Le satanesse dell’Himalaya
Sappiamo tutto del Bhutan, dei pastori che transumavano tra le vallate e i pascoli alpini estivi, dei tibetani buddhisti che, perseguitati dagli animisti Bon o da sette rivali, vi cercarono a più riprese rifugio oltre mille anni fa, di un medioevo sprecato dai feudatari locali in inconcludenti lotte per la supremazia. Sappiamo del coraggio e del carisma dei lama profughi che, grazie alla forza della dottrina, iniziarono ad aggregare il paese. Ed è proprio la matrice religiosa che si percepisce, fortissima, alla radice della vita in queste montagne dai crinali incrociati fitti fitti, come in un gioco di shanghai. Ma quella che si sente non è la voce di Siddharta Gautama che, raggiunta l’illuminazione, individua nella compassione per tutte le creature e nella consapevolezza dell’esito delle proprie azioni la via per uscire dal samsara, il ciclo delle rinascite, per raggiungere il nirvana, la liberazione. No: per gli umani è assai più facile essere cani e sottomessi piuttosto che padroni ma responsabili. E così eccolo agli onori degli altari, non esempio da imitare ma statua dorata a cui ricorrere: lui, Guru Rimpoche e altri venerabili come Chenresig, il bodhisattva della compassione, e Zhabdrung, il padre della patria, contornati da una miriade di beati affrescati sui muri dei santuari in un arcobaleno di colori: chi seduto a meditare, chi intento a suonare il dranmryen, il tradizionale liuto dal lungo manico, chi avvolto da una poderosa fiammata riccioluta con l’aspetto terribile del cacciatore di demonesse, chi, dalla carnagione celeste per essere un essere celeste, con mille braccia armate per sconfiggere le minacce spirituali e mille gambe per calpestare gli avversari in carne ed ossa. La paletta vivissima movimenta un’iconografia ricca di influenze – Tibet, Nepal, India, Cina – e il disegno, sempre accurato, si fa occasionalmente squisito, devoto, come nel cavernoso Dumtse Lhakhang, un piccolo tempio ai lati di una strada campestre di Paro. Intento a far girare il suo mulino di preghiera, il grosso monaco di guardia siede sul prato, bofonchiando un rosario di plastica. All’interno, la luce dei nostri telefonini strappa per un attimo all’oscurità scene di semidèi e di spiriti maligni, di estasi e di lotte: è una biblia pauperum, quella illustrata su quei vecchi, spessi muri, la mitologia d’un mondo trascendente che è il volto invisibile delle tranquille risaie delle valli e dei pittoreschi terrazzamenti che le spighe dipingono dei toni d’un fresco verde fino a reclinarsi, cariche e mature, in un letto d’ocra pallido. All’altro estremo di Paro uno dei più bei templi del Bhutan, il Kyichu Lhakhang, costruito per inchiodare il piede sinistro di una satanessa, è in festa. La mantovana gialla che s’agita gaia dall’orlo del tetto annuncia che è un giorno speciale: lo dzong (monastero) viene ridedicato dopo un importante restauro. Sotto lo sguardo attento dei fedeli, la processione dei prelati, ciascuno nello sgargiante paramento del proprio rango, sosta davanti all’accesso di ogni lato del tempio, offrendo preghiere e musiche ai custodi dei quattro punti cardinali. E’ un radicamento al territorio inconsueto per noi ma che si avverte salutare, indice d’una consapevolezza del proprio posto in un universo al quale si riconosce una logica, una via e un destino. Lo stesso percorso viene ripetuto, attorno ad ogni tempio, da chi vive di tradizioni: vecchine ricurve e pii anziani che, per nulla intimoriti e a volte perfino lusingati dagli obiettivi di cui sono goloso oggetto, fanno girare le ruote di preghiera che contornano i monasteri per guadagnare meriti che torneranno loro utili a breve. Il ruscello sassoso che parallela la lunghezza dell’abitato ha scavato una conca riparata e le basse case di legno, pulite e in bell’ordine, son pronte per la promozione del paese a cittadina. In fin dei conti è Paro che ospita l’unico aeroporto internazionale.
