ripreso un po’ di fiato, ci mettiamo in marcia per il ritorno. All’auto Elie ci aspetta con l’ananas! Ci vuole proprio dopo questi 10 chilometri, freso e succoso “Better than a beer”. Torniamo in albergo e visto che non abbiamo fatto il bagno alla Piscina naturale decidiamo di buttarci in piscina… per poco non ci rimango! Continuiamo a dimenticarci che in realtà è inverno! 08 Agosto: Ancora Isalo, oggi visitiamo i Canyon che si aprono tra le rocce e che sono ricoperti di vegetazione, scopriamo che con una marcia di almeno 5 giorni e con tratti di arrampicata si arriva alle Grotte dei Portoghesi ma noi ci fermiamo quasi subito! La mattina vola via velocemente ed è il momento di partire per Tulear e Ifaty dove ci godremo due giorni di mare. Il viaggio è molto lungo e decidiamo di metterci subito in macchina, è anche il nostro ultimo giorno con Elie e mi dispiace parecchio, ci eravamo abituati alla sua allegria e alla sua efficienza.

Arriviamo Ifaty in serata e il nostro albergo è l’ultimo lungo una pista lunga e dissestata al termine della quale abbiamo terra rossa in ogni poro. La signora che ci accoglie è molto carina e ci dice che siamo gli unici ospiti perché tutti sono partiti quel giorno stesso, ceniamo a base di pesce e andiamo a dormire stanchissimi.

09-10 Agosto: la permanenza a Ifaty è dominata dalle BALENE! Il proprietario dell’albergo (Le Paradisier, un posto magnifico, con poche camere tutte con una veranda direttamente sulla spiaggia) ci dice che è possibile noleggiare una barchina e andare a vedere le balene oltre la barriera corallina (che però in questo tratto è morta), naturalmente accettiamo entusiasti.

È un’esperienza sconvolgente, le balene sono immense, vengono a galla per poi immergersi subito, ma non prima di averti fatto vedere la coda bianca e lo sbuffo dell’acqua dal dorso. Mi viene da piangere, è un’emozione che non pensavo di provare così intensamente, mi sembra di stare dentro a un documentario. Rinuncio a inseguirle per tutta la sera solo perché comincio ad avvertire il mal di mare… Altra cosa da sottolineare (meno poetica) sono le colazioni che ci servono all’hotel, una sotto il ficus, l’altra nella veranda della nostra enorme camera da letto, sono semplicemente squisite, vari tipi di marmellata, caffè e latte caldi, succo di frutta, frutta fresca, crepes appena fatte e baguette… Vincono la gara per la colazione migliore e menzione particolare ai camerieri, sempre cortesi e sorridenti 11 Agosto: partenza per Morondava, sono in fibrillazione per il volo già dalla sera precedente e quando arriviamo all’aeroporto mi ghiaccio: il tabellone è una lavagnetta con i gessi, i biglietti li scrive a mano un’omino e i bagagli vengono portati a mano sulla pista. Sono terrorizzata.

In realtà il volo è tranquillissimo, l’aereo è nuovo e pulitissimo e il personale è preparato (naturalmente lo steward seduto davanti a me si fa delle grosse risate al decollo) e poi la giornata è bellissima.

Arriviamo puntuali a Morondava e lì ci aspetta il nostro autista che ci porta in albergo facendoci fare un giro della città e che ci porterà poi a vedere l’Avenue du Baobab. È un ragazzo un po’ strano, che quando dico che non capisco benissimo il francese mi fa la solita faccia stupita come se gli avessi detto che mangio i bambini… L’albergo (Hotel Baobab) è molto carino e molto “marinaro” e il ristorante ha una splendida veranda sul mare ma abbiamo appena il tempo di dargli un’occhiata perché dopo un’ora circa ci aspettano per portarci all’Avenue dei Baobab, una pista sterrata in mezzo ai Baobab, questi alberi giganteschi che svettano sulla vegetazione bassa e stentata.

