Liguria tra terra e mare

In pellegrinaggio da Camogli a San Fruttuoso sul sentiero di Pietre Strette… e ritorno in motonave
Scritto da: cappellaccio
liguria tra terra e mare
Partenza il: 10/07/2013
Ritorno il: 11/07/2013
Viaggiatori: 1
Spesa: 500 €
In pellegrinaggio da Camogli a San Fruttuoso per il sentiero “pietre strette” e ritorno in motonave (Parco del Monte di Portofino).

È da un po’ che mi sto intestardendo sulla Liguria. Stavolta getto l’àncora a Camogli, borgo di case colorate allineate sul mare, bloccato alle spalle dai monti incombenti. Questa località marinara, in realtà, è il mio campo base per partire alla conquista del promontorio di Portofino e visitare l’antica abbazia di San Fruttuoso annidata in una stretta baia e incorniciata da una fitta macchia mediterranea.

Scendo dal treno verso le dieci e mezza di sera e appena metto piede fuori dal vagone di Trenitalia con aria condizionata “a chiodo”, prendo una bella boccata di brezza notturna, il cui effetto è simile allo shock termico patito dagli abitanti di Ercolano (polmoni inceneriti dai gas ardenti dell’eruzione del Vesuvio). Che la “Casa delle Mogli” dei pescatori – questa sarebbe una possibile etimologia di Camogli– oggi sia rimasta calcinata dal sole me lo conferma Matteo, gestore del B&B Margherita dove sto per pernottare, che mi è venuto gentilmente a recuperare in stazione dopo essersi concesso una nuotatina serale nelle acque del mare “bollenti”, secondo la sua attendibile testimonianza. Per avere un’idea di quale sia il suo aspetto basta pensare a una versione giovanile di Beppe Grillo (che peraltro è genovese).

Carico il mio zaino sulla sua auto e mi sistemo sul sedile davanti, col finestrino abbassato. Mentre procediamo per la salita il mio anfitrione mi spiega qual è la strada che dovrò imboccare domattina –quella che porta alla caserma dei carabinieri- per infilare, in seguito, il sentiero che conduce da Camogli a San Rocco e riuscire a giungere fino alla cala di San Fruttuoso, meta finale della mia scarpinata.

Lo stabile rosa di fronte a cui parcheggiamo presenta imposte verdi e un’architettura con un bugnato che decora gli angoli. La stanza rappresenta il miglior compromesso qualità-prezzo che ho potuto trovare in questo lembo di Liguria in questo periodo dell’anno: 45 euro per una matrimoniale uso singola a notte, colazione compresa.

Alla mattina, sfregandomi con gli indici gli occhi ancora assonnati, sbuco in cucina, dove mi aspetta il tavolo imbandito per la colazione. Prendo posto a sedere e assaporo con calma il tè caldo, intingendo, allo stesso tempo, il croissant dall’esterno croccante e tiepido nello yogurt alla fragola che ho ricevuto in dotazione per oggi. Matteo, in un sussurro, per non disturbare l’altra ospite, mi mette al corrente del fatto che fuori c’è nuvoloso.

-“Be’, non è una cosa negativa per i miei propositi.” gli rispondo di buonumore.

Sono pronta per intraprendere, con lo zaino in spalla, la discesa lungo la strada asfaltata verso la zona della stazione FS. Anche se il sole è coperto da una spessa coltre di nuvole la giornata è afosa: non c’è nemmeno un filo d’aria.

Nei pressi della stazione vado a sinistra, in direzione caserma dei carabinieri e di lì proseguo lungo un vialetto alberato che sale con una pendenza lieve e regolare. Al termine del vialetto ho un attimo di esitazione, dato che qualche spiritoso ha cancellato con una macchia di vernice l’indicazione sulla freccia segnaletica. Siccome mi metto a fissare il cartello un operaio con una carriola mi rassicura sorridendo:

-“Sì, è per di qui.”