Ma il punto d’accesso quasi obbligato per chi entra nel paese via terra è Phuentsholing. Oltre l’arco trionfale che annuncia l’entrata al mitico regno della felicità, la strada inizia subito a salire, il verde compatto delle pendici punteggiato dalle ragnatele delle coloratissime lung ta, bandiere di preghiera orizzontali che segnalano i chorten, candidi reliquiari a forma di campana che, forse, più che ricordare al seguace la vita ultramondana, gli ripetono i parametri dell’esistenza quaggiù. Candide darchor, bandiere di preghiera verticali, si agitano dai pali di bambù – 1, 8 o 108, osservando la numerologia buddhista della fortuna – piantati a terra da una famiglia in suffragio d’un congiunto o per santificare un luogo. Il sole d’ogni mattino legge, il vento d’ogni inverno sparge, la pioggia d’ogni monsone porge il loro messaggio alle labbra della terra. La presenza umana è marginale, quasi un ripensamento di queste scoscese montagne, fitte di alberi che ascoltano il cielo e perlustrate da strade che ansimano, tornante dopo stretto tornante, cercando una valle in cui acquietarsi. Intagliati su coste spesso franose, questi precari percorsi superano i valichi che dividono il Bhutan in tre fasce verticali, approssimativamente delimitate dai fiumi Sunkosh e Bumthang. Rari sono i viaggiatori che si spingono oltre il Bumthang, nel primitivo oriente del paese, che promette i piaceri di visite, non addomesticate ed in beata solitudine, a paesini che si nascondono lontano dalla strada, in aggiunta all’opportunità di incontrare etnie ancora intente ad attività tradizionali come la tessitura.
Una settimana è giusto sufficiente per un veloce giro dell’Ovest e del Centro, più ricchi di storia e di arte, per cogliere l’essenziale. Dopo il monsone estivo, i cieli sgombri, l’aria pulita e la temperatura gradevole invitano a partecipare ad un festival locale, ma per arrivare a Thangbi occorrono due giorni: raramente il tachimetro supera i 40 km/h, e spesso occorre fermarsi, incrociando altri veicoli, per contrattare i necessari centimetri. Non stupisce trovare il traffico bloccato da camion che, con grosse corde, tentano di tirar su un veicolo precipitato nel corso d’acqua che costeggia la strada. Reggerà l’albero designato suo malgrado a far da perno? Ma i conducenti sono esperti e riescono, il più delle volte, ad evitare di affossare una ruota nella cunetta o di precipitare nella scarpata.
Thangbi Goemba è a pochi chilometri da Jakar, e sin dall’alba decine di vetture ostruiscono l’accesso al tempio. Nei prati vicini, i nativi sciamano tra bancarelle di giocattoli e di vestiario, punti di ristoro improvvisati che servono i tradizionali momo (ravioli), tavoli dove si scommette su rudimentali roulette, teatrini un soldo e tre lanci per far cadere la piramide di bicchieri di latta, mini-tiro con l’arco e souvenir assortiti per stranieri. A sole alto, dal monastero esce, impettito e deciso, un drappello di monaci in pompa magna: è il momento del mewang, la remissione dei peccati. A due pagliai, vicini l’uno all’altro, viene appiccato il fuoco. Intorno, la folla in circolo attende irrequieta. In pochi secondi le fiamme divampano e un’umana mandria impazzita si getta nel varco tra le due pire in atto di purificazione. Infanti in braccio al genitore piangono impauriti, qualcuno s’alliscia i capelli bruciacchiati, soddisfatto delle indulgenze acquisite, altri si rimettono in fila per ripetere la bravata. Il perdono qui è semplice: per cancellare il male fatto, nemmeno c’è bisogno di confessarlo a qualcuno, perché anche questa, come le altre mille religioni che abbiamo inventato, con disarmante candore semplifica la vita della gente semplice proiettando all’esterno il nero che appanna dentro. Dopo la prova del fuoco, i dignitari del goemba (abbazia) di Thangbi rientrano. Turisti e locali si accalcano attorno allo spiazzo antistante e lo tsechu (festival) continua con una serie di cham (danze). L’officiante, nei suoi paramenti più magniloquenti, accompagna i movimenti roteanti delle coloratissime maschere con i rim (piatti), mentre la coppia di dung-chen, le lunghe trombe, punteggia occasionalmente le sequenze. Banale questione di panem et circenses per tante facce curiose e intente, ma gli intenditori riconoscono nelle movenze e nei personaggi l’eterna lotta tra bene e male e la drammatizzazione di miti religiosi.