Il viaggio non è lungo ma la strada è molto dissestata, l’asfalto posato direttamente sulla sabbia è rotto in più punti con il risultato che è tutta una buca continua… Arriviamo direttamente ai Baobab innamorati, due alberi che sono cresciuti uno avvinghiato all’altro, in un abbraccio tenero e infinito, il posto è magico, è una piccola radura a cui si accede da una strada che finisce proprio lì, ma ovviamente è tutto un via vai di pick-up che portano turisti a fare un paio di foto per poi ricaricarli in macchina. Ci sentiamo un po’ stupidi, tutti in fila ad aspettare ma facciamo anche noi la nostra brava foto e poi ce ne facciamo fare una avvinghiati come i baobab.

Torniamo indietro e ci facciamo a piedi tutta l’Avenue che è piena di bambini che ti prendono per mano, ti fanno le carezze e ti chiedono come ti chiami e ti dicono che sei bella. Mi fa male al cuore pensare che è il loro modo innocente e sfacciato di vendersi ai turisti per un soldino o una caramella, ancora una volta vorrei tornare a casa dove i bambini sono cattivi e arroganti e non hanno quegli occhi marroni profondi che mi fanno sentire in colpa.

Aspettiamo il tramonto e il grigio dei Baobab si accende di arancio, rosa e rosso, è bellissimo, tutto il paesaggio assume un aspetto magico con questa luce. Non è il sole sfacciato che inonda d’oro tutto quello che tocca, è timido e tiepido. Torniamo in albergo stanchissimi, doccia (di nuovo), cena e nanna (con annesso incontro con scarafaggi…) 12 Agosto: la mattina presto siamo in partenza per Bekopaka nel Parco Nazionale degli Tsingy de Bemaraha, dichiarato Patrimonio Mondiale dell’Umanità dall’UNESCO. SI tratta di pinnacoli di roccia calcarea modellati a guglie dall’erosione. Il loro nome significa “camminare in punta di piedi” perché le sommità sono affilatissime.

Il viaggio copre 200 Km, per farli tutti ci metteremo 8 ore. Capiamo solo adesso quanto poco valore abbiano le distanze espresse in chilometri in questo paese, ce lo dice anche il nostro autista quando gli chiedo se la strada sarà brutta. All’ora di pranzo ci fermiamo per attraversare il fiume Tsiribina su una chiatta che porta 3 macchine per volta. Il fiume è letteralmente marrone, l’acqua è poca e quella poca è piena di terra; lì accanto a noi che, come al solito, suscitiamo curiosità non appena ci spalmiamo la crema solare, c’è una donna che lava due stracci in quell’acqua scura con un bambino minuscolo aggrappato dietro la schiena. Appena ha finito chiama un’altra bambina poco più grande e la spoglia per lavarla (sempre in quell’acqua), la tenerezza che mi suscita questa frugolina che sta attentissima a non sporcarsi i piedini appena lavati quando si deve rivestire è immensa, vorrei scattare migliaia di foto ma ho sempre paura di intromettermi troppo quindi lascio perdere.

Pranziamo sull’altra sponda del fiume a Belo sur Tsiribina in un ristorante-albergo molto carino in cui mangiamo molto bene, Maurizio ordina poisson frit e gli portano un pesce intero completo di squame, pelle e occhi fritto e quando lo assaggio scopro che è buonissimo! In serata arriviamo a Bekopaka, qui scopriamo che il nostro alloggio è Camp Croco, un campeggio vero e proprio dove (guardacaso…) le tende grandi sono finite e restano solo le tende piccole cioè le canadesi. Accettiamo di dormire in una canadese, non mi importa, sono stanca e capisco la metà di quello che mi dicono… non mi abbandona comunque la sensazione che si siano approfittati del “turista”.

13 Agosto: sveglia presto per gli Tsingy!!! Un gruppo di ragazzi milanesi che sta al Camp Croco ci chiede se faremo i Piccoli Tsingy o i Grandi Tsingy e io rispondo sicura che faremo i Piccoli! Ho letto che per fare i grandi bisogna essere allenati e poi la loro dimensione non va d’accordo con il mio terrore dell’altezza, ma… Sorpresa! Il nostro autista-guida tuttofare ci ha già prenotati per i grandi Tsingy (ce lo comunica molto soddisfatto, io entro subito nel panico) e dovremo dividere la guida con due ragazzi francesi che si riveleranno antipatici da morire.