Appena comincia la prima scalinata tutta in salita inauguro un’andatura da processione, come quando suonavo il sassofono nella banda di Berra, anche se qui il rumore che si sente è principalmente lo stridore delle cicale. Forse mettersi i pantaloni lunghi non è stata un’idea particolarmente arguta. Madonna che caldo micidiale!

Alla mia sinistra, alzando lo sguardo, si vedono le case di un paesino abbarbiccato sul pendio della montagna.

Per ora sto camminando bordeggiando un muretto a secco, nel quale s’insinuano, al posto della malta cementizia, dei ciuffi d’erba. Ma ecco che scopro che qualcuno ha incapsulato fra le pietre il fondo di un ferro da stiro decorativo, che ha la forma dei ferri da stiro di una volta, quelli che si riempivano di braci.

Dopo poco, sempre seguendo il segnavia con le due palle rosse e il cerchio del medesimo colore, raggiungo le prime case della frazione di S. Rocco. L’aria profuma di oleandro, non si ha per nulla il sentore del mare. Davanti a un’abitazione che si fregia della targhetta in ceramica “Boni” (il cognome solletica la mia fantasia, chissà come sono i proprietari…), spostando lo sguardo verso l’alto, accanto alla grondaia, scorgo un inquietante nanetto che suona la cornamusa. Starà per spiccare un salto per tuffarsi giù?

Giungo a San Rocco. Dai trecento metri sul livello del mare del piazzale della chiesa ammiro il paesaggio leggermente avvolto dalla foschia: il Golfo Paradiso mi seduce fin dall’inizio, sebbene oggi il mare sia di un azzurro indeciso, fiacco e sbiadito.

Anziché procedere verso Portofino vetta e Pietre strette come da programma, mi incammino in direzione S. Nicolò lungo una strada asfaltata assai invitante perché si sviluppa in piano. Sì, lo so, così la sto prendendo un po’ alla larga per andare a S. Fruttuoso, ma che necessità c’è di correre all’abbazia? Per strofinarmi contro gli innumerevoli altri individui approdati là in battello, posso pure andare con calma. E poi quello che a me interessa di più è il panorama e le occasioni di ammirare la costa e l’affascinante paesaggio marittimo qui sono innumerevoli.

A un tratto comincia una discesa e il sentiero viene inghiottito dal bosco. Che piacere! L’ombra elargisce un frescolino da condizionatore. Le fronde formano un tetto sottile attraverso cui filtra la luce di un sole ancora incerto. Quando arrivo al piazzale della chiesa di S. Nicolò lo taglio in diagonale e mi affaccio a un poggio panoramico a picco sul mare. Una magnolia copre parzialmente la visuale della ghirlanda di facciate dei palazzoni di Camogli, dipinte sulla gamma del giallo, ocra, rosa, rosso, accalcate l’una contro l’altra a formare uno straordinario murale dai colori pastello con le montagne a fare da corona sul retro. Il sole illumina la parte bassa delle case e irradia di luce la spiaggia.

Seduta sul muretto del belvedere di fronte al sagrato della chiesa, prima di tutto scruto la corteccia di un albero incisa con i nomi di due innamorati (spagnoli suppongo, dato che lei si chiama Rocío), quindi mi decido ad entrare nella chiesetta di S. Nicolò. Due file di sedie impagliate si dispongono a destra e a sinistra della navata unica di cui è composto l’interno, piuttosto spoglio. L’abside di pietre grigie impedisce allo sguardo di spingersi oltre il minuscolo altar maggiore. Esco. Subito oltre il tempio sacro vedo che quello che un tempo era il monastero è diventato una casa e ci sono pantaloni, jeans, magliette, canottiere e calzini stesi ad asciugare.

Proseguo a passi misurati, scattando altre foto in direzione di Camogli. Scendo ancora una lunga fuga di gradini e giungo al centro abitato di Porto Pidocchio. Un cancello chiuso mi vieta l’accesso alla terrazza di un bar con tavolini, sedie e un pergolato. Più sotto alcune barche riposano arenate su un lastrone di cemento che funge da scivolo.