Danze esistono anche di carattere laico, eseguite in gruppo, dai movimenti marziali o gentili: balli tribali, mitologici, beneaugurali ed esorcistici; in un bel costume bicolore in onore dell’aggraziata gru dal collo nero che, finita l’estate del Tibet, sverna in Bhutan; e con maschere d’animali o di demonesse per celebrare gesta epiche o numi locali. Se i giovani maschi buffoneggiano con arco e frecce durante il festival, squadre di arcieri più seri si sfidano in appositi campi, lunghi 140 metri, ricavati negli infrequenti tratti pianeggianti al lato delle strade. E’ lo sport nazionale, e la coreografia è simpatica: canti e balletti per un bersaglio colpito, altrimenti prese in giro e sghignazzi di derisione. E’ un altro dei mille dettagli con cui il Bhutan ha scelto di non omologarsi, capitalizzando sulla fedeltà alle proprie tradizioni, imponendo al tempo, se proprio vuol passare a queste altitudini, il dazio del rispetto per le architetture, la promessa di preservare lo stile di vita ancestrale, l’impegno di non turbare la gentilezza della gente e, soprattutto, l’obbligo di andare piano, non come da noi, dove carica gli anni sul groppone senza che nemmeno ce se ne accorga. Guida e conducente del gruppo, tra il ridicolo e il distinto nelle loro tuniche al ginocchio dai manicotti bianchi, sembrano officianti d’un qualche rito. E’ il governo ad imporre l’uso del costume tradizionale agli impiegati statali, e quando li si incontra, fuori orario, in jeans e maglietta, è come vedere il re nudo: moderno, alla moda, come noi. E, come noi, sradicato e omologato al dictum d’oltreoceano. E allora si comprende quanto la freccia del Bhutan abbia colpito il bersaglio, individuando la maggiore risorsa nella driglam namzha, nei valori e nell’etichetta tradizionali.
