Lettere dalla Kampuchea
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Lettere dalla Kampuchea 1: il ritorno.
Son tornato. Una ventina di ore fa ero dall’altra parte del mondo, ora son qui che non aspetto altro che di stramazzare nel letto. Vorrei buttar giù torrenti di parole, scaricare nella Usb automaticamente un profluvio di sentimenti che montano dentro di me, che bello sarebbe collegare un filo e cliccare Invio, (chissà dove sarà la presa?) ma ho paura di farmi trascinare dalla foga, dal troppo entusiasmo, come un bimbo che arrivato da scuola vuole raccontar tutto di corsa alla mamma e tra frasi smozzicate e troppe cose da dire, non riesce ad esprimere un pensiero completo. Troppe immagini, troppe sensazioni. Bisogna lasciare scorrere il tempo, lasciare sedimentare almeno un po’ il ricordo per ricavarne delle sequenze comprensibili, che abbiano un senso, che definiscano almeno a grandi linee quello che hai visto, che hai sentito, quello che credi di aver capito. E’ sempre la solita storia. Come diceva, mi sembra, Biagi, se vai in un posto per una settimana, quando torni ci scrivi un libro, convinto di aver capito tutto, se ci stai un mese, ci scrivi un articolo, con qualche dubbio in più, se ci stai un anno, sì e no ti viene qualche frase piena di perplessità. Io in Cambogia ci sono stato due settimane, ho cercato di capire, di lasciarmi penetrare dal mondo che mi circondava, lasciandomi andare al ritmo lento della vita del posto, senza la furia autodistruttiva del turista che deve seguire un gruppo che ha i suoi ritmi obbligati, e cercherò quindi nei prossimi giorni di fare un reload completo per riversarvi tutto quello che ho sentito. Sospendo quindi ogni altro argomento temporaneamente, anche se ho notato che in questi giorni di mia assenza, benchè vi avessi lasciato nelle mani sicure del mio sostituto, le visite sono drammaticamente calate. Infedeli. Sentivate dunque così pesantemente la mia assenza? Va bene, non voglio indagare. Comunque tanto per lanciare un primo argomento di riflessione, ripeterò un classico luogo comune: niente è mai come ce lo si aspetta o per lo meno le sfumature sono sempre diverse. Infatti, diciamolo forte, non ho visto neanche una zanzara. Ma come, mi sono procurato il meglio Autan, versione speciale rinforzata, che solo a vederlo le avide bestiole fuggono, e non ho dato neanche uno spruzzo; mi sono imbottito di pillole di vitamina B che fanno puzzare a tal punto che l’insetto schifato fugge lontano e loro, neanche si degnano di presentarsi? Avevano paura che le mangiassi? E meno male che non ho preso il Lariam, anche se qualche gufo mi mostrava la cartina affogata nel peggio delle zone malariche. E non ho visto neanche una mina, solo i cartelli che dicevano che quel pezzettino di terra era stato sminato l’anno scorso o due anni fa. Però ho visto un sacco di gente senza gambe o senza braccia. Incidenti sul lavoro?
Lettere dalla Kampuchea 2: Invece di giocare a bocce.
Stamane mi sembra di avere le sinapsi un po’ meglio collegate tra di loro, quindi tentiamo di dare un senso a questo viaggio che potremmo definire come una presa di conoscenza di una realtà che desideravo toccare con mano, in un’ area del mondo che mi interessa particolarmente e di cui avevo solo sentito dire. Intanto precisiamo che tutto è nato per casualità. Un amico, voi direte il solito pensionato che non ha niente da fare e che invece il da fare se lo va a cercare, impiega una parte del suo tempo cercando di dare una mano a chi ha bisogno e così mette a disposizione le sue conoscenze professionali per aiutare la Cambogia in uno dei suoi problemi più critici, quello dell’acqua. Ha già collaborato alla costruzione di due acquedotti e alla fornitura di innumerevoli pozzi che consentono a famiglie che disponevano solo del liquame fangoso dei fiumi e delle paludi attorno a casa, oltre a quella che cadeva dal cielo, di poter avere a disposizione dell’acqua dignitosamente pura che, da controlli effettuati, ha ridotto considerevolmente i problemi delle infezioni gastrointestinali ad alcune decine di migliaia di persone. Non mi sembra una cosa da poco, invece, magari di andare a giocare a bocce. Però questo tipo di persone non amano neanche parlarne troppo di queste cose e quasi con ritrosia, ti raccontano, sollecitate, dei risultati ottenuti e dei progetti futuri, che con tanta fatica cercano di mandare avanti; son fatti così, le cose le fanno invece di raccontarle. Così quando mi ha detto che per la tredicesima volta in otto anni tornava laggiù per delle verifiche all’ultimo progetto e per istruire gli addetti ai controlli sulla qualità delle acque, ho approfittato per accompagnarlo, come turista al seguito, con una certa invidia per chi le cose le sa fare, da parte di chi, come me invece, ha campato solo raccontando chiacchiere. Il gioco delle parti si è nuovamente riproposto. Lui è andato a lavorare, mentre io, come al solito, me ne sono andato a zonzo per il paese, senza la pressione di un giro organizzato a date fisse, col desiderio di esplorare per capire, cosa che è sempre al centro del mio interesse. Viaggiare in questo modo è sempre gradevole perchè ti permette di cogliere, da un piano per così dire paritario, gli aspetti anche meno appariscenti di un paese, quelli che traspaiono solo se ti siedi sul pullman insieme ai monaci che vanno ad una festa o se vai a comprarti la frutta al mercatino dietro la guesthouse, stando seduto al mattino al tavolo di un localino a mangiarti una scodella di noodles mentre la vita ti scorre attorno, i bambini in divisa vano a scuola, i motorini carichi di polli e maiali, vanno al mercato, la città si mette in moto a poco a poco. Il problema di aprile è il caldo opprimente, avremo modo di parlarne nei prossimi giorni. Il sole a piombo ti soffoca con l’umidità che appiccica la pelle ai vestiti, ti secca la gola e ti toglie le forze, quando cammini a fatica, cercando riparo nelle ombre corte del tropico. La polvere della stagione secca, gli odori forti che la temperatura accentua ti vogliono dare un senso di disagio, che però tende a diminuire se tenti di assimilare e di sintonizzarti col ritmo della vita locale. Muoversi come loro, adagio, cercando di scacciare il senso di fastidio per un clima che è quello che è, a cui bisogna lasciarsi andare. Allora pian piano, ci si adatta e si viene assimilati dal sud-est asiatico; anche mentalmente ci si dispone meglio ad accettare quello che ti circonda, trovandolo naturale. Ecco perchè la gente, ti appare tutto sommato serena, indipendentemente dalle condizioni in cui vive. Phnom Penh è chiaramente una capitale periferica, bloccata per decenni dalle cose di cui parleremo e che da poco si dibatte per seguire la strada percorsa dai suoi vicini, con tutti i problemi che questo sviluppo porta, assieme naturalmente alla parte positiva. Così sei circondato da un allegro caos privo di riferimenti, in un traffico a cui devi abituare i comportamenti, altrimenti non riuscirai mai ad attraversare la strada, nella folla tranquilla che ti circonda e da cui ti devi fare assimilare se non vuoi trovarti a disagio. Così è cominciato il primo giorno di un viaggio per caso, che neanche la cenere del vulcano è riuscito a impedire.
Lettere dalla Kampuchea 3: Spettri e sorrisi.
Le strade di Phnom Penh , polverose e gremite di motorini, biciclette e tuk tuk, sono un forno caldo già la mattina presto. Però sono tutti in movimento vorticoso e tu vieni trascinato via facilmente da questo flusso ininterrotto di uomini e mezzi. Scendo dall’albergo, in una stretta via laterale e subito mi vengono incontro i conducenti di tuk tuk in attesa del primo cliente, che stazionano fissi, giocando a carte per ingannare l’attesa. Ma non c’è la fastidiosa aggressività per accaparrarsi il passeggero delle vie di Bangkok, tutto avviene in maniera più rilassata, anzi nei giorni successivi, ci si comincia a conoscere, evidentemente le postazioni sono fisse, e ci si scambia un saluto allegro anche se poi te ne vai via a piedi. Se no, una breve contrattazione e poi salti sul carrettino, il motorino trainatore si mette in moto e faticosamente ci si butta nel traffico. Il primo giorno ovviamente lo dedico a Palazzo Reale e alla pagoda d’argento con i suoi splendidi giardini. Sempre a passo lento, inseguito dal sole a picco. I turisti sono pochi; come suggeriscono le guide, aprile è un mese da evitare, così ci si può concentrare sulla massa dei Cambogiani che rappresentano la quasi totalità della gente che si incontra. Una popolazione giovane e giovanissima, a prescindere dalle condizioni, dall’aria allegra e serena. Difficilmente, rivolgendoti o semplicemente guardando qualcuno non ricevi un sorriso di risposta. Eppure al di là del fatto che questo è un paese poverissimo, dove le condizioni sanitarie sono difficili, la storia recente della Cambogia, è un tale concentrato di orrori e di fatti inaccettabili, da rendere incredibile questo atteggiamento. Certo le poche persone anziane che si incontrano sorridono meno. Loro forse hanno difficoltà a cancellare o a rimuovere le immagini della loro vita, le indelebili istantanee che ognuno di loro ha di certo vissuto in prima persona. E’ difficile anche capire come, in un paese privo di risorse strategiche e in una posizione geopolitica tutto sommato ininfluente, si siano potute scatenare la furia e la violenza della disumanità più feroci del secolo scorso. Invece, benché formalmente neutrale durante la guerra del Vietnam, fu corridoio di passaggio er i Vietkong, cosa che diede motivo agli Stati Uniti di rovesciare sull’est del paese migliaia di tonnellate di bombe e di napalm, ma in modo “non ufficiale”. Morirono circa mezzo milione di persone che avevano la disgrazia di stare da quelle parti, gli altri rinforzarono le file dei Khmer Rouges che cominciavano la guerra civile. Così finito il Vietnam e filati via gli americani, gli Khmer Rouges presero il potere e comincia uno dei più spaventosi genocidi della storia. In pochi giorni viene abolita la moneta e la proprietà, le città vengono chiuse e la popola zione in parte uccisa e deportata nelle campagne a coltivare la terra di un paese ormai alla fame. Il maoismo più teorico viene applicato alla lettera nel tentativo di creare l’uomo nuovo, senza legami col passato, che deve essere totalmente cancellato, i bambini tolti alle famiglie ed allevati in comune, tutti in un lavoro agricolo di quasi schiavitù, nutriti con un brodo di riso due volte al giorno e null’altro. Qualunque sospetto di intellettualismo o di legame col passato, ad esempio portare gli occhiali, significava essere ucciso. Torture e violenze di ogni genere venivano comunemente perpetrate secondo la regola che era meglio uccidere dieci innocenti che rischiare di lasciare libero un possibile controrivoluzionario. Dopo tre anni, dieci mesi e venti giorni (tutti ricordano come un mantra questo numero) e circa tre milioni di morti arrivano i Vietnamiti che fanno fuori gli Khmer Rouges e il paese allo stremo, si avvia ad una difficile pacificazione, in una situazione di carestia totale che provocò un nuovo consistente numero di vittime. Dopo il ritiro dei Vietnamiti ricominciano le lotte che conducono nella metà degli anni novanta ad una ulteriore guerra civile in cui quattro diverse fazioni si combattono ferocemente, oltre a disseminare il paese di mine, in gran parte fornite da noi e dai cinesi, con un ulteriore tributo di vite umane. Finalmente questo fiume di sangue soffocò, annegandoli, gli odi incrociati e gli spiriti del male sembra abbiano finalmente lasciato in pace questo paese da una dozzina d’anni, ma i segni sono difficili da cancellare, le ferite dure da rimarginare. Nel paese c’è tanta voglia di dimenticare, di voltare pagina, per lo meno negli occhi di chi ed è ormai la maggioranza, quelle cose non le ha viste direttamente. E’ la forza rigeneratrice dei paesi giovani, che vogliono solo andare avanti. Ma quando arrivi in qualcuno dei tanti luoghi della memoria, per ripassare quello che in fondo già sai, vieni aggedito da un’onda di tale devastante ferocia, da rimanere senza fiato, senza capacità di dare una spiegazione logica a quanto passa davanti ai tuoi occhi. Così intorno alla scuola Tuol Sleng, diventato il carcere S-21, con 17.000 persone, rinchiuse, fotografate metodicamente prima e dopo la tortura e quindi uccise nei modi più barbari, gli affitti sono insolitamente bassi. Pochi vogliono vivere lì attorno, temono che gli spiriti di quei morti non li lascino in pace, perchè di notte, quando tira forte il vento da sud, si sentono le loro grida affievolite, in sintonia con la regola numero 6 del manuale del prigioniero, secondo la quale durante la bastonatura e gli elettroshok, non si poteva gridare forte, ma era concesso di emettere lamenti a bassa voce. E anche il monsone, per quanto forte e violento non riesce a lavar via tutto quel sangue. L’interno della scuola ti afferra duro alla gola, con la sua serie di foto orribili, gli ambienti, gli strumenti di tortura, le celle di un metro per tre, le catene, gli slogan appesi. La stessa situazione di degrado in cui vive il museo stesso, con i suoi ambienti scrostati e sporchi, le foto ingiallite, strappate e cadute o malamente penzolanti dai muri, l’immondizia abbandonata negli angoli, contribuiscono ad aumentare l’angoscia spaventosa che ti accompagna nella visita, nel seguire il percorso di tanta gente che poi andava a terminare la propria esistenza nelle fosse comune dei killing fields, con le loro montagne di crani e di ossa, con l’albero dei bambini, dove, presi per i piedi, venivano sbattuti contro il tronco per non sprecare pallottole, la cui corteccia non riesce più a rimarginarsi. Esci annichilito, con un groppo alla gola e hai difficoltà a trattare il trasporto con il conducente di tuk tuk che ti aspetta allegro al di là dell’ingresso, mentre ti offre una coke presa dalla ghiacciaia di plastica rossa. Ti sorridono tutti. Soltanto le rare persone che vedi oltre i 50/60 anni, sorridono poco, anzi in generale non sorridono affatto, sembra quasi che abbiano una sorta di piega amara sulla bocca. Qualcuno ti parla in francese. E allora anche tu rimetti in moto il cervello annichilito ed assente e cominci a chiederti, ma costui come mai è ancora vivo, quale è la sua storia, da che parte stava allora, ma capisci che in questo modo non c’è futuro accettabile e sei contento che tutti quegli altri occhi giovani che ti guardano, abbiano imparato a sorridere.