La mattina inizia con un giro in piroga sul fiume alla scoperta delle grotte scavate dall’acqua e delle tombe dei primi abitanti del Madagascar, l’aria è frizzante ma il cielo è limpido e si prospetta una giornata calda.

Prima di iniziare l’escursione vera e propria dobbiamo dotarci di alcuni dispositivi per la sicurezza e io penso “ci daranno caschetti e torce”… NO! Ci devono dare delle imbracature perché ci sono dei tratti sulla camminata un po’ esposti e quindi dovremo agganciarci ai cavi d’acciaio! PANICO! Non posso nemmeno lamentarmi per non fare brutta figura con i francesi indomiti che ci sono toccati in sorte, li maledico tra me e me e mi accingo a stare male.

La scalata si rivela invece molto piacevole e anche non troppo affollata, partiamo dalla base degli Tsingy strisciando lungo le pareti di roccia meravigliati dalla ricchezza di flora che c’è in questa regione, le radici degli alberi aggrappati alla roccia scendono per decine di metri per cercare l’acqua. Lentamente risaliamo lungo i pinnacoli, il cammino è un po’ accidentato ma il lavoro fatto dall’Ente Parco per renderlo accessibile è mastodontico: nei tratti più difficili sono stati inchiodati alla roccia degli scalini fatti di roccia anche loro che rendono la scalata molto più semplice (anche per me che notoriamente non sono un’arrampicatrice). Arriviamo dopo un paio d’ore sulla terrazza panoramica: una piattaforma di legno poggiata sulle sommità degli Tsingy da cui si domina tutto il Parco, è bellissimo: sono stanca, mi sono sbucciata le ginocchia (come i bambini) e sono stata mangiata viva dalle zanzare ma la vista ripaga di tutto: sono troppo contenta di avercela fatta! La discesa è anche più semplice, tranne quando arriviamo al ponte sospeso (di legno e traballante), lì devo andare spedita senza guardarmi intorno perché sennò so che non ce la farei. La giornata si chiude con un giro in piroga al tramonto per il quale ci chiedono un sovraprezzo di 3.000 Aryary (circa 1 euro e mezzo!), il livello dell’acqua è talmente basso che il rematore deve scendere più volte per spingerci a mano. Nel villaggio si sta per celebrare un funerale infatti assistiamo al via vai degli invitati che cantano e ballano sulle piroghe… com’è diverso da quello che siamo abituati a vedere noi! 13 Agosto: giornata dedicata al viaggio di ritorno a Morondava, partiamo alle 10 invece che alle 7 (dopo essere stata presa dal panico perché nella mia mente il nostro autista ci aveva lasciato lì dimenticandosi di noi) perché le auto devono attraversare il fiume e non possono farlo a più di tre per volta mentre quella mattina sono alcune decine. L’autista ci dice che il Madagascar è così, non bisogna mai avere fretta.

Arriviamo a Morondava alle sette di sera, stravolti.

14 Agosto: partenza per Antananarivo dove faremo tappa una notte per poi andare a Nosy Be, ultima meta del nostro viaggio. Quando arriviamo in città ad aspettarci c’è Dina che ci accompagna di nuovo all’Hotel de France e ci dice (capendo al volo quello che stavo pensando): “Vedete adesso come è diversa Tanà dal resto del Paese?” In effetti ora questa mi sembra una vera città quando solo due settimane prima mi aveva sconvolto. Sono contenta di vedere un po’ di negozi e di insegne ma la mia prospettiva di fare un giro prima di cena cozza contro la mancanza cronica di lampioni: non mi sento in pericolo (non mi ci sono mai sentita in qualsiasi posto siamo andati) ma senza luce e non conoscendo le strade non ti viene granché voglia di passeggiare, quindi mi rassegno e torniamo in albergo dove ci gustiamo una cenetta al ristorante e poi nanna, anche perché l’avventura in tenda ci ha lasciato un raffreddore tremendo e siamo senza fazzoletti! 15 Agosto: Dina e Arsù ci accompagnano prestissimo in aeroporto per prendere il volo per Nosy Be, in strada ci sono già un sacco di persone anche se oggi è festa e Dina, gentilissima, ci accompagna anche in farmacia dove compriamo aspirina e fazzoletti per curarci il raffreddore che peggiora di giorno in giorno. Il volo è puntualissimo e alle 10 circa siamo già a Nosy Be.