Al ristorante Spadin alcune persone si affaccendano per sistemare delle tovaglie blu sui tavolini di legno che si affacciano sul mare, riparati da un tendone.

Un disordine di reti e imbarcazioni sulla sinistra mi fa intuire di essere arrivata al porto eccezionalmente piccolo, “pidocchio” appunto; un borgo marinaro parassita, insomma, dove però qualcuno con grande senso civico ha scritto un motto: “pulizia e civiltà”.

Da qui comincio a camminare lungo un ripido percorso a gradoni parzialmente scavato nella roccia.

Anche se devo faticare per arrampicarmi divoro gli scalini a tre per volta finché scorgo sulla destra, oltre il bivio a sinistra per il ristorante e resort esclusivo Stella Maris – con prezzi da capogiro- lo sperone di roccia di Punta Chiappa.

Per prima cosa mi viene incontro il mosaico moderno realizzato in un’edicola votiva che rappresenta una scena di pericolo: la Madonna col bambino interviene per soccorrere i due occupanti di un’imbarcazione in difficoltà che stanno per essere ingoiati dalle onde di un mare in tempesta e chiedono alla Vergine di avere salva la vita. Quest’edicola sacra è una testimonianza dell’importanza che la religione aveva un tempo nella vita quotidiana delle persone che abitavano qui. Poco più avanti scorgo un animale, un gattino bianco e nero che se ne sta sdraiato al sole come una diva; da ultimo, proprio sul braccio di roccia che adesso si assottiglia e digrada rapidamente fino al bordo dell’acqua mi appare un casottino dove c’è un tizio inginocchiato che mescola qualcosa in un pentolino collocato sopra un fornello da campo. Sto ad osservarlo finché non si gira domandandosi, immagino, che diamine ho da stare lì impalata a guardare. Comunichiamo in inglese. E’ un ragazzo sulla ventina, capelli cortissimi.

– “Non hai dormito allo Stella Maris, vero, ma qui al frescolino?”

Ma farsi i cavoli propri no?

E’ gentile e mi risponde. Non solo stanotte ha dormito all’addiaccio come un vagabondo, ma siccome le zanzare non mollavano e non aveva né citronella, né Autan per difendersi, propone di ribattezzare il luogo “punta zanzara”. Adam, questo è il nome del giovanotto inglese, è qui solo di passaggio: sta facendo un viaggio a piedi Regno Unito-Gerusalemme (ma sì, in fondo la Palestina è dietro l’angolo…). Dice che non conta di arrivarci prima dell’anno prossimo e che al ritorno ha intenzione di scrivere un libro sull’esperienza vissuta. Un’associazione di idee che mi viene spontanea è con le parole della canzone di Ligabue La valigia: “Hai fatto tutta questa strada per arrivare fin qui e ti è toccato partire bambino”. Be’ Adam non è partito quand’era in fasce, ma lo scorso mese di marzo. Il punto in cui ha trovato più difficoltà e in cui ha pensato di non farcela è stato quando ha attraversato le Alpi e si è ritrovato dapprima con la neve che gli scricchiolava sotto i piedi poi immerso nel suo manto uniforme fino al petto.

Alla fine -mentre gli si sta attaccando il cibo nel pentolino- mi chiede dove sono diretta e se voglio fare un po’ di strada con lui.

Accetto di buon grado la proposta anche se poi le nostre strade, necessariamente, si separeranno a San Rocco perché io ho intenzione di raggiungere S. Fruttuoso passando comodamente per l’agevole sentiero “pietre strette” e lui, invece, più spericolato, vuole seguire i segnavia dei due cerchi pieni rossi che portano a un budello a picco tra mare e rocce, impervio, impegnativo ed esposto che si spinge fino a Passo del Bacio (dove due amanti si sarebbero tolti la vita… magari quelli che hanno inciso i loro nomi sulla corteccia?).