Lettera dalla Kampuchea 4: Diamo i numeri.
Direi che oggi dobbiamo buttarci nel mercato (psar in cambogiano) , intanto perchè come sempre è uno dei posti più interessanti per vedere la vita di un paese e poi per l’innegabile divertimento che procura la scelta e la gioia di scoprire qualcosa di irrinunciabilmente inutile da portarsi a casa. In realtà tutti sappiamo che la parte più divertente sarà rappresentata dalla fase di contrattazione, che aumenta il piacere del contatto e della conoscenza maggiore della gente con cui veniamo in relazione. Questo sarà di spunto al tema di oggi. A Phnom Penh sono due i mercati principali, quello cosiddetto russo, più dedicato al flusso turistico e lo Psar Thmei, enorme e appena rifatto. Qui, dopo aver goduto del colore dei banchi alimentari, frutta e verdura e carni e pesce, con l’ indispensabile orgia fotografica, ci si butta nella zona vestiti e poi gioielli e souvenir vari, dove poter appagare la pruriginosità di cui sopra detto. Tutto ciò mi da il destro per passare ad un argomento che mi intriga sempre, la conoscenza se pur minima di qualche parola della lingua del posto in cui siamo. In particolare ho sempre trovato utile avere a mente almeno i numeri, cosa inportantissima nella trattativa spicciola al mercato, che permette, più che di farsi capire, di fare simpatia ed arrivare più facilmente ad un accordo. La lingua Khmer è molto interessante sotto questo punto di vista. Infatti la base delle numerazioni non è così univoca e comune, come si potrebbe pensare. Tutti sanno del sistema binario costituito da due sole cifre (0 e 1) che unitamente a quello esagesimale (in base 16) ci consente l’uso del computer, anche a nostra insaputa, ma siamo talmente abituati a ragionare in base decimale da dimenticare che alcune lingue (come quelle della mesoamerica precolombiana) ragionavano in base 20. Qualche rimasuglio di basi strane, ma evidentemente un tempo usate, è rimasto pure nelle nostre lingue , come il ragionare a paia o a dozzine (in base 12) per uova e capi di vestiario, col multiplo della grossa, pari a 12 dozzine, ma chi se la ricorda più. In russo c’era una unità di misura in base 40 per contare il numero delle pelli e nel russo moderno è rimasto solo sorak (40 appunto nella sequenza delle decine). Bene, la lingua khmer forma i numeri in base 5, cosa che ha contagiato, anche se in misura minore, lingue da essa influenzate come il Thai ed il Cantonese. Quindi semplicemente si conta fino a 5 e poi per dire 6, si fa 5 e 1 e così via. Nella scrittura invece si hanno segni in modo decimale, zero incluso (come vedete nella tabella tratta da wikipedia a cui rimando chi volesse approfondire) di derivazione sanscrita. E’ interessante notare che esistono delle parole specifiche per indicare numeri come 40, 80, 400, e così via, usate in particolare per il conteggio della frutta, tali da far ritenere che che il Cambogiano antico, Angkoriano e pre-Angkoriano utilizzasse, come gli atztechi la base 20. Occasionalmente venivano usati anche notazioni numeriche tratte dal Sanscrito e dal Pali (come per il 12, il 13, il 28 , il 30 e così via) , ma queste, ad eccezione dello 0 e de 100 per cui in khmer non ci sono equivalenti, sono state epurate dal movimento nazionalista, negli anni 60, che tendeva ad escludere parole di derivazione straniera, cosa accentuata nel periodo degli Khmer rouges, che le bandirono definitivamente e vi assicuro che nessuno ha pensato di opporsi, visto l’aria che tirava. Comunque, datemi retta, imparate almeno la sequenza:
1 – Muoy 2 – Pii 3 – Bei 4 – Buan 5 – Bram 6 – Bram Muoy 7 – Bram Pii 8 – Bram Bei e così via Vi divertirete un sacco, ma soprattutto farete ridere a crepapelle le bancarellare ed i conducenti di tuk tuk con cui tratterete il ritorno in albergo carichi come muli di inutili pacchetti e pacchettini.
Lettere dalla Kampuchea 5: La camicia di seta.
E’ arrivata l’ora di lasciare Phnom Penh. Abbiamo in mano i biglietti di un bus della Capitol e in un tuk tuk carico di valige e sacchi fendiamo il flusso di motorini, facendo segno con la mano di svolta a sinistra, tanto per aiutare l’autista, per raggiungere la stazione, in realtà un negozio all’angolo di un mercatino, gremito di aspiranti viaggiatori. Il pulmann per Kampong Thom è in orario, ma servirà il nastro isolante per bloccare la bocchetta di aria condizionata che mi spara a palla sul collo, per il resto saranno tre ore tranquille. Ma che ci andiamo a fare a Kampong Thom? Il fatto è che il mio amico è stato invitato ad un matrimonio importante, nella provincia dove ha messo su l’acquedotto e io mi sono aggregato, imbucato ufficioso, ma con regolare invito nominativo. Però mica si può far la figura del cioccolataio, così per mettermi al pari del mio amico già attrezzato, avevo via mail ordinato una apposita camicia/giacca cambogiana da cerimonia. E’ vero che le decine di misure richieste, le ho dovute reinviare due o tre volte riconfermandole, specialmente quelle del giro pancia (che non credessero ai loro occhi?); fatto sta che appena arrivato, la sarta appositamente convocata per la bisogna mi attendeva per la prova definitiva che ha necessitato solo di alcuni piccoli ritocchi nei punti dove “faceva difetto”. Si sa che noi falsi magri siamo difficili da vestire, ma stamattina il capo splendido di pesantissima seta bordeaux con fodera nera, che mi è stato consegnato, calzava a pennello, pronto per la cerimonia che, vi anticipo, durerà due giorni e di cui parleremo domani. Sono proprio contento, però un cruccio mi è rimasto. Con questa storia, camicia, stoffa, sarta, misure e compagnia bella, ho fatto perdere un sacco di tempo ad una persona molto speciale, di cui vi voglio parlare adesso e che di tempo da perdere ne ha proprio poco. Quando si gira per il mondo, si incontrano molte persone speciali e questa si chiama Elisa, ma tutti la chiamano Lieke ed è una ragazza belga che dedica la sua vita a dare una mano agli altri e non è una cosa da poco. Dalle Filippine alla Cambogia, nei momenti più neri e più difficili, sempre ad organizzare e a cercare di far partire progetti per gente senza speranza, in situazioni che sembrano senza speranza, ma che, anche con il suo aiuto, oltre a quello di tante altre persone di buona volontà, alla fine, un po’ di speranza riescono ad intravederla. Fame, malattie, mine, acqua fetida sono i piccoli problemi da affrontare ogni giorno ed io le ho aggiunto anche il mio problema, quello della camicia cambogiana da cerimonia. Sì, un po’ mi vergogno, ma che piacere stare con questa ragazza, sempre di corsa ed indaffarata, che sembra fare ogni cosa con gioia, anche se i problemi sono tanti. E poi non basta mica voler fare le cose, voler aiutare la gente. Non basta farsi ore di camionetta per andare a vedere se i pozzi funzionano, traversare kilometri di risaie per controllare, verificare, seguire i corsi alle donne sull’uso dell’acqua potabile e delle regole fondamentali dell’igiene. Bisogna sapersi anche muovere nei posti giusti, negli uffici adatti, sapere le strade della burocrazia, conoscere le persone che ti possono aiutare a dare le autorizzazioni, convincere, trattare. Adesso vanno di moda gli abusi sui minori, c’è meno attenzione al problema dell’acqua pulita. Dunque parlare, convincere, ancora prima di cominciare a fare. E’ per questo dunque che voglio ringraziarla di cuore, questa ragazza dall’allegria contagiosa, per avermi accolto come un amico e per il suo tempo prezioso che mi ha dedicato ed è per questo che voglio farle i miei migliori auguri, sono certo anche da parte di tutti voi che mi seguite, perchè tra pochi giorni Lieke compie 76 anni e con tutto il da fare che c’è, non so se li potrà festeggiare come si conviene.
Lettere dalla Kampuchea 6: Scene da un matrimonio.
Aprile, l’apice della stagione secca in cui non si svolgono lavori agricoli è, per tradizione il mese dei matrimoni in Cambogia. Il nostro sarà proprio un gran bel matrimonio. La strada davanti alla casa dello sposo è stata quasi completamente sbarrata con la costruzione di una enorme tenda arancione dove sono disposti decine di tavoli; nei giardini pubblici di fronte il “catering” ha disposto grandi pentoloni da cui verrà in continuazione fornito cibo agli invitati che arrivano. Al mattino del primo giorno sono già arrivati i monaci per la parte religiosa della cerimonia. Noi, bardati a puntino con le nostre camicie cambogiane di ordinanza, facciamo la nostra figura, prendendo posto in un tavolo di prima fila, da dove si possono seguire i vari momenti della festa con tutta calma. Mentre ci vengono serviti maiale, pesce fritto e una zuppetta di pesce (sempre tre portate per volta), gli sposi, in tradizionali vestiti cambogiani color bronzo, vengono benedetti dai monaci e fanno offerte e altri atti di devozione ai componenti anziani della famiglia. L’orchestra tradizionale suona musica sulla sfondo e tutti i movimenti sono svolti con una grande staticità. Per almeno due ore gli attori del dramma, inginocchiati e quasi immobili fanno soltanto lievi inchini o piccoli movimenti delle mani. La temperatura intanto sta salendo a livelli insopportabili; sotto il tendone la cappa plumbea intorpidisce corpi e movimenti mentre il sudore scorre copioso. Gli invitati fraternizzano e anche noi siamo oggetto di cortesi attenzioni. Si siede con noi un parente importante che ha studiato in Mongolia. Oltre alla lunghissima unghia del mignolo che caratterizza gli uomini più agiati, esibisce un anello di rubini e brillanti che non passa inosservato. Un gruppo di anziane donne si affastella nello stanzone della cerimonia per vedere da vicino gli sposi. Tutte portano ricercate e di certo preziose camicie ricamatissime e ricoperte di pietre dure. Intanto la cerimonia prosegue, gli sposi si sono cambiati d’abito, questo è color oro vivo. Ne cambieranno cinque o sei nei due giorni di festa, sempre coordinati, come anche i tre compari dello sposo e le tre damigelle della sposa. Anche i gioielli sono diversi e in tono con gli abiti. Una parrucchiera è arrivata appositamente dalla capitale e tutte le signore ospiti ne possono approfittare. Le ragazze sono in gran spolvero e bisogna dire che, se nella normale vita di ogni giorno, non sono molto appariscenti, in queste occasioni, truccatissime, in vestiti sontuosi e con pettinature strutturate e ripiene di fiori, appaiono veramente bellissime. Intanto i monaci con le bisacce colme di opfferte se ne sono già andati. In un momento di tregua, lo staf dei fotocineoperatori, stende fondali e provvede alle foto di rito, sempre ufficialissime, con lunghe pose e attento controllo delle pieghe dei vestiti. Siamo ormai nel pomeriggio e mentre degustiamo il cosiddetto pesce formaggio (dal suo caratteristico odore), anatra arrosto e zuppa di verdure, parte il momento del taglio dei capelli agli sposi. Ecco che mentre i poverini sempre immobili (la sposa ha la testa leggermente piegata di lato con un sorriso immutabile da ore, pare una bambola di porcellana) rimangono seduti davanti alle offerte rituali, i parenti e gli amici più importanti fingono di aggiustare loro i capelli, bagnarli con profumi e renderli ancora più belli. Mentre il caldo arriva ad un livello insopportabile, giunge inatteso uno scroscio di pioggia talmente violento da abbattere in pochi minuti il tendone; torrenti d’acqua bagnano tutto il bagnabile, mentre la strada si allaga immediatamente. Nessuno fa una piega, tutto viene tolto e dopo una mezzoretta, rimontato al suo posto. E’ tutto un andirivieni di ospiti, che vengono e vanno, sono via via accolti, salutati, nutriti e omaggiati, mentre le operazioni per i poveri sposi proseguono imperterrite. Arrivano un gruppo di ragazze ad eseguire danze tradizionali, come le Apsaras dei bassorilievi dei templi. Il maestro di cerimonie scandisce i tempi e detta lo svolgersi dei vari momenti. Finalmente a sera riguadagnamo la guest house, mentre in un attimo gruppi di bambini e mendicanti ripuliscono i tavoli di ogni cosa selezionando lattine, bottiglie di plastica per un riciclo immediato. Alle sei di mattina del giorno dopo, ci aspettano per la processione. Siamo qualche centinaio di persone che partendo dal tempio, ognuno fornito di apposito vassoio con una offerta simbolica, chi una testa di maiale, chi un pollo, chi due scatole di pelati, chi frutta o altro, procedono al suono degli strumenti e guidati dal cerimoniere, attraversando il paese verso la casa dello sposo. Due deliziosi bimbi aprono il corteo. Quando arriviamo, deponiamo i doni in una camera (io avevo un pacchetto di biscotti che sembravano amaretti), i genitori degli sposi ci accolgono con piccoli doni tradizionali tra cui una bustina in cui ci devono essere alcune piccole banconote, simbolo di opulenza. Mentre la sposa in uno splendido vestito rosso, fa ancora foto con le bellissime amiche, ci viene servita una colazione di pesce, costine di maiale e verdure fritte. Parte intanto la cerimonia della legatura delle mani, in cui i parenti a coppie legano le mani destre degli sposi con un sottile filo colorato a simboleggiare l’unione. Potete immaginare come questo interminabile susseguirsi di momenti dalla durata infinita, mentre per gli ospiti fanno parte di una rilassante giornata in cui si mangia e si chiacchiera in totale relax, per gli sposi e i loro damigelli sia un calvario durissimo. Infatti lo sposo, tra caldo, stress e postura obbligata, si sente male. Come lo capisco, io che nella stessa occasione, con obbligazioni infinitamente più leggere, avevo dovuto ricorrere alle amorevoli attenzioni di un amico medico. La sposa invece, di ferro, come tutte le femmine, continua imperterrita a mantenere posizione e sorriso immutabile, come un bassorilievo khmer sui templi di Angkor. Intanto viene servita una saporitissima zuppa, maiale arrosto e un grande pesce alla griglia con chatney di mango ricoperto di aglio. Poi andiamo a prenderci un paio d’ore di riposo (noi), mentre gli sposi si preparano per il grande banchetto finale. Alle 17 arriviamo nel locale dove è stata approntata la parte, per così dire occidentale della cerimonia. Intanto vi faccio presente che poiché gli ospiti arrivano quando pare a loro, i genitori degli sposi e gli sposi stessi, stazionano sulla porta per alcune ore per accogliere i circa mille (1.000 in cifra) invitati. Nell’immenso salone ci si siede in ordine di arrivo e subito parte il servizio delle nove portate del banchetto, a gruppi di tre. Si apre con una zuppa leggera di germogli di soya, verdure e mandorle seguita da un tenerissimo arrosto di manzo e un anatra laccata. Quindi una delicata insalata di see food, il pesce brasato e una saporita zuppa di pesce, infine ancora carni, un riso con verdure e un dolce di sago con black eyed peas. L’orchestra, occidentale questa volta, si produce nel repertorio cambogiano neomelodico del momento. Noi siamo al tavolo con tre splendide ragazze con cui la conversazione è difficile, se pur volenterosamente tentata. L’ultimo posto vuoto viene coperto da uno strano personaggio, con regolamentare unghia lunghissima, che arriva, si siede, mangia velocemente il tutto e si allontana nella notte senza profferir parola. La segretaria di Lieke è in ritardo. Dopo un po’ si avvicina al nostro tavolo una stupenda ragazza con una bellissima acconciatura, tacchi alti e un delizioso vestito giallo coperto di bei ricami. Non la riconosciamola, invece è proprio lei, la dolcissima Narì, tappata per l’occasione che ci lascia di stucco. Poi passano gli sposi, lei in grande abito bianco a salutarci e a ringraziarci, infine tutti i classici, taglio della torta (che loro non mangiano) e lancio del bouquet alle amiche. Ce ne siamo andati a letto stanchissimi, non riuscendo a capire come abbiano potuto reggere gli sposi, che abbiamo lasciato mentre stavano ballando un lento classico. Il giorno prima avevamo chiesto allo sposo, un ragazzo straordinariamente gentile e piacevole, come mai, lui e la sua futura moglie, entrambi istruiti e moderni, avessero accettato il matrimonio combinato dalle famiglie, senza che i due sposi si conoscessero. Lui ci ha detto candidamente che i suoi genitori, di cui lui aveva completa fiducia, avevano di certo maggior esperienza di lui e che era certo che avessero scelto la sposa migliore possibile, cosa che a lui, giovane ed inesperto, sarebbe invece stata molto difficile. E noi, avvocati del diavolo:- Ma e se poi non ti piace e non ci vai d’accordo?- Ci ha risposto che tutto è possibile, ma che loro hanno più fiducia nel loro metodo, in cui in effetti non si separa quasi nessuno. -Nel vostro mondo invece, dove potete scegliere chi vi piace, divorziate quasi tutti.- Ha aggiunto con un leggero sorriso. Non saprei cosa ribattere. Spesso le abitudini degli altri ci appaiono strane o addirittura assurde, bisognerebbe avere la forza di accettare che anche quelle altrui hanno dei fondamenti, delle ragioni profonde, anche se non è detto che siano le migliori.