Scendiamo dall’aereo e finalmente SOLE! Caldo e sole! Mi sento subito meglio e non vedo l’ora di fare un bel bagno in mare.

L’hotel Coral Noir è a 30 minuti circa dall’aeroporto, ci accoglie una ragazza italiana (la gestione è italiana) che ci offre un aperitivo molto buono, ci spiega come funziona tutto e ci fa accompagnare in camera: è un bungalow di legno, enorme con la frutta sopra il cassettone e i fiori sopra il letto, ci scappa un po’ da ridere ma è molto carino. Io mi metto subito il costume e mi avvio verso gli ombrelloni: la spiaggia antistante non è impedibile ma è molto tranquilla, arriviamo in tempo per il passaggio di una mandria di zebù che approfitta della bassa marea per attraversare la spiaggia e che vedremo tutti i giorni fino alla nostra partenza; sulla spiaggia passano anche i bambini del paese che chiedono caramelle e matite e che fanno la ruota per farsi notare dai turisti, il meglio che posso fare è salutarli con la mano e sorridere con un’espressione ebete.

16-21 Agosto: la settimana è caratterizzata dal mare e dal dolce far niente, in albergo organizzano delle escursioni ma noi non c’abbiamo voglia e facciamo di tutto per evitarle, ci sdraiamo al sole (io, Maurizio sta all’ombra mezzo vestito e riesce lo stesso a scottarsi) e leggiamo tutto quello che ci capita, al massimo una partita di scacchi la sera prima di andare a dormire.

Un paio di volte però andiamo alla spiaggia dell’Andilana, la più bella dell’isola: è un paradiso di acqua trasparente (e caldissima) e di sabbia bianca protetta all’interno dalle palme che si protendono pigramente verso il mare.

C’è un ristorante molto carino con i tavoli sulla sabbia dove pranziamo che serve pesce di vari tipi (ma non aragosta che sembra la pietanza più gettonata tra i turisti, sarà perché costa veramente poco). Dietro un promontorio c’è anche il VentaClub che però rimane isolato dal resto della spiaggia e fortunatamente non invade lo spazio vitale. Pur essendo la spiaggia più bella di un’isoletta molto turistica ci troviamo, di sabato mattina, in 10, non di più, a goderci questo paradiso.

Ma ormai è tempo di tornare a casa e sinceramente non vediamo l’ora. Il viaggio di ritorno è un susseguirsi di aerei (Nosy Be-Tanà, Tanà-Parigi, Parigi-Firenze) con la perquisizione personale e di bagagli che ci coglie un po’ di sorpresa.

Ci rimarranno negli occhi le risaie a perdita d’occhio, terrazzate fin sulla cima delle colline, la terra rossa che sembra sanguinare privata di alberi e foreste secolari per far posto ai pascoli e ai villaggi, lo spettacolo delle foresta pluviale che si stende sotto di noi a perdita d’occhio, i lemuri fotografati e avvistati che scrutano gli ominidi dalla cima degli alberi, i camaleonti di ogni forma e dimensione, le balene che giocano nell’acqua, Isalo con i colori sgargianti della roccia bagnata dal rosso del tramonto, Andringitra dai massicci svettanti nell’azzurro limpido, gli Tsingy come dita protese ad indicare il cielo, il mare limpido e trasparente che si alza e si abbassa al ritmo delle maree.

Ci rimarranno però nel cuore gli occhi di tutti i bambini che abbiamo incontrato, i sorrisi delle donne ancheggianti sotto il peso di ceste colorate portate sulla testa con una eleganza invidiabile, i saluti con la mano dei ragazzi e degli uomini che abbiamo incontrato sulle strade, le urla dei bambini che ci chiamano “Vasà” e ridono di cuore della nostra strana lingua e dei nostri vestiti, la saggezza di un popolo che vive ancora, per quanto può, in connubio con la natura che lo circonda, servendosi di piante medicinali e rispettando i ritmi che le piogge stagionali impongono.



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