Lungo il tragitto comprendo che Adam è una sorta di “low impact man”. Dimostra col suo esempio che è possibile inquinare poco, spostarsi in maniera sostenibile, incontrare persone che come lui ci tengono alla salvaguardia della natura e dell’ambiente, e infine mi fa capire che non è raggiungere una meta in particolare ciò che conta, ma mettersi in cammino.

– “Come nella poesia di Machado? Caminante no hay camino el camino se hace al andar?”

Gli faccio notare io alitandomi sulle unghie e sfoggiando una citazione colta (che qualunque spagnolo conosce perché sono le parole riciclate dal famoso cantante catalano Serrat in una sua canzone).

Ecco, in effetti questa è la filosofia dell’associazione di cui fa parte: No destination.

Infine, al termine di un sentiero ripido attraverso un bosco di lecci sbuchiamo a destra della chiesa di prima, dove prendo congedo dal mio temporaneo compagno di trekking e mi lascio alle spalle le ultime tracce dell’agglomerato di case di S. Rocco. Poi mi affido ancora alle mie gambe –anche se a questo punto i piedi sono una tumefazione pulsante- per raggiungere la località Gaixella, dove il sentiero diventa una carrareccia percorribile anche in mountain bike e leggo un’indicazione curiosa per il Paradiso: segnavia una palla e un rettangolino vermiglio, tempo di percorrenza non pervenuto. Cosa vorrà dire, che ci sono già in Paradiso?

Mi sa che è proprio così, infatti, raggiante di gioia, mi prefiguro decine, centinaia di passeggiate, di futuri incanti come questo.

Dopo tanto movimento, in località Pietre Strette, mi viene fame e mentre assaporo un’insalata di tonno sbucano inaspettatamente due ragazzi per farmi un’intervista lampo con tanto di questionario sul Parco del Monte di Portofino, proprio lì, sul cucuzzolo.

Grazie al “doping” a base di cibi inscatolati che migliora il mio rendimento fisico posso affrontare la discesa che costeggiando un ruscello -che d’estate è ridotto a un esiguo rigagnolo- mi porta finalmente a scorgere la cinquecentesca Torre Doria, che sorveglia la baia di S. Fruttuoso: era una postazione di vedetta e serviva a segnalare l’approssimarsi dei pirati saraceni, sempre intenti a fare scorrerie. Per entrare alla torre ci vuole il biglietto, ma preferisco contemplare prima il paesaggio.

Avvicinandomi ulteriormente vedo la bella cupola del campanile di S. Fruttuoso fatta a scaglie di pesce e scendendo ancora, oltre all’insenatura punteggiata da ombrelloni blu, ammiro la facciata principale dell’abbazia, sulla quale si apre un loggiato a due ordini di trifore. Ormai a ridosso della chiesa mi accorgo che da una delle finestre, con una piccola carrucola, viene calato un cesto, pieno di non so cosa. Mi lascia pure di sasso la presenza dei tavoli di un ristorante sotto le arcate su cui poggia la struttura di S. Fruttuoso. Raccolgo lo zaino che avevo momentaneamente appoggiato sulla ghiaia della spiaggia e mentre mi raddrizzo vedo Adam. Ce l’ha fatta anche lui ad arrivare. Ci risalutiamo e lui mi fa:

– Da dove arrivi?

Gli rispondo: -Da su, dal Paradiso.

Mi offre un pezzetto di cioccolata squagliata per il caldo. Dopo aver notato che il noleggio di ombrelloni e lettini a sdraio ha prezzi quasi proibitivi lascio Adam a fare un bagno e vado a gironzolare nel cortile interno di S. Fruttuoso dove osservo le bancherelle che cercano di rifilare la loro paccottiglia.