Lettere dalla Kampuchea 7: Mattina presto.
Nelle piccole cittadine cambogiane, la vita ha ritmi naturali. Ho orrore di questa parola e delle sue implicazioni, ma qui la uso con un significato neutro. Dopo il tramonto verso le sei, la notte cala di colpo e l’illuminazione è talmente scarsa che le attività scemano velocemete. Ormai ho preso questo giro e alle otto, otto e mezza, a nanna. Così al mattino verso le cinque tutti in piedi. Anche le guest house più basiche ti danno per colazione, una scodellata di noodles o una omelette con una corta baguette tostata, residuo culturale francese. Anche qui a Kampong Thom (a gentile richiesta inserisco una cartina per chiarire meglio le tappe del giro), l’alberghetto è su uno slargo della Highway n. 6, la principale arteria della Cambogia e su un dondolo del terrazzino ci si può godere la vita che riprende ogni giorno, vorticosa anche se sempre uguale. Dalla lontana Skyline di alte palme da cocco che inframmezzano le piccole camere delle risaie secche, il sole si è alzato da poco e la temperatura non si è ancora arroventata, anche se il soffio caldo che preannuncia un’altra giornata torrida, spira leggero come un phon lasciato sbadatamente acceso. Sotto è tutto un andirivieni di motorini con tre, quattro, cinque persone che vanno verso le varie attività. Stranamente quasi tutti i piloti portano il casco. Il motorino è il mezzo di trasporto principe da queste parti. Se non persone, vengono portate quantità esagerate di cose di ogni tipo; ecco che passa uno con un cestone di traverso con quattro maiali, non roba piccola, eh, Large white da ingrasso pronti da macellare; eccone un altro con una sporta piena di oche, ce ne saranno un centinaio; un terzo che quasi sparisce sotto centinaia di contenitori di plastica. In uno slargo si fermano due grandi camioncini, che faranno da trasporto collettivo verso qualche paesotto vicino. L’autista dormicchia sul sedile, ma ha una coorte di aiutanti che corrono qua e là a cercare clienti, strappandoseli uno all’altro, specie quando arriva un pulmann grande dalla strada nazionale. Poi quando è pieno fino all’inverosimile, uomini e merci caricati alla meglio sul cassone, con gli ultimi arrivati che si tengono come possono, penzolanti fuori dal mezzo, se ne parte, tra sobbalzi e risate, in una nuvola di polvere. Di fianco a noi c’è un grande albergo abbastanza pretenzioso, in realtà ho visto che i piatti alla nostra guesthose arrivano dalla stessa cucina, ma la Lonely lo spaccia come l’unico edificio di Kampong Thom ad avere un ascensore. Davanti arrivano due potenti fuoristrada neri, nuovi di zecca con i sedili in pelle chiara. Sulle portiere hanno il logo della FAO e i funzionari che ne scendono sono bene incravattati e portano cartelline in pelle griffate. Spariscono nella hall seguiti dai sottopancia. Credo che il costo di esercizio di queste organizzazioni sia un po’ la loro principale motivazione di esistere, una idrovora di dollari con cui si compilano statistiche, report ma, forse, pochi fatti. Eppure con poco si farebbe anche tanto. Pensate che con i proventi raccoltio con due edizioni della Stralessandria, una corsetta amatoriale di una cittadina di provincia, il mio amico e la Lieke hanno fatto oltre cento pozzi qui intorno. Più di cento gruppi di famiglie che possono bere dell’acqua pulita e che non vanno più all’altro mondo per dissenterie e parassitosi varie. Neanche il costo di uno di qui fuoristrada. Però il modo gira così, forse serve anche quello, è un sistema che si deve muovere. Comunque è ora di muoversi davvero. Prima un giro al mercato, una vera calamita per chi arriva dalla cultura dei centri commerciali. Una attrazione morbosa per queste file di banchi coperti di mosche con sotto qualche pezzo di carne e frattaglie, pesci secchi o vivi che si dibattono nelle ceste nel tentativo inutile di sfuggire alla loro sorte, altri cheti, come rassegnati, ma tutti via via afferrati, tagliati a pezzi, puliti sul posto, tra risate e dinieghi verso gli aspiranti fotografi. Poi il trionfo dalla frutta poco conosciuta, ma rigogliosa e abbondante. Le cascate di manghi maturi, banane ed ananas mignon, la serie dei frutti dall’interno gelatinoso e dolcissimo, talvolta un po’ allappante, i mangoustini, i rambutan e tutti gli altri senza nome. Ma il tempo stringe, tra poco arriva il pulmann. Sono pronto con il mio valigione, stilisticamente poco adatto, ma rotto a tutte le tempeste. Ecco che arriva sollevando nuvole di polvere che aspettano ansiose il monsone. Controllo che mi carichino la valigia e me ne vado al posto assegnato, vergato a mano sul biglietto, prenotato ieri sera dal barbiere. Tutto pare un po’ confusionario, ma in realtà tutto funziona con una certa precisione. Salgono un sacco di monaci avvolti in teli di arancioni diversi, alcuni quasi nuovi, altri più slavati, magri, silenziosi e discreti, ma tutti con regolare telefonino. Vanno anche loro a Siem Reap, la città dei templi, dove a fine settimana ci sarà una grande festa buddhista. Poi la solita umanità varia, sempre gentile e cortese con l’ingombrante straniero. Si buca una gomma a metà strada, ma è l’occasione per calare giù a sgranchirsi le gambe, osservando le operazioni. Arriviamo verso mezzogiorno. La città è ormai un forno crematorio. Abbandonato sul tuk tuk che va verso la guesthose Bunnath, godo dell’aria che la pur bassa velocità produce, asciugandomi il sudore che noi grassi produciamo come zampilli di fonti d’alta montagna. Faccio sempre più fatica, sarà il peso o l’età che incombe? Mah. Però questa è solo una tappa di passaggio, domani si va fino a Battambang. Qui ci ritornerò dopo, a godermi con calma i templi di Angkor Wat per una settimana intera. Però un primo contatto per approfittare della luce calda del tardo pomeriggio è obbligatoria. Dunque, controllato che l’aria condizionata della camera faccia il suo dovere (lo ammetto sono un turista da aria condizionata, anche se poi di notte tocca spegnerla perchè mi da fastidio quando mi soffia dritta sul letto), via con lo stesso tuk tuk (è un po’ come per gli uccelli volanti di Pandora, quando ne scegli uno è per la vita) per un primo approccio con lo splendore di Angkor Wat al tramonto, tanto dopo le 5 non si paga. Certo anche se lo hai già visto in mille salse, mentre percorri il lungo ponte sul fossato che circonda il più grande complesso monastico del mondo, quella luce ambrata che avvolge di arancio tenue le guglie lontane, il lungo serpente di arenaria che segna la via, le mille colonne le cui ombre si allungano e tra le quali i pochi visitatori, data la stagione, si disperdono diventando parte del tempio stesso, quasi come veri pellegrini, vinti dalla maestosità del luogo, ti prende e ti doma, ti fa passare il caldo in secondo piano, ti costringe a non muoverti di fretta, a sederti, a tentare di diventare parte di una dimensione che ha addirittura sopito la furia distruttrice degli Khmer rouges, che lo hanno risparmiato, come tutti quelli che sono arrivati qui negli ottocento e più anni della sua storia. Che odore di pace.
Lettere dalla Kampuchea 8: La barca dei dannati.