Questo non è lo Shangri-La, il Bhutan non è la terra promessa, e più ne si cerca l’essenza, più si ha l’impressione che qualcosa sfugga, che – sotto le mentite spoglie d’un paese contadino, arretrato e per buona parte ancora all’inizio della scalata alle vette dell’ingegno umano – il Bhutan stia giocando una partita astuta, piazzando con maestria gli assi che la natura e la storia gli hanno dato. Nel 1971, dopo tre anni come osservatore, il paese è entrato a far parte delle Nazioni Unite, ma forse nemmeno tre secoli basteranno perché entri a far parte dell’umanità, del consesso di individui, cioè, che nonostante razze ed estrazioni diverse, coabitano e collaborano. In questo pianeta sempre più piccolo, in cui cambiar continente è questione di ore, il Bhutan fa spallucce ai tempi biblici tra un villaggio e l’altro che fanno sembrare il paese vastissimo: nella rete globale in cui tutti si intercettano e comunicano, il Bhutan è determinato ad esistere senza farsi coinvolgere. Esserci o non esserci? Conviene sopportare i rovesci e gli strali d’un destino bizzoso o armarsi per sconfiggere l’esercito dei guai? Privo di altre risorse, il Bhutan risolve l’amletico dilemma giocando serafico le sue carte: vende energia idroelettrica all’India – e non c’è pericolo che ogni inverno non porti neve, e ogni monsone abbondanti piogge – e spreme i turisti, attratti dall’ordine, dalla pulizia, dal verde imperante, dagli ampi spazi non antropizzati e dalla cordialità del suo piccolo popolo (700.000 persone in 47.000 km2). Affascinati dalla fotogenicità dei suoi festival, stimolati dalla profondità delle sue tradizioni e intrigati dal suo distacco, attualmente son più di 116.000 – ed in costante aumento – le presenze che hanno acconsentito, in cambio del vitto, alloggio, trasporto e guida forniti dal governo, a sborsare i 250 US$ ufficialmente richiesti per ogni giorno di permanenza nel paese. Chi se ne risente vada a protestare da Lars Eric Lindblad, l’americano che nel 1974 guidò il primo gruppo di visitanti e suggerì alle autorità il contenimento del turismo e l’imposizione di tariffe salate. Nel 1774 George Bogle, capo della prima spedizione inglese, aveva trovato i bhutanesi “scrupolosamente affidabili”. Affidabili sì, ma non ingenui. Eccezione vien fatta per gli Indiani, che vengono a far visita ai parenti che in Bhutan hanno trovato un’occupazione – di solito tra le più umili – e sono quindi indipendenti nella scelta di percorsi, ristoranti e alberghi. D’altra parte, gli introiti di questo sistema servono una buona causa: sovvenzionano le scuole, da qualche decennio laiche e gratuite, e le opere pubbliche.
Al momento del suo insediamento, l’attuale giovane sovrano ha promesso di vegliare sui suoi sudditi come un padre, di affiancarli come un fratello e di servirli come un figlio. E quando è andato in viaggio di nozze a Bangkok ha talmente impressionato il gentil sesso da creare un flusso di speranzose dall’Oceano Indiano all’Himalaya alla ricerca d’un principe azzurro di alta montagna. Bravo e bello, dunque. E suo padre, che sorride nella foto ufficiale di famiglia nella Biblioteca Nazionale di Thimphu, la capitale, attorniato dalle quattro mogli (tutte sorelle – evidentemente equivocando il senso di “farsi una famiglia”), ha escogitato un singolare filtro ai cambiamenti: nessuna proposta, per redditizia che sia, verrà attuata che non aumenti la Felicità Interna Lorda del paese, assai più apprezzabile, a detta sua, del Prodotto Interno Lordo. Quali strumenti vengano usati per valutare l’effetto sul benessere umano dei giochi della partita doppia non è dato sapere, ma certo sarebbero più felici gli occupanti dell’anello di baracche che cinge la capitale se venisse loro offerta una sistemazione più degna, e gli studenti del National Institute for Zorig Chusum, la popolare scuola di arti applicate, se beneficiassero d’una maggiore igiene nel loro convitto e venissero loro impartiti corsi più diversificati. Al momento, ogni oggetto d’artigianato che vi si produce – dal metallo sbalzato alla terracotta, dal ricamo alla pittura, dal cucito alla scultura in legno – ha a che fare col buddhismo.