Una volta pagato l’ingresso di 5 euro al FAI (che si occupa della tutela del monumento dal 1983, anno in cui l’ha ricevuto in donazione dai principi Doria Pamphili) mi metto a girovagare per gli interni, piuttosto disadorni. Dal livello inferiore del chiostro scendo le scale che mi portano fino al profondo vano a volta dove sono conservate le spoglie di sette membri della famiglia Doria vissuti nel medioevo, in tombe “tigrate” (lo dico per via della bicromia che le caratterizza: sono a strisce bianche e grigie). Quindi mi vedo un video sui restauri finanziati dal gruppo San Paolo e poi prendo a zigzagare fra le teche del museo che, in uno stanzone spoglio, di epoca romanica, con travi di legno raccolgono documenti della storia dell’abbazia.

Adesso un tuffo in mare è di rigore. Appallottolo la camicia a scacchi e i pantaloni lunghi rossi e li ficco dentro lo zaino. Fasciata dal costume da bagno intero color marrone e con gli scarponi da trekking ancora ai piedi mi avvicino all’acqua. Tolgo anche le zavorre e finalmente mi immergo del tutto lasciandomi cullare dalle onde. Nell’acqua si sta da Dio, però non posso non accorgermi che c’è un’invasione di americani: sono attorniata da tre, quattro ragazzi con l’acqua che gli arriva alle anche che bevono da una bottiglia di birra, difatti mi arriva qualche zaffata di alito “birroso”, ci manca solo che mollino un sonante rutto. A questo punto, grondante di acqua salata esco ritemprata e assaporo gli ineffabili profumi che il vento mi porta.

Mi dirigo al porticciolo e sono fra i ritardatari da pungolare affinché la motonave possa salpare. Il battello si stacca dalla riva, parte a razzo tracciando sull’acqua un’elegante parabola e io posso vedere allontanarsi San Fruttuoso acquattata tra gli ulivi e alcuni pini, la torre Doria e gli altri pochi edifici che fronteggiano lo specchio blu smeraldo del mare sul quale friggono scintille di luce. Fa ancora caldo, ma con quella giusta brezza che non ti costringe a sudare.

Per le cinque e mezzo sono di nuovo alla stazione di villeggiatura dove ho pernottato ieri sera, che mi accoglie con la suggestiva policromia delle facciate colorate del centro storico.

Adesso non mi resta che affidare la bottiglia virtuale in cui ho infilato il mio racconto di viaggio ai mari di Internet e attendere che qualcuno la ritorvi.

Come arrivare: Camogli si trova a circa 20 Km da Genova ed è raggiungibile in treno con Trenitalia.

Dove pernottare: B&B Margherita, via P. Risso, 31 16032 – Camogli Cell. 373 5181376 Cell. 393 5970254

Cosa vedere: Abbazia di San Fruttuoso: da giugno a metà settembre aperta tutti i giorni ore 10.00 -17.45. Tel. 0185-772703. Il complesso ha origini medievali, ma fu rimaneggiato in epoca rinascimentale per volere di Andrea Doria, che fece costruire anche la torre. Il declino cominciò dopo l’abbandono dell’abbazia da parte dei monaci benedettini. A peggiorare lo stato di degrado fu una disastrosa alluvione che danneggiò le costruzioni all’inizio del ventesimo secolo. In epoca fascista si diede inizio ai lavori di restauro, che furono completati pochi decenni fa, dopo che la famiglia Doria donò il complesso al Fondo Ambientale Italiano.

Condizioni del percorso: il tracciato si sviluppa su comode mulattiere e sentieri ben segnalati.

Da fare in più: da San Fruttuoso un sentiero prosegue fino a Portofino passando per la frazione di Prato. Per il rientro si può prendere un bus che collega Portofino alla stazione di Santa Margherita Ligure e quindi raggiungere Camogli con un autobus di linea.

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Vicolo nella frazione di San Rocco

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Vista del Seno di S. Fruttuoso da una delle sale interne dell’abbazia

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