Non fidatevi degli amici (prov. Cambogiano). L’amico in questione, ma adesso che lo so lo curo, era tornato da poco dalla Cambogia e mi aveva detto: una cosa da non perdere è il viaggio in barca da Siem Reap a Battambang. Assolutamente indimenticabile. Aveva ragione. A contribuire a renderlo tale, sarà stato senz’altro il culmine della stagione secca, mai a sufficienza segnalata come da evitare come la peste, fatto sta che alle 7 del mattino aspettavo, fedele alla consegna il mezzo che, incluso nel prezzo del biglietto mi avrebbe portato all’imbarcadero a una decina di kilometri dalla guesthouse. Chi fa questo tragitto solo per spostarsi, prende un comodo autobus che, usufruendo della nuova strada da Sisophon, ti porta a destinazione in quattro ore soltanto, ma il fascino dell’attraversamento del lago e dei villaggi galleggianti che si attraversano con la barca valgon bene qualche soldo e qualche ora in più, direste anche voi. Infatti il tragitto completo non lo fanno i locali, ma solo i turisti fricchettoni bramosi di colore locale. Eccoci quindi caricati in una quindicina, sul pulmino da nove, inclusi bagagli e chitarre. Certo, perchè i giovani saccopelisti vanno ancora in giro con le chitarre come 40 anni fa, che vi credete. Tutta gente dura, giramondo di lungo percorso, dall’occhio attento e scafati al disagio. Tutti grandi e grossi, donne comprese, purtroppo. Arrivati in vicinanza dell’imbarcadero, i due più esperti si accorgono di aver dimenticato il passaporto così si torna indietro, per fortuna anche un terzo, giovane preda di Alzhaimer, si accorge di averlo a sua volta dimenticato in prossimità dell’albergo. Il fatto che i giramondo si siano dimenticati la combinazione della cassetta provoca ulteriori ritardi, ma alfin si parte. Il battello, in realtà è una lancia strettissima, disegnata a misura di locali, per cui se devo tenere le ginocchia in bocca, non so dove mettere la pancia e così via, in cui veniamo stipati in una trentina. La lancia fila via lenta, perchè di acqua ce n’è ormai pochissima e il fiume è ormai ridotto ad un fondo di cloaca fangosa in cui farsi strada lentamente, sterzando le secche con il remo. Intorno, la vita della gente del fiume, di cui però vi parlerò un’altra volta. Scivoliamo tra le palafitte e raggiungiamo il To nle Sap, l’immenso lago, cuore della Cambogia, polmone idrico alla base della stessa vita del paese e del suo sostentamento. In questo momento il livello delle acque è al minimo, non più di un paio di metri e le baracche sulle palafitte sembrano case aliene appese ai lunghi pali di bambù. Le case barche invece, galleggiano vicine le une alle altre, con il loro brulicare di vita. Il lago è immenso, non se vede la sponda lontana e la barca finalmente prende velocità, dopo aver caricato un po’ di locali da qualche zattera di passaggio, i quali, date le dimensioni minute, non hanno difficoltà a sistemarsi accoccolati tra i giganti caucasici. Il sole brucia sulla pelle, ma dopo un paio d’ore raggiungiamo la sponda opposta e cominciamo a risalire un fiume dagli stretti meandri, tra le rive di terra rossa coperte di scarsa vegetazione. Solo l’acqua è quasi completamente ricoperta da giacinti di fiume e loti in fiore, di grande bellezza, ma che rendono ancor più faticosa la navigazione. Sulle rive ormai sempre più strette, uno dopo l’altro, si susseguono villaggi di capanne di legno o di semplici frasche su alte palafitte, che fanno intendere bene fin dove arrivino le acque quando è il momento. Le ginocchia dolenti e la quasi impossibilità di muoversi, rendono il viaggio sempre più duro. Dopo cinque ore il fiume è un rivolo melmoso e la vita che si dipana sulle sue rive lascia stupito chi ha poca dimestichezza con l’oriente. Le pozze marroni, sono piene di bambini che sguazzano, di gente che si lava o lava i propri oggetti, stoviglie, panni, cibi, tra bufali grassi e tranquilli. Qui ci finisce tutto, ogni tipo di deiezione umana ed animale assieme agli scarti ed alle immondizie (poche) prodotte da queste comunità. Il fiume dovrebbe lavare tutto, ripulire, portare via verso il lago, naturalmente ricchissimo di vita e di pesce e poi al mare, ma vedere queste torme di ragazzini a mollo in questa fogna a cielo aperto, ti fa dimenticare per un pò il formicolio alle gambe. Dopo un altra ora, comunque la sopportazione comincia a diventare un problema serio e la barca si ferma ad una palafitta un po’ più grande. In pratica l’Autogrill. Speriamo ci sia un bagno. L’australiana biondina di fianco a me a cui esterno i miei desiderata, alza gli occhi al cielo come una mater dolorosa e mi fa:- I hope so!-. La sosta è di una mezz’oretta. I locali si abbuffano subito di zuppa di noodles e pesce del lago, un gruppetto di nerboruti italiani addenta spiedini di carne ignota, qualcuno pesca nella ghiacciaia qualche lattina. Il caldo è insopportabile. Dietro la palafitta, sospeso a cinque metri sull’acqua, uno stanzino consente l’espletamento delle principali necessità, mentre piccoli topini corrono sulle assi di legni cercando di evitare di cadere nel grande buco quadrato, cosa che cerco di fare anch’io, pur osservando il colore del liquido sottostante e compatendo quanti, poco lontano, continuano a bagnarsi per cercare refrigerio e a lavare le stoviglie in cui vengono serviti i noodles di cui sopra. Ma bisogna ripartire. Ancora più ingrugniti e aggressivi, si riprendono i posti, cercando di guadagnare spazio a danno del vicino e la barca va, sempre più lentamente. Ogni incrocio con chi discende il fiume diventa un problema. Il remo affonda nella melma, l’elica sempre di più sfrega sul fondale basso. I passeggeri sono ormai irritati, ma alla settima ora di sofferenza, la barca non ce la fa più a proseguire, praticamente incagliata nella melma. Scatta l’ordine. Tutti giù, forzatamente in mezzo alla orrida fanghiglia melmosa, la cui collosità organica che ti risucchia i piedi e le caviglie non è certo data solo dall’alta percentuale di argilla. Lo schifo viene attenuato dalla necessità di guadagnare la riva, su cui, tra gli arbusti, vengono gettati frettolosamente i bagagli, poi la barca se ne va, lasciandoci con i polpacci infettati di una vischiosità sospetta, che però, grazie al caldo insopportabile, si secca rapidamente. In mezzo al campo, due pick up malandati aspettano le loro vittime. Saliamo all’arrembaggio, dopo averci buttato sacchie e valigie. I più veloci riescono ad assicurarsi un posto un po’ più morbido tra le masserizie, i grassi e vecchi (che è meglio che se ne stiano a casa), già con fatica riescono ad issarsi sul bordo del cassone. Due ore terrificanti di pista, piena di buche fangose, fustigati dai rami spinosi ai bordi della strada, ad ogni curva appesi alle bacchette per evitare di essere sbalzati fuori. Poi a poco a poco, la pista diventa sterrato più liscio, poi una parvenza di asfalto, infine si arriva ad uno spiazzo polveroso alla perifria della città, pronti all’assedio dei tuk tuk in cerca di clienti. La prima cosa da fare è prenotare il biglietto per il pulmann di dopodomani.
Lettere dalla Kampuchea 9: Un tuk tuk in affitto.
L’alba a Battambang è calma e sonnacchiosa come si conviene ad una pigra cittadina di provincia, che se non fosse per l’ospedale di Emergency, che per primo se ne è occupato, neppure ci si renderebbe conto di essere al centro di uno dei territori più fittamente ricoperti di mine antiuomo del mondo. Ne hanno seminati a milioni nelle risaie e nella foresta fino al confine thailandese di questi ordigni schifosi, studiati apposta per non uccidere. Troppo semplice sarebbe; no, la mina rende soltanto invalido, senza gambe, senza braccia o cieco, così da farti diventare un problema per il tuo paese per decenni, per sempre. Legioni di invalidi popolano questo paese, che darebbe loro una pensione di 25 dollari al mese, ma ritirabili anche tutti assieme, cosa che quasi tutti hanno fatto e che in un attimo si sono esauriti; così rimane soltanto il problema di vivere ogni giorno. Eppure è un territorio ricoperto di bellissime risaie, che non appena comincia la stagione delle piogge, si vela del un tenue verde oro degli steli di riso, la ricchezza della Cambogia. Il tuktuk di Toni scoppietta lento lungo la strada. Che piacere girare così al ritmo di questa campagna, adesso polverosa e calda, tra poco ricoperta di acque. Gruppi di capanne su basse palafitte, costruite da poco di fianco alle buche delle mine o delle bombe, su terreno finalmente sicuro, oppure villaggi vecchi con le case fatte di legno antico che la furia della guerra ha solo sfiorato, dove il proprietario, camminando a piedi nudi, sul lucido impiantito di scuro tek ti racconta in francese la serena vita del nonno che lo ha costruito, mostrando con orgoglio un vecchio mobile di foggia europea che chiama la consolle. L’antico tempio Phnom Banan sulla collina ha 5 stupa in rovina. Le pietre sembrano oscillare su queste strutture quasi morenti; eppure il tempio vive, con piccoli altari dove qualcuno porta un’offerta, brucia qualche bastocino di incenso, lascia un frutto. Qualche monaco solitario sembra meditare silenzioso nella calura del meriggio. Uno di loro, magro e allampanato, stretto nel suo telo arancio, all’ombra di una grande albero, mi attacca un bottone. Vuol sapere chissà perchè, quante lingue parlo, poi si richiude nel suo silenzio statico, lo sguado perso nel vuoto, parte dell’arenaria ambrata che lo circonda. Mi sembrava impossibile salire lungo i quasi 400 gradini corrosi dal tempo, una lunga scala ripida e cattiva che vuole sofferenza prima di farti meritare il Paradiso, la vista dall’alto della campagna circostante, delle emergenze di roccia lontane nella piana. Una fatica feroce, spietata e senza intervalli per chi come me, oltre al pesante fardello dei propri peccati deve anche portare quello del lardo, uno zaino che non si può lasciare a valle, mentre i rivoli di sudore ti fanno dimenticare i due ematomi che la gita in barca di ieri ti ha lasciato per ricordo, in una parte del corpo che non posso per rispetto al tempio, nominare. Un ragazzino astuto ed ingegnoso, dotato di grande ventaglio mi segue per tutta la dura salita, facendomi aria per tutto il percorso, lento, passo dopo passo, ridendo del mio ansimare, ma che non ho la forza di scacciare, ma anzi della cui refolo leggero, procurata dai movimenti sapienti del labello, godo, mentre il sudore evapora provocando un fremito di frescura a lenire la fatica. Mai mancia sarà più guadagnata. Qualche kilometro più ad ovest, il monte su cui sorgono i vari piccoli edifici religiosi del Phnom Sampeau, che culminano in piccoli stupa dorati di recente costruzione. Questo è un altro dei luoghi di morte dove gli Khmer rouges compivano le loro mattanze. Dirupi e forre dove le vittime, torturate a dovere, venivane gettate; templi trasformati in prigione, montagne di teschi che la pietà dei monaci raccoglie in grandi teche. Queste cose ti lasciano sempre senza fiato; il contrasto tra l’orrore e la bellezza del luogo stridono a tal punto da rendere difficile il fare ragionamenti, tentare spiegazioni. Così disceso, rimani seduto alla capanna a riprendere fiato, fisicamente e mentalmente. Toni ha voglia di chiacchierare; così con un pezzetto di ghiaccio tra le mani prelevato dalla ghiacciaia, tra le lattine di Coca, racconta la sua storia. Era piccolo Toni, quando arivarono gli Khmeri rouges, aveva poco più di tre anni, eppure ancora si ricorda di quando arrivarono in città e come cominciò il rastrellamento casa per casa. Il padre insegnava francese nel liceo di Battambang e sapeva cosa gli sarebbe capitato, così fuggì sulle montagne con quattro compagni per tentare di arrivare in Thailandia. Con la mamma ed i suoi sette fratelli, lui era il più piccino, furono portati in un campo tra le risaie. La madre ed i fratelli più grandi ad alzare argini con zappe e badili fino allo sfinimento, i piccoli raccolti e saparati e privi di tutto. Erano circa quattrocento bambini e dopo tre anni, dieci mesi e ventidue giorni di fame e di stenti, rimasero in una ventina. Lui perse due sorelle e un fratellino più grande. Il padre non riuscì a superare il confine ma visse quel tempo nella jungla dei monti Cardamomi, cibandosi di bacche e radici e alla fuga dei soldati, torno a valle coperto di foglie. Ritrovò quel che rimaneva della famiglia che finì in un grande campo profughi vicino al confine. Toni aveva ormai più di sette anni e benché la vita del campo fosse durissima, potè andare a scuola dove, spinto dal padre, imparò l’inglese. A quel punto fu data loro la possibilità di andare negli Stati Uniti, ma il vecchio professore pensò che nel nuovo paese che stava nascendo ci sarebbero state occasioni per chi aveva una istruzione. Così rimasero. Ma venne ancora la guerra civile e l’adolescente Toni finì in uno dei quattro eserciti che si combattevano a vedere altri orrori, a provare altre sofferenze. Adesso le cose vanno meglio. Lui parla inglese e se arriveranno molti turisti, avrà buone occasioni di guadagno e anche se l’affitto del tuk tuk gli costa 50 dollari a mese, magari un giorno riuscirà a comprarsene uno, per poter guadagnare un po’ di più, per poter mandare la sua unica bambina ad una buona scuola superiore, perchè, come diceva suo papà, puoi perdere tutto, ma l’istruzione è l’unica cosa che ti rimane nella vita. Ho già capito che toccherà largheggiare nella mancia.
Lettere dalla Kampuchea 10: Flussi e riflussi.