E’ proprio l’onnipervasività della religione e l’assenza di una dimensione laica a caratterizzare il Bhutan agli occhi d’un occidentale che, tutto sommato, non se la prende, essendo arrivato fin qui per trekking solitari su questi monti consacrati o per assistere a uno dei numerosi festival tenuti annualmente nei cortili dei monasteri. In queste occasioni vengono esposti giganteschi drappi, i thondrol (famosi quelli, enormi, degli dzong di Punakha e di Thimphu), con ricami e applique di scene sacre. I thangka, stendardi simili ma di modeste dimensioni, vengono usati per l’insegnamento del catechismo e per decorare l’interno dei templi. Almeno un ragazzo per ogni famiglia deve frequentare la scuola d’un monastero, dove non c’è l’aura di austerità e asceticità che ci aspetteremmo da un seminario, ma l’atmosfera regolata e sportiva d’un collegio. Sono le tre del pomeriggio, nello dzong di Trongsa il khar-nga, il gong, ha suonato l’adunata. Nella sala i ritardatari si affrettano, lasciano le infradito ai piedi dei gradini e prendono posto in due file affacciate. La salmodia, condotta da un anziano, pare non avere termine. A memoria o leggendo i fogli oblunghi, non rilegati, del messale, gli studenti rispondono. Poi, su un ampio tovagliolo candido disteso sulle gambe incrociate, da un pentolone a tutti viene scodellata una razione di riso bianco che mangeranno, com’è costume, con le mani. Per rispetto usciamo. Poco rispetto per il luogo che le ospita mostrano invece le litigiose scimmie, che si minacciano, soffiando e mostrando i denti, rincorrendosi rumorosamente per i tetti di lamiera degli uffici amministrativi ospitati nello dzong. Eppure è da qui, da questa fortezza abbarbicata sulla costa d’una gola, geograficamente al centro della nazione e strategicamente tappa obbligata del traffico merci, che hanno governato i primi due sovrani. E, per non rompere la catena, un futuro re deve essere stato penlop (governatore) di Trongsa prima di venire incoronato. A causa delle pendenze e dei diversi tempi di realizzazione dei vari corpi di fabbrica, lo dzong è un labirinto di saliscendi in cui è facile perdersi. Al contrario, quello massiccio di Paro, in posizione dominante e visibile da tutta la vallata, accoglie in spazi ampi e armonici. La utse (torre centrale) divide lo spazio interno in due dochey (cortili), il primo ingentilito dalle decorazioni in ocra, nero e oro delle travature, il secondo affrescato con animali mitici e una gigantesca Ruota della Vita, l’equivalente buddhista del Giudizio Universale, un monito che si trova un po’ dappertutto. Da questa fortezza più d’un’invasione tibetana è stata respinta e alcune scene del “Piccolo Buddha” di Bertolucci sono state filmate proprio qui. Alla sua presenza marziale fa da contrappunto lo dzong di Punakha, l’antica capitale, stupendo in primavera sotto le chiome lilla degli alberi di jacaranda del cortile che s’affaccia sulla sponda di Po Chhu, il Fiume Padre, che s’unisce, proprio lì, a Mo Chhu, il Fiume Madre. Le 54 massicce colonne della sala da preghiera principale impongono subitaneo silenzio e il rosso e l’oro degli straordinari dipinti alle pareti affermano un potere materiale prima che spirituale. Di solo spirito vive invece il famosissimo Taktshang Goemba, aggrappato improbabilmente ad una parete verticale sopra la valle di Paro. Là è dove Guru Rimpoche atterrò sulla sua tigre volante e in quegli anfratti meditò per tre mesi lasciando l’impronta del proprio corpo e sconfiggendo il demone locale. I cavalli all’inizio della salita possono dimezzare la fatica, ma non sono in grado di superare i ripidi saliscendi dell’ultimo tratto. Se gli approvvigionamenti per i monaci non sono paracadutati da un elicottero, sicuramente vengono ancora recapitati dalla tigre del Guru. Nelle minuscole cappelle, sopra i lumini e le onnipresenti offerte floreali multicolori in pasta di burro, la santissima trinità di Sakyamuni, Rimpoche e Chenresig sembra particolarmente a proprio agio, così vicina al paradiso, mentre noi, imprigionati in un corpo talmente insignificante davanti allo strapiombo, al cielo e alla santità, prendiamo dolorosamente coscienza delle nostre miserie.