Il sole sorge presto anche a Battambang. Mentre il mio amico penserà a Phnom Penh alle cose che deve fare, un po’ più importanti delle mie, la mia strada mi porta ancora verso Siem Reap, per una totale immersione nella ricchezza dei templi e della storia antica, la perla autentica, l’attrazione fatale che porta il turismo in Cambogia. Questa volta saggiamente, il pulmann sarà il mio Garuda, per la barca ho già dato. Eccomi quindi di primo mattino, già stanco, ad aspettare il mezzo che deve passare dalla stazione di servizio vicina al mio albergo. Mescolato ai clienti in attesa come me, sorveglio il mio valigione; si portano sempre troppe cose inutili con sé, direbbe Diogene e anche il monaco che sarà mio vicino, detentore solo della sua bisaccia. Quando parte l’autobus, mi accoccolo tranquillo, cercando di godermi la vita che fluisce intorno, la fiumana di motorini e i trasporti che tanto affascinano noi occidentali. Chissà che anche lo zio di mio papà che faceva il cavallante a Valle San Bartolomeo facesse, con il suo biroccio, trasporti così pittoreschi come quelli che si vedono dal finestrino. Basta scostare la tendina colorata e vedi attraverso una finestra del tempo, cose che a te oggi fanno sorridere, ma forse uguali a quelle che vivevano i tuoi padri. Così la strada corre veloce, l’aria condizionata è sopportabile, quando inattesa, subdola e feroce, carognescamente cattiva, arriva lei. Quasi non te ne accorgi o quantomeno il sintomo è così mascherato da fartelo trascurare completamente, come cosa di nessuna importanza. Comincia con un lieve movimento, un quasi inavvertibile borborigmo tale da farti pensare di essere stato troppo tempo in una posizione contorta. Ti muovi appena e invece no, la leggera fittarella che si sposta lentamente verso il lato sinistro, prende corpo, manifesta a poco a poco la sua presenza inquietante e ammonitrice. Ulteriori movimenti e gorgoglìi a livello gastroenterico, chiariscono che il problema esiste e che non si trattava di falsi allarmi. E’ chiaramente in arrivo la maledizione di Montezuma o come altrimenti viene chiamata nei vari paesi del mondo, ma che sempre alla stessa cosa prelude. Momenti di sofferenza inaudita. Ormai hai capito. Si tratta solo di organizzare una linea di resistenza. Calcoli mentalmente le ore che ti separano dall’arrivo. Sempre troppe. Assumi una posizione il più possibile comoda e rilassata compatibilmente con la situazione e cominci operazioni di concentrazione mentale che i lunghi anni dedicati allo studio delle arti e delle tecniche del corpo orientali, ti hanno insegnato. Accidenti questo è il momento che servano a qualcosa. Inutilmente pensi a dove hai sbagliato. A quale è stato il momento in cui ti sei lasciato andare trascurando le precauzioni che ti eri promesso di rispettare con precisione. Forse ieri in quel mercato quando non hai potuto rifiutare l’assaggio di quel frutto delizioso che la donnina ha sbucciato con le sue manine, ben lavate. Coltello incluso un quell’orcio pieno di liquido marrone, o sarà stato il ghiaccio di quella deliziosa spremuta di mango, ieri sera, così godibile sulla balconata del Geko Cafè, mentre ti godevi il traffico animato del centro. Ma tutto questo ormai non conta più, anzi è troppo tardi lanciare maledizioni, cosa poi decisamente in contrasto con la ricerca del non pensiero che si sta cercando di raggiungere. Astrarsi dal proprio corpo e dalle proprie basse pulsioni, questo è il segreto, del Tao, dello Zen, degli insegnamenti del Buddha. Ma un conto è dirlo, la realtà invece non bada a queste cose. Gli impulsi arrivano sempre più impetuosi e violenti ad ondate regolari, che cerchi di vincere con un rallentamento della respirazione, poi la frequenza aumenta e la necessità diventa via via più ravvicinata, il controllo più difficile e faticoso. Sudi freddo e a nulla vale concentrarsi ad osservare il motorini che frecciano attorno, cercando di calcolare quanti maiali stiano nella sporta o quante oche siano attaccate alla stanga posteriore, la situazione peggiora continuamente. Qualche pausa in cui ti illudi che tutto possa posticiparsi risolvendo la situazione per il meglio, oppure convincendoti di avere avuto ragione sugli impulsi incontrollabili del tuo corpaccio avido di sensazioni terrene, invece no, ecco che il tutto si ripresenta e con maggior vigore, più forza, più implacabile determinazione. Allora ti assale lo conforto, al diavolo la forza della mente, cominci a capire che forsa non ce la farai, che le forze della natura avranno un definitivo ed ineludibile sopravvento sulla tua volontà, che si sta inevitabilmente per raggiungere l’acme, il climax finale inevitabile, in un big bang primordiale che potrebbe dare vita ad una nuova era, un Kali Yuga oscuro e senza speranze. Poi d’improvviso, inopinatamente il pulmann rallenta, sterza lentamente e imbocca uno sterrato laterale alla strada che conduce a delle baracche malandate circondate da una piccola folla. Non credi ai tuoi occhi, è l’isola per il naufrago ormai disperato di sopravvivere ai flutti di un oceano nemico, è il desiato traguardo raggiunto quando ormai sembrava superato il punto di non ritorno, il paradiso promesso e sognato, è il succedaneo dell’Autogrill. Appena si spalanca la porta, sei già in piedi, sgomitando sgarbatamente per scendere tra i primi, affrettandoti per risalire la fila dei monaci silenziosi, ma che si avviano infidi nella tua stessa direzione, una costruzione bassa con una paio di porticine sconnesse sul retro, da cui emergono liquami ed emanano odori che sono promessa e garanzia di essere nel giusto. Spalanchi con foga la porta ed a fatica ti introduci in una dimensione pensata per le taglie cambogiane, ti liberi come puoi degli inutili orpelli di cui la nostra civiltà ti costringe a bardarti e poi, dopo un tempo che ti era apparso infinito, finalmente ti lasci andare. Finalmente la pace. Sul tuo corpo costretto e sfatto dalla tensione, si distende un rilassamento totale, un momento di oblio e di serenità con cui poche cose hanno confronto. Poi a poco a poco la mente riprende il controllo della situazione, risolve i problemi materiali, con quello che trova a disposizione, valuta il grande orcio pieno d’acqua, il pentolino di plastica che vi galleggia, calcola, stima le possibilità, opera scelte, risolve per il meglio. Quando rivedi il sole, tutto ti appare sotto una luce diversa, più serena, oggettivamente più bella. Risali tranquillo, dando strada alle donnine e alle loro ceste, sorridendo ai monaci dai visi compunti e riprendi la tua posizione. Quando Siem Reap appare all’orizzonte, non sei più governato dalla necessità, ma prendi la tua valigia, calmo e tratti col tuk tuk il prezzo della corsa che ti porta alla tua nuova casa.
Lettere dalla Kampuchea 11: Il mistero delle pietre nere.
Eccomi qui, nel cuore archeologico cambogiano, in uno dei punti dove si addensano opere d’arte straordinarie che da sole valgono e giustificano il viaggio, che delineano il livello e la grandezza a cui era giunta la cultura khmer. Una full immersion di cinque giorni per godermi con calma le antiche pietre anche al di là dei punti topici, di certo più importanti, ma spesso sovraffolati anche in questo periodo di bassa stagione. Ho fatto un accordo con un un conducente di tuk tuk che per cinque giorni mi porterà in giro a mio piacimento, attraverso le decine di kilometri quadrati in cui sono sparse le rovine. Per cinquanta dollari sarà a mia disposizione dall’alba al tramonto, acqua nel contenitore pieno di ghiaccio compresa, come un milord inglese in visita nelle colonie, con un taccuino da acquerelli in mano per tratteggiare le immagini da riportare in patria, un portfolio di ricordi, di tesori perduti nelle jungle indocinesi. Eccolo infatti alle 6:00 puntale come un orologio svizzero, che mi aspetta dopo che mi sono ingoiato l’omelette alle cipolle di ordinanza, con abbondante riso bollito per tentare una stagnazione dei problemi che ho inopinatamente messo in piazza ieri. Il cosiddetto petit cicuit a cui mi dedicherò oggi è lungo una ventina di kilometri e tocca i templi più famosi e più conosciuti di Angkor. Il tuk tuk viaggia lento, non più di una ventina di kilometri all’ora e la vita ti scorre intorno ad un ritmo naturale e piacevole. Per arrivare alla porta sud di Angkor Thom si percorre quasi la metà del perimetro completo dell’immenso fossato di Angkor Wat. La dimensione di queste opere, subito ti colpisce e ti lascia attonito, incredulo quando lo paragoni ai fossati di difesa che conosci, davvero semplici fossi per le rane. Questo, largo centocinquanta metri e lungo quasi sei chilometri, dagli angoli perfettamente tagliati e circondato da gradinate, ti porta subito a pensare alle legioni di uomini e donne con ceste e badili che lo hanno scavato, come gli ancora più immensi Baraj, veri e propri laghi artificiali che al di la della loro funzione religioso-architettonico, erano stati il fondamento della straordinaria visione idraulica di regolamentazione delle acque, che aveva consentito mille anni fa, il crearsi di uno dei grandi imperi dell’Asia meridionale. Grazie a questi serbatoi fu possibile la vita e lo sviluppo agricolo per milioni di persone. Il declinio cominciò proprio con lo sfaldamento tecnico di queste grandi opere. Il portale di Angkor Thom, davanti al quale scendo, incute timore e rispetto. Attraversi il lungo ponte per passare un altro grande fossato e sei davanti a questa bocca del mistero, quasi il punto di ingresso in un’Ade imaginifica, di cui non sai prevedere il percorso. Le pietre corrose dal tempo, verdi di muschi, forate dalla pioggia sormontate dal grande volto del Buddha dallo sguardo perso nel vuoto, ti lasciano la scelta di entrare in un luogo fatato e di interpretarlo in sintonia con il tuo sentire. Un luogo che non ti vuole imporre ideologie, ma ti lascia libero di applicarvi le tue emozioni. Circondato dalla foresta ecco il Bayon con i suoi 1200 metri di bassorilievi straordinari che percorrono il corridoio perimetrale e la grande struttura centrale, che da lontano pare un cumulo di pietre abbandonate e che solo entrandovi e percorrendo i tre livelli che portano alla terrazza interna rivela la sua magia. Di colpo, appena superati gli ultimi erti scalini e i portali di pietra scanalata, ti ritrovi in una selva di volti giganteschi, rivolti in ogni direzione che ti circondano, ti avvolgono con la loro presenza immobilbile, sguardi perduti nella serenità meditativa, che sanno della tua presenza, ma che non ne sono affatto turbati. Una pietra scura che incombe nei passaggi stretti, nei corridoi che paiono angusti, costretti come sono, dalla mancata comìnoscenza della tecnica dell’arco e della chiave di volta, ad artifizi di equilibrio incerto a cui la pietra fatica ad adattarsi; eppure tutto si pone così apparentemente perfetto, così definitivamente finito ed armonico. Siamo pochi a muoverci tra le pietre ammassate al suolo e le architravi cadute, così da darti una sensazione di solitudine piacevole e quando un anticipo di monsone rovescia una secchiellata di acqua sulla foresta, trovo riparo in una nicchia. Un gruppo di bambini, felici delle scroscio e bagnati fradici, giocano a nascondino a piedi nudi, correndo tra le colonne; intorno a me le Apsaras dei rilievi sul muro, danzano per il loro signore. La pioggia ha lucidato a tal punto la pietra nera da farla risplendere come un giaietto luminoso di un gioiello di tempi lontani. Si lascia il Bayon con fatica e dispiacere, vorresti rimanere lì per ore a confonderti con il non-essere dei volti del mistero, ma subito ti trovi a camminare tra gli alberi fitti, lungo un sentiero di terra rossa cercando la via per arrivare al Ba Phon, con la sua grande piramide rossa simbolo del mitico monte Meru che nasconde la sagoma di un Buddha disteso lungo 60 metri. Supero mura diroccate ed eccomi nel palazzo reale col tempio ormai in rovina del Phimeanakas, fino alla immensa terrazza degli elefanti davanti alla quale sfilano le dodici torri del Prasat Suor Prat, soldati immoti a guardia e protezione, rosse presenze che emergono tra gli alberi attraverso cui il sole fatica a farsi largo. Sono quasi le dieci quando scendo dalla Terrazza del re lebbroso, lungo lo stretto e tortuoso passaggio che ti costringe a sfilare di fianco al colossale bassorilievo che racconta di epiche battaglie con i suoi elefanti a grandezza quasi naturale. Fuori, sotto le piante mi aspetta il mio Garuda scoppiettante per portarmi nel fitto degli alberi verso altri misteri, altre scoperte.
Lettere dalla Kampuchea 12: Il libro della jungla.
C’è almeno un chilometro di bosco fitto prima di raggiungere la bassa muraglia ed il Victory gate per uscire da Ankor Thom. Attraversi il lungo ponte e subito ai lati altri due complessi templari, uno in rovina, il Chau Say, l’altro perfettamente conservato, il Thommanom, due templi quasi gemelli ,dove si pone davanti il prima e il dopo, la bellezza dell’essere e la disgregazione del non essere. Quasi non sai se sia più attrattiva l’una o l’altra delle due condizioni, entrambe così perfette nella loro apparenza. Fuori di Angkor, i turisti si sono diradati drasticamente. Sembra che la fretta del mondo moderno vieti alla maggior parte delle persone di godere di tutto quello che c’è al di là dei muri principali, così, di norma, tutto questo viene trascurato. Che perdita! C’è solo una monaca dal cranio rasato nel Thommanom. Mi metto in un angolo a seguire il suo rituale silenzioso, una piccola puja di frutti, il ritmico movimento di qualche bastoncino di incenso; intorno il rumore della foresta in mezzo alla perfezione dell’arenaria rosata, dei terrazzini, degli stipiti diritti, delle guglie ornate, delle leggerissime tonnellate di pietra. Me ne stacco a fatica, ancora un paio di curve poi l’immensa piramide del Ta Keo, dove la voglia di raggiungere il cielo si misura nella serie di terrazze sovrapposte, nell’infinito susseguirsi dei gradini per arrivare a dominare la jungla dall’alto, in una sorta di déjà vu mesoamericano, testimone della identità comune della immaginazione dell’uomo. Al di là, la jungla si infittisce, mentre il sole si fa alto ed il caldo opprimente consiglierebbe il riposo. Ma dopo poco, da una stretta porta si apre la meraviglia delle meraviglie, il luogo forse più coinvolgente di tutti, un sogno di pietra avvolto dalla foresta. Il Ta Prohm è testimone di una simbologia unica ed eterna. La lotta continua dell’uomo e della natura che coesistono tentando inutilmente di sopraffarsi l’uno con l’altra, in una battaglia epocale da cui nessuno, per fortuna esce mai vincitore. Entri attraverso brecce tra i muri spessi e tutto sembra crollato, morto, distrutto. Le grandi pietre scure ammonticchiate giacciono al suolo scompostamente come spazzate via da una forza superiore che abbia voluto dimostrare la piccolezza del costruttore, la sua incapacità di realizzare qualche cosa che potesse resistere al tempo, ma subito dopo indovini cortili e recinti, passaggi e camere ancora in perfetto stato, ma mostruosamente avvolte da radici d alberi giganteschi che mai ti sembra di aver visto in natura, che in un abbraccio mortale avvincono la pietra come per tentare di stritolarla, tentacoli smisurati che soffocano i muri distorcendoli, penetrandoli con filamenti più sottili, malignamente. Le costruzioni, coperte di muschio verde, soffrono disperatamente nel tentativo di sottrarsi alla stretta, per tentare di respirare, di scrollarsi di dosso quel peso terribile; qualcuna ha ceduto ormai e giace abbattuta, vinta definitivamente, altre sembrano uscire vittoriose dalla morsa e si alzano ancora libere, mentre le grosse radici chiare corrono ondeggianti ai loro piedi, come messe in fuga. Non c’è luogo che abbia visto, dove questa lotta primordiale sia così avvincente e piena di fascino. Se ti siedi in qualche angolo solitario, vieni anche tu subito avvolto dai suoni della jungla, decine di uccelli diversi che cinguettano, sibilano, chiocciano richiamandosi in continuazione. Frullio d’ali sugli alberi più alti, poi un rincorresi di piccole scimmie dalle fauci rosate, colori di farfalle che si posano leggere sulle pietre antiche. Tutto lo scenario è immobile attorno a te, ma nell’aria spessa, sotto l’afa opprimente, la sensazione è che tutto sia in un pur lentissimo ma continuo movimento, il terreno che a poco a poco si solleva al protendersi infido delle nuove radici, che bramano avvolgere, conquistare, sopraffare l’opera dell’uomo e questa che tenta di resistere all’abbraccio mortale per formare una situazione di statica bellezza, di immagini da cui non riesci più a staccarti. Che gioia esserci stato e che fortuna esserci arrivato in questa stagione, quando caldo e fatica tengono lontano la folla, lasciandoti solo tra queste mura contorte a sentire il respiro della foresta. Ma alfine bisogna andare, camminando lentamente sotto gli alberi, con l’aria spessa che brucia i polmoni. Davanti al bacino dello Sras Srang, un gruppo di capanne aspetta le poche persone che arrivano. Una dà acqua fresca e riso. Anche la birra, scelta tra le lattine avvolte da pani di ghiaccio, è bella fresca. Mi abbandono su un’ amaca davanti all’enorme stagno artificiale. Lontano nell’acqua, gruppi di bambini giocano nel fango basso, qualche pescatore tira su le nasse. Gli occhi, stanchi di tanto splendore, si chiudono. Meno male che non ci sono zanzare.
Lettere dalla Kampuchea 13: Non si vive di sola cultura.
Quando mi risollevo dal torpore , è fatica lasciare l’amaca e questo luogo di pace. Il pomeriggio è veramente afoso e la fatica è appena lenita dall’aria calda che ti carezza mentre stai abbandonato sul sedile del tuk tuk che scivola lentrobbandonato sul sedile del tuk tuk che scivola lento tra un tempio e l’altro. Anche qui non capisci bene se è il clima che ti ottunde i sensi o la sazietà di bellezza che ti impedisce di provare le stesse potenti sensazioni o lo stordimento estatico che hai provato di fronte alle prime immagini. Certo bisognerebbe resettare tutto, ricominciare psicologicamente dall’inizio, come se fosse il primo tempio che vedi, la prima scultura. E’ un po’ come quando sei alle ultime sale degli Uffizi, come puoi stupirti ancora dopo Botticelli e Raffaello, eppure se avessi fatto il percorso inverso, come saresti rimasto attonito fin dai primi quadri. Niente da fare è il senso di assuefazione e di sazietà dell’uomo, che siano odori, che siano cibi o femmine, dopo un po’ la mente si abitua al bello e vorrebbe qualcosa di più alto, di più sublime. Così passano, ingiustamente poco apprezzati, il Benteay Kdei dalle guglie complicate e barocche e il Prasat Kravan, perfetta ed immensa costruzione in mattoni aranciati fino al gran finale dell’Angkor Wat il tempio colossale e perfetto, come se non avesse mai cessato la sua funzione, con i suoi 800 metri di bassorilievi, forse il punto più alto della scultura Khmer, con le sue alte guglie dalle ricercate geometrie tra cui perdersi mentre il sole scende, mentre le ombre si allungano, mentre il rosa arancio colora la pietra corrosa fino al limite del viola prima di lasciare spazio alla tenue oscurità che ti farà tornare pensoso verso la doccia salvifica. La serata è piacevole con le sue temperature più umane e ti lascia scoprire la cittadina ormai preda del turismo di massa con tutti i suoi pregi e svantaggi. La strada più affollata (Pub street, un nome, un programma) è fitta di ristoranti e locali pronti all’happy hour, in questa stagione di morta, pieni di saccopelisti e di routard di lungo corso in cerca di un boccale di birra a buon mercato. Ma questo è il momento, se le vostre viscere hanno ormai trovato la pace che il luogo suggerisce, di provare a raccontare un po’ della cucina locale, che non è assolutamente priva di interesse, anzi (vero Acquaviva?). Spostandosi intorno al centro ci sono un sacco di locali, dove provare e sperimentare i gusti e i sapori non troppo violenti e accattivanti della cucina cambogiana. Attenzione ad insegne tipo “Khmer food – home cooking” dove mi sono stati offerti Khmer Vegetarian Canelloni, Khmer lasagnas, Tiramisù and our fantastic pizzas with wood fire. Vi parlerò invece dei piatti più tipici di questa cucina, meno speziata delle altre indocinesi che la circondano, trascurando le curiosità che fanno troppo turista in cerca di esotico come i ragni di Skun o i grilli glassati. Intanto vi insegno un’altra parola in cambogiano da imparare con facilità, che fa simpatia e vi sarà utile quando siete alla ricerca di un luogo dove calmare i morsi della fame. Mangiare infatti si dice Gnam Gnam e ho detto tutto. Vi ho già parlato altrove dei lasciti della Francia con baguette, omelette e le carni tenere di manzo, onnipresenti che risolvono qualunque situazione, ma una cosa da provare è l’Amoc, un particolare sistema di cottura del pesce, ma anche di diverse altre carni con latte di cocco, citronella e peperoncino dolce, al vapore o al forno in una foglia di banano. Questi aromi poco aggressivi danno al piatto un gusto armonico e delicato che invita alla seconda porzione. Un’ altra specialità da testare riguarda il sistema di cottura detto Lok Lak anch’esso valido per diversi tipi di carne dal pesce al maiale, ma usato soprattutto per il manzo. Si tratta di ridurre la carne in piccoli pezzi da marinare a lungo in salsa di soya, salsa prahoc, olio, sale, zucchero, pepe nero, aceto e altri sapori locali a piacere; il tutto viene passato con fecola di mais e poi nel wok rovente alla cinese, versando a poco a poco la salsa della marinata fino a consumarla tutta e servito su riso pilaf. Anche questo è un piatto molto gradevole che vi risolverà molte situazioni di dubbio. Un ultima parola prima di andare a dormire sulla salsa prahoc. Si tratta di una macerazione con successiva fermetazione del pesce che rilascia un sugo che ritengo abbia molto in comune con il garum dei nostri padri latini e che ad onta dell’ idea, non è poi così sgradevole. Il pastone che rimane dopo l’estrazione della broda, viene anche detto pesce formaggio grazie al suo aroma ed usato in altri piatti, di cui non vi dirò il nome locale per malizia. Sappiate comunque che una coppia che ha dovuto per necessità, usufruire di un trasporto su un carro che aveva appena scaricato diversi barili di questo prodotto, si è ovviamente assuefatta dopo una decina di minuti, ma ha poi avuto seri problemi in albergo, nonostante il servizio lavanderia fosse intervenuto più volte sui loro vestiti. E con questo direi che ci meritiamo il sonno del giusto perchè domani ci aspetta il Grand Circuit e altre maraviglie.
Lettere dalla Kampuchea 14: Pesci pulitori.
Il grande circuito si dipana attraverso una serie di templi disposti attorno all’ East Baray, una colossale piscina di ben 8 chilometri quadrati, scavata a forza di braccia oltre 1000 anni fa. Le conoscenze idrauliche di quel periodo sono impressionanti e tutte messe al servizio del riso, l’unica ricchezza di questo paese, che ne ha garantito per secoli lo sviluppo. Solo alcuni secoli dopo nella pianura Padana si arrivò a conclusioni simili, irregimentando le acque sempre a beneficio del riso. I templi sono lontani tra di loro, nascosti nel bosco fitto e uniti da un lungo e malandato nastro di asfalto. Colossali anch’essi, piantonano la pianura con la loro presenza segreta, come sentinelle di un passato remoto a guardia di una fortezza Bastiani ormai scoe sue fughe di cortiletti e le basse colonne in pietra; il Neak Pean, un tempio indù, che sorge come un isola nel centro di cinque grandi piscine quadrate che isolano il suo stupa centrale come un fiore di loto in uno specchio d’acqua tra gli alberi alti; il Ta Som, anch’esso con i grandi volti dello stile Bayon, immoti ed incuranti che ogni pietra sembri sul punto di crollare definitivamente; l’East Mebon, un altro tempio montagna di mattoni rossi, creato come una gigantesca isola al centro del Baray, che domina tutto lo spazio circostante e infine il Pre Rup, molto simile e ancor più imponente e ben conservato, con le sue bellissime sculture, vicino a alle quali, godersi la vista della selva che lo circonda, dall’alto, mentre il calore meridiano leva un tremolio soffuso che impedisce all’occhio di spingersi più lontano, che lo costringe solo ad immaginare spazi più vasti ed infiniti. Il resto del pomeriggio deve esser forzatamente dedicato al riposo, ad aspettare l’ombra della sera, la tregua nella lottaquotidiana contro il caldo. Così dopo, diventa piacevole passeggiare nei quartieri più popolati del centro di Siem Reap, questa cittadina che sta crescendo a dismisura attorno ai grandi alberghi e alle centinaia di piccole ed economiche guest houses che ogni giorno spuntano come funghi. Il turismo dà una grande chance di lavoro a migliaia di persone, naturalmente con le sue luci e le sue ombre. A questo proposito van dette due parole su uno dei problemi di cui spesso si parla riferendosi a questi luoghi. Il turismo sessuale è di certo una piaga forte del sud-est asiatico. Per la verità qui mi è parso assai meno aggressivo che in altri luoghi analoghi, Thailandia in testa. Io, che ho usato molta cautela, essendo nella tipica condizione dell’anziano bavoso che viaggia da solo con scopi inconfessabili, quindi ben individuabile e catalogato facilmente come probabile cliente, non sono mai stato, in verità oggetto di proposte dirette e non ho visto signorine all’assalto, nelle strade dove alligna il turista. Se si esclude qualche mototassista che portandoti a casa, ti chiede con discrezione se sei interessato ad uno special massage, direi che non ho neanche avvertito la cosa. Quindi concluderei che certe situazioni, senza parlare poi della prostituzione dei minori, se la vuoi, devi proprio andartela a cercare, magari andando un un apposito locale, che nella pubblicità dei depliant, segnala la dicitura Friendly girls. Ci sono è vero miriadi di saloni di massaggio sospetti, ma diciamo che questa arte è una peculiarità del luogo e sicuramente molti di questi sono assolutamente seri, anche perchè il lavoro viene svolto spesso su poltrone e lettini direttamente sulla strada. Grandi cartelli campeggiano vicino ai negozi: total massage, head massage, feet massage, four hands massage e così via. Sono molto tentato, ma un cartello che recita “Fish massage”, mi attrae e respinge allo stesso tempo. A quale parte del corpo si riferirà? Sono sospettose e malfidato, ma un ragazzotto e una gentile signorina insistono molto per avermi come cliente, mostrandomi con cortesia il luogo dove avviene l’operazione, il marciapiede pochi metri più avanti. La cosa mi convince, unita al costo moderato di 2 dollari e mezzo inclusa birra. In effetti il passaggio è sbarrato da una grande vasca, circondata da un papapetto che funge da sedile, una sorta di piscinetta per bambini, sul bordo della quale ci si siede immergendo i piedi nell’acqua illuminata da potenti faretti. All’istante centinaia di pesciolini non più grandi di qualche centimetro accorrono attorno alle vostre estremità e cominciano la loro opera indefessa, con un’ inarrestabile serie di piccoli morsi intesi a divorare le pelli secche e morte dei vostri stanchi piedi. Una sensazione bizzarra di un lieve solletichìo a cui ci si vorrebbe sottrarre ed allo stesso tempo resistere. Una piacevolezza senza pari che dura un quarto d’ora, giusto il tempo per finire la birra. Poi, leggero come una piuma, via, verso un Lok Lak di pollo.
Lettere dalla Kampuchea 15: Manghi maturi.
Oggi lascio l’area di Angkor per godermi il Benteay Srey, forse il tempio più raffinato della Cambogia. Anche se sono solo le sette del mattino l’aria calda arriva a zaffate, fastidiosa come colpi di phon dati con distrazione da un parrucchiere ubriaco, quando i capelli sono già asciutti. Andiamo verso colline lontane ed i piccoli gruppi di capanne che sfilano lungo la strada sono sempre più miseri ed essenziali. Nei grandi orci disposti intorno ai muri di foglie secche di palma, un residuo di acqua piovana verdastra, segno che la stagione secca è al suo culmine. Anche se di tanto in tanto si addensano masse minacciose di nuvole nere, il cielo non è ancora disposto a lasciarle sfogare, a consentire che l’acqua scorra a torrenti per ridare vita e speranze ai campi bruciati, alle gole arse. Si sente lontano, qualche tuono, mendace segnale di una promessa che anche oggi non sarà mantenuta. Il tempio isolato nella jungla è l’ennesima scoperta, rosso di pietra corrosa dal tempo, circondato da un fossato ormai trasformato in scarna palude in cui i loti sbocciano con fiori bianchi e violetti. Sono come al solito solo ad inoltrarmi nel sentiero che conduce al basso portale d’ingresso; un guardiano assonnato, mi controlla di malavoglia il biglietto e finalmente posso fare un giro attorno ala cinta muraria da cui si godono splendide viste del complesso. Entro dalla porta nord, dove la consueta orchestrina di invalidi da mina, la cui presenza mi suggerisce che non rimarrò solo a lungo, comincia un concerto personalizzato per il suo unico spettatore. Non posso sottrarmi e lasciato il consueto obolo, entro tra i muri cadenti e cammino nei cortiletti ricoperti di piccole costruzioni. Tutta la costruzione è estremamente armoniosa e proporzionata. La parte centrale poi, è anche completamente leggibile e completamente conservata. I fregi che ricoprono le facciate, i frontoni, gli stipiti e gli architravi sono di tale raffinatezza da farti rimanere a lungo davanti ad ognuno, per poterli apprezzare, con calma, in questa luce fantastica che colora tutto di arancio scuro. Le volute complicate delle foglie e dei rami si intrecciano in modi complessi; le divinità raffigurate, nelle loro posizioni più steretipate, ma ricche di dettaglio, impressionano per la loro accuratezza. Hai voglia di fermarti a lungo, scambiando solo il tuo respirare corto con quello più disteso e pieno della foresta, dalla quale viene una continua serie di rumori, di sbattere d’ali, di grida d’animali. Rimango ancora, seduto davanti ad un lingam imponente circondato ancora dai residui delle devozioni, finchè non arriva un gruppo di giapponesi a spezzare l’incanto e a ricordarmi che comunque bisogna andare. Intorno il bosco, nelle cui radure si insinuano le risaie, è ricco di vita; ogni pozza è la salvezza per qualche bufalo stanco. Risaliamo ancora la collina, fino allo Kbal Spean, un luogo santo nel fitto della foresta, che si raggiunge dopo un faticos(issim)o cammino, lungo un sentiero contorto e ripido, tra alberi giganteschi che ricoprono di rami il cielo, da cui pendono liane a rendere ancor più problematico il procedere. Il torrente, meta del cammino è però quasi in secca e le sculture fatte in secoli di devozione sulle rocce del fondo, sono quasi tutte affiorate ed allo scoperto. I mille lingam che devono fecondare le acque che, carezzevoli, scorrono su di loro, ricoprendoli appena, emergono asciutti e neri, come inutili e sterili, in attesa che il monsone arrivi. Tutto però è coperto di muschio verde e le radici gigantesche ricoprono il suolo assediando lo spazio dove il torrente tenta di farsi largo tra le foglie secche, molte delle quali, invece, sono farfalle giganti che si alzano appena al mio passare per posarsi subito dopo a confondersi con il bosco. La cascatella è anch’essa un rivolo. Seguo il torrente per qualche centinaio di metri per osservare tutte le divinità che le forme delle rocce scure hanno suggerito nei secoli e poi scendo lentamente a valle. Verso il fondo incontro una coppia di coreani che sale sbuffando; devono ancora soffrire parecchio. Ancora il pomeriggio dedicato al complesso di templi della zona di Roluos. Attorno al Ba Kong è pieno di venditrici di manghi. Grandi, gialli, maturi e profumatissimi. Ne faccio scorta pregustandone la delizia della polpa morbida e succosa. Mi vedo già all’opera col coltellino svizzero, con le mani tutte sbrodolate di sugo appiccicoso; sempre il purgatorio prima di conquistare un pezzetto di paradiso. Chissà perchè tutti questi frutti fantastici hanno un nocciolo così grande?