Ma c’è una terza via e, tagliando per i campi di riso, pellegriniamo al tempio di Drukpa Kunley. A differenza di Milarepa che insegnava solo con poesia e canto, questo santo folle aveva in repertorio anche balli, bevute, bouffe di sesso e brio assortito. Drukpa faceva uso generoso del suo fallo per combattere le dèmoni, convertire le donne al buddhismo e farsi gioco della religione istituzionalizzata. Vagabondo, estroso, critico feroce delle consuetudini, lucidissimo e geniale, praticava il buddhismo a suo modo, deridendo la divisione tra bene e male, nulla rifiutando della gabbia universale di specchi e di illusioni, e predicando che tutto è vuoto – concetti che, un secolo dopo, Shakespeare avrebbe presentato all’occidente. E’ grazie a quell’illuminato eccentrico che sui muri delle case si disegnano, con intento apotropaico, monumentali falli – artisticamente e con deferenza, non per maleducazione come da noi. Abbelliscono le facciate anche tigri, fenici e quattro animali mitologicamente amici: elefante, scimmia, coniglio e uccello. L’architettura bhutanese, coi suoi muri a calce e i tetti poco inclinati, le finestre seriali, le decorazioni eleganti, si presenta composta, piacevole e mai invadente nei confronti del territorio. Questa è una terra che può vantare la presenza umana come un fiore all’occhiello, un accessorio di bellezza, senza correre il rischio di venirne sfigurata. L’umiltà della vita che si vive in questi ambienti di mattoni o di legno è perennemente illuminata dallo straordinario immaginario buddhista. E le diavolesse, irrequiete, infernali creature che terrorizzavano il popolo e ostacolavano coi terremoti la costruzione degli dzong, sono state soggiogate da secoli dai tanti santi che hanno bonificato la regione coi loro poteri ultraterreni e dai 108 templi contemporaneamente edificati dal sovrano tibetano Songtsen Gampo nell’anno 659. Esiste una carta geografica (http://4.bp.blogspot.com/_bxFLGJfxdbk/S-uhzjZA-WI/AAAAAAAABCQ/LfbNgoJu8dM/s1600/59b7e431af2e0a8e3d8cc43e06368234.jpg.jpeg) che mostra una satanessa che si estende sotto il Tibet centrale e i templi che ne paralizzano le membra, neutralizzandola. Guru Rimpoche e le sue otto scenografiche manifestazioni, che hanno fattivamente contribuito a rendere il Bhutan abitabile, affollano ogni sancta sanctorum. Altrove, sull’altare campeggiano Mahakachyapa, il buddha del passato, che chiude la porta sul trascorso, Shakyamuni, il buddha del presente, che guida all’illuminazione e Maitreya, il buddha del futuro, che attende che al Jampey Lhakhang, costruito per immobilizzare il ginocchio sinistro della dèmone, il secondo scalino, quello relativo al tempo attuale, sprofondi, come s’è interrato quello del tempo passato, e gli dei diventino uomini nel nuovo mondo che verrà. Le feste si rincorrono di stagione in stagione da dzong a lhakhang (santuario), presiedute da cerimonieri in tiara e dignitari in copricapi degni di Sarastro. E, se non bastasse, Padma Lingpa e gli altri tertons, venerati scopritori di tesori, hanno divulgato tutta la saggezza dei terma –scritture e oggetti di culto – nascosti dai guru sul fondo dei laghi per esser rivelati al momento opportuno. Le preghiere delle bandiere hanno creato un universo magico, un tesoro da scoprire alle pendici dell’Himalaya in un paese che, stretto com’è tra due giganti, quasi non si vede. Il Bhutan, come tutte le bellezze, si concede fissando prezzo e condizioni, ma sa che, se non c’è felicità dentro, a nulla serve che la via sia lastricata di diamanti. Pace, gioia, serenità? In Bhutan sono nell’aria che si respira.