Lettere dalla Kampuchea 15: Case sul fiume.
Oggi pausa dalla realtà virtuale dell’archeologia e tuffo nella realtà reale del popolo dell’acqua. In Cambogia ci sono centinaia di migliaia di persone che vivono sull’acqua. Sui fiumi e sull’immenso lago Tonlé Sap che occupa tutta la parte centrale del paese, espandendosi e riducendosi di cinque volte, gigantesca cassa di espansione in cui rifluisce anche l’acqua del Mekong, quando l’intensità del monsone impedisce al mare di ricevere la massa di precipitazioni. La straordinaria ricchezza biologica di questo bacino, ha consentito lo svilupparsi di una vera e propria civiltà lacustre, fatta di villaggi di palafitte, di case-barca, di zattere galleggianti, di insediamenti provvisori che sfruttano a seconda dei periodi le parti affioranti durante le secche. In aprile il livello minimo consente a queste genti di spingersi avanti nel lago, su isolotti affioranti e argini malfermi che con l’abbassarsi del livello, vanno ricoprendosi di verde tenero e provvisorio. Kampong Khleang è il più grande insediamento fluviale del paese e si sviluppa per alcuni chilometri lungo le rive di un immissario minore del lago. La strada per arrivarci abbandona la nazionale ad una quarantina di chilometri da Siem Reap e percorre un alto argine lungo il bordo destro del fiume. Di tanto in tanto gruppi di capanne si raggrumano, in vicinanza di uno slargo, attorno ad uno spazio sterrato e polveroso dove subito trovano spazio i banchi di piccoli mercati improvvisati. C’è un gran movimento di biciclette, motorini e carri colmi di derrate; a volte la strada è occupata parzialmente da stuoie coperte di riso messo a seccare al sole, diversamente i bambini sono padroni assoluti degli spazi di fronte alle capanne. Il fiume a lato è ormai un rivolo secco maleodorante, una fogna imputridita che non riesce neppure più a scorrere verso valle, una poltiglia fangosa in cui finisce tutto quanto e da cui comunque la comunità trae vita, cibo e acqua. Man mano che ci si avvicina all’area più popolosa, si rimane impressionati dall’altezza delle palafitte che emergono dal fondo del fiume e che mostrano chiaramente dove può arrivare il livello durante la piena. Le capanne ed anche le case meglio strutturate sembrano in precario equilibrio su sottili pali di oltre dieci metri di altezza, sottili e fragili all’apparenza, che forse proprioper questo si moltiplicano fino a formare una fitta ragnatela di liane a cui le abitazioni, più che sostenute, paiono appese. La gente le raggiunge con lunghe scale appoggiate agli ingressi, alcune fungono da negozi, altre da officine o magazzini. Dappertutto la vita ferve vorticosa. Sullo spazio centrale una camionetta con tanto di megafono fa propaganda elettorale, scommetto promettendo meno tasse e più riso per tutti. Un sentiero fangoso scende verso un imbarcadero affollatissimo di natanti di ogni tipo, incuneati tra nasse giganti, bilance e trappole di canne e marchingegni per la cattura del pesce di grandi proporzioni. Una cooperativa di pescatori ha capito che i turisti rendono e ti porta a fare un giro fino al lago per un paio d’ore per una cifra esorbitante. Ma almeno sono soldi che rimangono qui, nella comunità e non sembrano un furto. A passare tra le case galleggianti guardando la vita che scorre attorno a te, par di guardare un film neorealista. Tutti ti salutano, anche se si stanno lavando alla meglio immersi nella melma giallastra, qualcuno rema veloce per portare ad un vicino mercato una barca piena di frutta, altri tornano dal lago carichi di foraggio acquatico o col risultato della pesca. Al contrario di quanto si avverte quando si gira per le campagne, dove sempre provi una sensazione di tranquilla pigrizia, di serena lentezza, qui tutto ha un aria più frenetica e caotica; forse per il sovraffollamento o per il senso di sporcizia e di disordine, anche se allegro, che traspira dalla difficoltà di vivere in queste condizioni. E’ un giro istruttivo, che ti mostra come si riesca ad andare avanti in assoluta “normalità” anche in situazioni che, solo descritte, potrebbero sembrare insostenibili. Quando la barca mi riporta sull’argine, faccio un lungo giro a piedi tra le baracche, mi sembra più opportuno chiamarle in questo modo, per cogliere ancora qualche frammento di vita, per cercare di capire quanto sia adattabile la specie umana. Poi il mio tuk tuk riprende la via del ritorno. Ci fermiamo ad un banchetto che vende riso e cocco, cotto dentro a grosse canne di bambù. Ormai l’intestino si è placato oppure si è piano piano abituato. A tutto ci si abitua, anche condizioni impossibili possono diventare vita quotidiana, assoluta normalità. Al ritorno, liquido il mio driver dopo quattro giorni, con una generosa mancia, più dello sconto che mi aveva fatto dopo una estenuante trattativa. Dappima non capisce, poi mostra la sua soddisfazione Rado, sì come l’orologio, che ha appena preso la patente e spera al più presto di mollare il tuktuk e di passare ad un auto vera. Un progresso sociale che lo rende pieno di orgoglio e di speranza. A sera mi porta in centro a Pub Street, ma non vuole essere pagato, dice che gli porterò fortuna.
Lettere dalla Kampuchea 16: Solo nella foresta.
Oggi sarà una giornata lunga. Alle 5:00 la donnina della pensione Bun Nath, che io mi ostino a chiamare Bunpàt grazie al costo, mi ha preparato la consueta omelette col riso. Anche il proprietario, ancora assonnato, viene a salutarmi con grande calore. Guardo ancora la postazione internet free (4 PC con cuffie e Skype in una pensione da 13 $ a notte), le loro tastiere con appiccicati i caratteri cambogiani e i loro windows taroccati e poi salto sul costosissimo mezzo che ho dovuto procurarmi per questo lungo giro fuori dai sentieri battuti. Questo è uno degli svantaggi di muoversi da solo. Questa tour mi costerà quanto le quattro giornate precedenti, albergo compreso, un bel verdone da cento, ma anche se ho trattato alla morte come un cammello egiziano, non sono riuscito a scendere sotto questa cifra. L’autista è un ragazzotto dall’apparente età di dodici anni, con le unghie (di tutte le dita, non la consueta mignolesca) talmente lunghe, da sperare che non mi afferri il collo se non lo mancificherò, le mie giugulari ne sarebbero irrimediabilmente tranciate. Per ora la strada è buona e risale verso le foreste del nord, che a poco a poco diventano più fitte, gli alberi più alti, i bassi arbusti, più impenetrabili. I gruppi di capanne diventano più rari ai bordi della strada, circondati dal verde in piccole radure di terra rossa che una agricoltura primitiva tenta di strappare al bosco, secondo il devastante modo del taglia e brucia. Forse pochi sanno che i maggiori danni all’ecosistema forestale del mondo non lo hanno fatto le multinazionali del legno, ma i milioni di agricoltori primitivi che ancora oggi usano questa tecnica; ma questo è un lungo discorso che va ad inficiare tutta la religione del buon selvaggio che conosce e ama la natura e si guarda bene dal mettersi contro la Grande Madre Terra che conosce e rispetta. Nessuno, specialmente chi ci campa sopra, vuole ammettere che l’uomo è un parassita inquinatore del pianeta per il solo fatto di vivere e di esistere. Beng Mealea, la mia prima meta di oggi, è un grande complesso templare perso nella jungla, poco frequentato e di raro fascino. Il mio pulmino (che spreco, nove posti tutti per me solo) si ferma nel vicino villaggio che, di primo mattino è però, già sveglio ed in piena attività. Lo gnomo, privo probabilmente di corde vocali, mi indica un ponticello su uno stagno, che poi si rivela essere il grande fossato che circondava il tempio e si dispone alla cura delle sue mani, brandendo una grande limetta da unghie, dopo aver abbassoto lo schienale del mezzo. Passo il ponte e mi inoltro nel bosco. Un paio di cartelli all’ingresso, assicurano che gli Italiani hanno sminato con cura tutta l’area (speriamo abbiano lavorato bene; che curioso però, prima una ditta italiana ha guadagnato per vendere queste porcherie, poi il nostro stesso paese ha speso un sacco di soldi per andare a toglierle; misteri del commercio internazionale). Comunque mi tengo al centro del sentiero segnato, anche per le esigenze fisiologiche, come suggerisce la Lonely; meglio farsi trovare in una posizione imbarazzante che avere qualche sorpresa peggiore. Comunque non c’è un’anima viva. Poi tra grandi alberi slanciati dalla corteccia bianca e sfilacciata, un basso muro in rovina. Entro attraverso un varco, probabilmente un portale crollato e dopo poco il tempio emerge tra il verde fitto, soffocante. Tutte le costruzioni, basse e pesanti sono avvolte dalla jungla che ha lavorato a lungo, insinuando le sue radici maligne tra le pietre, sollevandole, indebolendone le strutture principale, tentando di vincere l’opera umana scalzandone le fondamenta, rivoltandone le pietre ad una ad una come fossero un gran mazzo di carte da mescolare e confondere. Ma non è stato così facile o per lo meno ci vorrà ancora un po’ di tempo per finire il lavoro. I muri perimetrali, anche se ricoperti di grandi tronchi sono ancora ben riconoscibili e le basse torri, anche se in apparente equilibrio instabile, puntano ancora orgogliosamente verso gli scampoli di cielo che si aprono tra la massa verde che si affanna cercando di ricoprire il tutto. (Frase fatta: E’ un posto magico). Rimango a lungo a godermi questa lotta muta, immobile solo in apparenza; intorno soltanto i suoni della foresta. Dopo un po’ una scultura grigia, rannicchiata alla base di uno stipite sembra muoversi, lentamente. Di fronte a situazioni inusuali, la mente dà risposte imprevedibili, fa apparire mostri in fondo ai laghi, muta animali in uomini. Mi avvicino con cautela. Non era pietra, ma un custode che mi guarda senza espressione, come l’Avatar di un viedeogioco. Senza parlare, fa un cenno e si avvia lungo il cornicione esterno. Lo seguo meccanicamente lungo un percorso quasi obbligato, arrampicandomi su cumuli di pietre crollate, di livello in livello, aumentando il grado di difficoltà. I cortili interni sono colmi di pietre crollate, qualche stupa ha ceduto definitivamente alle forze preponderanti del bosco, altri sembrano precariamente in bilico, pochi resistono con sereno orgoglio. Giriamo a lungo nell’interno del tempio, secondo un percorso apparentemente casuale, ma forse obbligato. Di tanto in tanto, il mio Vigilio si ferma, mi indica un portale un po’ nascosto, una statua che emrge a fatica tra le rovine, oppure semplicemente guarda uno scorcio, come colpito egli stesso, che qui ci vive, da questa bellezza straordinaria. Poi abbassa la testa e si riavvia. Non mi sono accorto, ma sono già passate due ore quando ci ritroviamo ad un altro varco del muro di cinta. Lui si ferma, è arrivato ai confini del suo mondo e mi libera, previa mancetta, per lasciarmi tornare nel mio. Giro un po’ nel villaggio; c’è una piccola scuola gremita di ragazzini che si scopre essere un orfanotrofio. Vorrei entrare a dare un’occhiata, ma una americanotta tarchiata all’ingresso, mi fa capire che non è ‘ccosa, anche se i ragazzi, dal cortile, mi salutavano con gran vigore. Così torno a risvegliare il mio Caronte unghiuto. Altre due ore per una cinquantina di chilometri per raggiungere un sito ancora più selvatico. Koh Ker, l’antica capitale abbandonata da oltre mille anni nelle foreste del nord. Su un’area di 30 chilometri quadrati rimangono una quarantina di templi ancora incredibilmente ben conservati. Per ogni piccolo quadrante un rassicurante cartello che indica il paese che ha partecipato allo sminamento, questa era una delle aree più ricche di questi deliziosi oggetti. Non sto più a tediarvi sul fascino di queste costruzioni, nascoste tra gli alberi, ognuna da ricercare nel bosco tra le radure con qualche capanna qua e là. Nel tempio più grande, una immensa piramide grigia, incontro diversi bambini che tornano da scuola con una gran voglia di famigliarizzare col naso lungo. Faccio la consueta distribuzione di biro, sempre apprezzatissime, ricordatevene, quando andate in questi luoghi, e percorro chilometri a piedi. Anche il caldo sembra mordere meno o forse sarà la magia del posto che non lo f sentire. Comunque andarsene è difficile, ma mancano ancora un paio di orette per arrivare a Stoung, la mia meta di questa sera, dove mi aspettano gli amici, che hanno quasi finito il loro lavoro all’acquedotto locale. Altro che sognare nella jungla. Lì c’è gente che ha sete, qui invece si chiacchiera soltanto. Un po’ mi sento in colpa, ma quando arrivo alla Guesthouse Sokimec, davanti al distributore, sono talmente stanco che neanche mi accorgo che non c’è ancora corrente e le pale del ventilatore cominceranno a girare, forse, tra un paio d’ore. Non ‘c’è neanche il lavandino, né lo sciacquone, anche se hanno appena montato una tazza nuova di pacca, ma la casserola di plastica dentro al secchiellone pieno funge benissimo e poi per 4 dollari a notte cosa pretendi.
Lettere dalla Kampuchea 17: Coccodrilli a colazione.
Stoung è solo un piccolo paese sulla strada per Phnom Penh, la Lonely neanche lo nomina. Uno slargo sulla nazionale, un distributore di benzina, la guesthose di fronte e una serie di piccole strade laterali che si perdono nella campagna tra le risaie. Il fiumiciattolo che scorre di fianco, lo Stoung appunto, è ridotto ad un rigagnolo e pescarci l’acqua da trattare con l’acquedotto, è diventato un problema. Nella cittadina un po’ di attività, che vanno dagli allevamenti di coccodrilli di cui si può gustare lo spezzatino in molti locali, ad un piccolo imbottigliatore di acqua, il mercato, una piazza dove ieri sera si proiettava un film all’aperto con un improvvisato schermo fatto con un grande lenzuolo, una storia d’amore tra le risaie. Qualche bancarella con i palloncini da rompere con le freccette per vincere un pelouche o una scatola di biscotti, una festa di paese come tante, in tante parti del mondo. Dalla terrazza, la vita ti scorre sotto già la mattina presto. Proprio davanti alla fermata degli autobus una donna ha aperto un tavolino. Ha due grandi contenitori, uno pieno di noodles, l’ altro di una broda dove galleggiano frammenti di difficile riconoscimento e verdure varie. La gente si avvicina, lei prende un piatto di metallo smaltato, lo passa in un secchiello pieno di acqua lurida per sciacquarlo, poi con una mano afferra una manciata di noodles, li ricopre con una mestolata di di brodo e li serve in mano ai clienti con un paio di bacchette prese da un mazzo che spunta da un bicchierone di latta. I clienti si siedono su una panca di fianco e in pochi minuti si pappano la colazione e restituiscono le stoviglie con qualche centinaio di Riel. La donna ripassa il tutto nel secchiello e le rimette tra quelle pulite. In mezz’ora ha servito almeno una trentina di persone, un’attività commerciale assolutamente redditizia. Nel paese infatti c’è movimento, girano soldini, il mercato è colmo di merci, dappertutto pubblicità di telefonini, il prodotto più ambito. I miei amici hanno lavorato qui per una settimana, è stato fatto qualche arginello a valle per garantire un po’ di acqua fino all’arrivo del monsone e adesso che l’acquedotto è stato dotato di un sistema automatico di clorazione ed è stata fatta l’istruzione al personale, tutto funziona bene e si prevede che gli allacciamenti aumenteranno in maniera consistente. E’ passato qualche anno da quando è entrato in funzione e il drastico calo dei problemi legati a malattie gastroenteriche è un segno molto rassicurante. Però il progetto per un terzo acquedotto è fermo, mancano i fondi per adesso, la Comuntà Europea per il momento ha altro a cui pensare e non si sa quando si potrà parlarne in termini concreti. Per il momento ci si contenta di questi piccoli interventi, per farlo funzionare meglio in modo che dia qualche reddito da poter reinvestire nell’impresa. Non è male vedere che quando qualcuno chiacchiera poco, ma ha buona volontà di fare, le cose funzionano. Anche perchè quando le cose vanno avanti, comincia a girare un volano positivo che coinvolge un po’ tutto. Noi ce ne torneremo oggi nella capitale, ancora un paio di giorni e finirà anche questo mio per corso. Siamo qui ad aspettare il pulmann che purtroppo non si fermerà a Skun, lungo la strada, dove la specialità sono gli enormi ragni pelosi, che vengono serviti fritti in grandi canestri, dicono gustosissimi; all’autogrill troveremmo solo grilli in composta e uccellini appena schiusi glassati, ma sono specialità per amatori, io mi sono già riempito a colazione con la famosa omelette di cipolle, vanto della guesthouse Sokimek. Mentre trascinavo il mio valigione verso l’uscita, per poco non calpestavo due topini che correvano verso la cucina, ma erano decisamente lenti per essere topi, ho guardato meglio e mi sono tranquillizzato, erano solo due blatte, marroni e carnose, un po’ grosse davvero però.
Lettere dalla Kampuchea 18: Cavoli nordcoreani.
Eccoci tornati alla base, con la fretta degli ultimi giorni prima della partenza. La furia di aver dimenticato qualcosa, la frenesia degli ultimi acquisti ai mercatini, il rammarico di quanto non si è riuscito comunque a vedere, a partire dai ragni di Skun, e per non aver programmato qualche giorno in più, la sottile malinconia di lasciare i nuovi amici appena conosciuti. Così si va per un’ultima cena d’addio al ristorante Nord Coreano, una chicca da non perdere. Infatti, pare che questo paese, un po’ chiacchierato abbia pensato bene di fare una operazione di immagine, aprendo questo ristorante dove viene servito un menù tipico, circondati da tutte le bellezze del paese. Una gigantografia del monte innevato più alto della Nord Corea campeggia sul fondo e una serie di cameriere veline, volteggia qua e là con grazia orientale. I clienti sono tutti Coreani del sud, in giro per affari che affollano rumososamente i molti tavoli dell’ampia sala. Il re del pasto è il famigerato kimchi, ovvero il cavolo fermentato, che accompagna tutti i piatti tipici del paese; Pare che sia un ottimo disinfettante naturale per lo stomaco, che fornisca vitamine e sali minerali in abbondanza e che prevenga il cancro, quindi kimchi a gogo. Abbiamo poi avuto germogli di soia e verdure, deliziosi agnolotti fritti, un bel pescione grigliato con patate e melanzane e gran finale con un pollo talmente carico di peperoncino da far gonfiare le mucose tenerelle degli occidentali disabituati. Intanto le tenere camerierine, che le malelingue dicono esser tenute strettamente segregate all’interno dell’albergo, scelte accuratamente dopo lunghe selezioni, per avvenenza e fedeltà al regime, cessano la loro funzione di amabili servitrici e salgono sul palco per esibirsi in uno spettacolino di musica e karaoke apprezzatissimo dai presenti. Pensate dunque alla mia sorpresa quando quattro sorridenti e gioiose fanciulle cominciano ad intonare un assolutamente inatteso Happy birthday dear Enrico, tra gli applausi che il folto pubblico, con gli occhi, che fiumi di birra e vino di riso avevano ormai ridotto a fessure indistinguibili, rivolti verso di me, mi indirizzava con calore. Gli amici, dispiaciuti che avessi passato il mio genetliaco solo e disperso tra le jungle del nord, hanno pensato di farmi questa improvvisata che un po’, devo dire, mi ha commosso. Lo spettacolo è poi proseguito fino al gran finale in cui si inneggia alle bellezze del paese e si rimarca il fatto che la nazione è una e una sola, mostrando a tutti il dito indice alto verso il cielo. Seratina deliziosa. Cerco così di vincere l’affanno immotivato dell’ultimo giorno. Si passa qualche ora sul lungo fiume, dove il Tomle Sap incontra il Mekong, per diventare un immenso mare ancora prima di cominciare il delta. Qui la vita scorre serena, i venditori di cibi di strada passeggiano tranquilli; vicino, piccoli templi dove signore ben vestite pregano e offrono bastoncini di incenso, prima di andare da un ragazzino accoccolato con una grande gabbia stipata di uccellini. Per una piccola mancia se ne prendono uno tra le mani, rivolgono gli occhi al cielo e poi lo lasciano andare, donandogli la libertà. Un tenera illusione, certo anche loro sapranno che i volatili, addestrati, torneranno presto dal loro carceriere, in una sindrome di Stoccolma animalesca, ma questa illusione di liberare un’ anima, ha comunque un prezzo e forse risponde ad un bisogno interiore he non è necessario giudicare. Un ultimo salto alla collina del Wat Phnom, il tempio della città, nel cui giardino, una gran folla si raduna a vedere spettacoli, a sentire musica, a giocare al tradizionale volano coi piedi e dove molti vanno a pregare. La cima della collina è dominata dall’alto stupa bianco e seduto sotto gli alberi, respiri l’ultima aria di Phnom Penh, circondato da monaci arancioni, che ti paiono così giovani, così concentrati, così assorti nella loro meditazione, da non accorgerti quasi che la maggior parte di loro sta muovendo velocemente i pollici per digitare SMS sui cellulari che tengono distrattamente, anche se discretamente, appoggiati tra le pieghe dei grandi mantelli arancioni.
Cambogia: Istruzioni per l’uso.
Adesso è ora di finirla con questa Cambogia. Ho visto che una parte preponderante dei miei amorevoli lettori si sono stufati e aspettano ansiosi che io cambi argomento. Intanto quello che mi ha dato questo viaggio, quello che questa mente, ottusa dal tempo, è riuscita a recepire, quello che ha creduto di capire, rimarrà dentro di me, non dico per sempre perchè le sinapsi si fanno via via più lasche, ma certe sensazioni mutano indelebilmente qualche cosa dentro e alla fine non sei più lo stesso di prima. Inoltre molte cose che sono state avvertite magari come poco importanti o trascurabili, lavorano all’interno, indipendentemente dalla tuo stato cosciente e alla fine qualcosa producono. Quindi lasciamole lavorare in pace. Però mi corre l’obbligo, alla fine del racconto delle sensazioni, delle nuances e degli stati d’animo, di dare una serie di indicazioni pratiche per coloro che, istigati da quanto ho detto, fossero colti dalla voglia di ripercorrere i miei itinerari. Dunque ecco qualche consiglio generico, ma credo utile. 1. Periodo di viaggio. Se decidete come me, per aprile (parte finale del periodo secco) sappiate che è certamente il periodo peggiore in assoluto, quindi caldo disumano e perdita delle vedute più caratteristiche (e forse più belle) del paese, l’immensa distesa delle risaie verdeggianti e obbligo di vedere le zone degli abitatori delle acque nel periodo di secca, ma di contro avrete il vantaggio di non essere costantemente nel fango e sotto l’acqua (tra maggio e settembre), mentre se sceglierete il periodo migliore (ottobre-febbraio) sarete sommersi da una folla di turisti che vi faranno sembrare Angkor Wat una piazza San Pietro il giorno della Messa del Papa. Vi assicuro che vedere alcuni templi in solitudine è cosa assolutamente straordinaria. Inoltre non avrete mai problemi di prenotazione. 2. Trasporti e spostamenti. In città il tuktuk è il mezzo perfetto in assoluto (trattare sempre il prezzo) mentre tra città e città il metodo migliore sono le molte compagnie di pulmann, confortevoli, frequenti, puntuali ed economiche i cui biglietti si possono avere anche presso l’albergo in cui starete.Utilizzare i trasporti in barca solo per fine turistico.
3. Comunicazioni. Qualunque alberghetto, anche nei posti più sperduti, offre postazione internet gratis con cuffie e Skype. Al limite acquistare una SIM locale a 7 $. Ricaricando 10 $ si fanno una decina di telefonate in Italia.
4. Pernottamenti. Ce n’è per tutte le tasche, ma se non avete esigenze eccessive, il costo di una miriade di guest houses con uno standard accettabilissimo (A.C, doccia e acqua calda) va dai 10 ai 20 $. (trattare anche qui il prezzo). Potrete anche farvele prenotare da quella precedente. A titolo di esempio segnalo Hotel Star in centro, nuovo, molto bello, camera a 15 $. 5. Cibo. Cucina locale valida e non aggressiva, nei luoghi turistici contaminata da quella occidentale, quindi senza problemi. Solite precauzioni gastroenteriche (che io non rispetto mai e alla fine pago pegno). I ristoranti già belli vi sfameranno con 5$, a 10$ siamo già nell’elegante. Segnalo, ma solo come esempio. A Battambang – Geco Cafè, in centro (piatti unici sui 4$). A Siem Reap – La tigre de papier in Pub street (ma anche molti altri locali della via) piatti internazionali e khmer attorno ai 4 $, pizza ottima, birra alla spina 0,50$. A Phnom Penh – Khmer Suri, molto elegante (amok di pesce, germogli e vegetables, costine alla griglia super, pollo all’anacardo, spring roll e frutta + bevande per 4 persone a 32$ totali, in un ambiente molto gradevole. – Jakob’s Well – cucina khmer e internazionale, stessi costi, dove contribuirete anche a una buona causa in quanto gestito da una associazione per la protezione dei bambini. Non fate follie per non perdere la Happy Herb’s Pizza, si tratta certo di fogliette di marjuana come topping, ma in pratica è come se fosse rucola.
6. Mercati. Trattate su qualunque cosa anche se si dichiara un prezzo apparentemente fisso. Al mercato Russo di Phnom Penh trattare attorno al 50%, negli altri attorno al 30% della richiesta iniziale. Ricordate che lo stesso prodotto è sempre presente da molte parti e una trattativa non conclusa vi farà capire che quel prezzo è troppo basso, così potrete regolarvi in quella successiva per lo stesso oggetto. Il venditore sa qual’è il prezzo minimo a cui può scendere, voi no e dovete scoprirlo. Eheheheeh, fa parte del divertimento.
7. Posti top imperdibili (tra quelli che ho visto). Angkor Wat, Bayon, Ta Phrom, Benteay Srey, Bang Mealea tra i templi. Museo Tuol Sleng. Un villaggio della gente delle palafitte. Il lago Tonle Sap. Phnom Banan e Phnom Sampeau a Battambang. I mercatini nei piccoli paesi. Cercate di imbucarvi in qualche matrimonio, ne troverete parecchi lungo la strada, si riconoscono dai tendoni arancioni.
8. Sicurezza Nessun problema particolare in tutti i posti e a qualunque ora, totale assenza di pericoli vari, le grane solo per quelli che se le vanno a cercare (tranne le ovvie cautele da usare in tutto il mondo).
Ma soprattutto: lasciarsi andare al ritmo del paese. E buon viaggio.