Le mail ai miei amici dall’India, 1 parte
JAIPUR La cosa piu’ difficile da trovare in India e’ per ora di certo la solitudine.
(Nella pratica resta invariabilmente attraversare la strada) Mi segue per quasi un chilometro volendo a tutti i costi regalarmi una marionetta, che sospettosamente continuo a rifiutare.
Tra l’altro faccio bene perche’ la sera stessa cerca di regalarmene una pure un gitano.Non ho nulla contro i gitani ovviamente, ma se due persone diverse, nello stesso giorno, cercano di regalarti una marionetta, qualche sospeto di sola ti viene per forza.
Oltretutto, io detesto le marionette.
Non riesco comunque a liberarmene, mi sta accanto con questo cazzo di marionetta gialla in mano.
E’ uno di quei momenti, alla fine della giornata, in cui l’India ti sta sulle spalle tutta intera, e inconsciamente riesci soltanto a pensare: “se potessi avere i piedi puliti, uno smoking e una mitragliatrice…” Ma anche questo fa parte del tutto, e col tempo del tutto non sara’ che un riflesso.
Tornando a piedi alla guesthouse, a chiunque mi avvicini riesco soltanto a dire tre parole: I need silence.
La prossima volta che qualcuno mi fara’ la fatidica domanda: se non c’e’ un dio, allora chi ha creato te, le montagne e la frutta? rispondero’ che per le montagne e la frutta non so, ma per quel che riguarda mi ha creato mia madre, e lei l’ha creata sua madre, mia nonna, e mia nonna mia bisnonna, e cosi’ via in un tempo infinito all’indietro.
E la prima donna non l’ha creata nessuno, perche’ le donne ci sono sempre state.
TEMPLE OF THE SUN GOD, MONKEY VALLEY Mi siedo poco prima del tempio, a fumare una sigaretta circondato dalle scimmie e dai loro cuccioli.
Poi salgo l’ultima parte del sentiero ed entro nel tempio dedicato al dio del sole.
Vengo accolto da un giovane indiano a cui non riesco in nessun modo ad impedire di farmi il segno rosso col pollice sulla fronte.
Mi dice di chiamarsi “rompipalle”.La cosa mi fa piuttosto ridere, ma ugualmente gli dico che sono in cerca di solitudine.
Mi balza davanti urlando “i’m the killer of your loneliness!” E’ una frase cosi’ geniale che mi conquista all’istante.
(piu’ tardi mi stupira’ancora, quando per chiedermi una sigaretta dira’ :”can I share your cancer?” Ci sediamo su una roccia e mi fa assaggiare un frutto che non conosco, all’apparenza ruvido ma con una polpa bianca e liscia, fresca come una mela.
Mi racconta della sua vita con le scimmie, e mi indica la montagna di fronte, zona protetta, dove ora vanno allegramente a spasso quattro cuccioli di leopardo.
Seguendo il suo consiglio, seguo l’altro sentiero, fino ad un complesso di piccoli templi che fanno da cornice a un lago artificiale.
E’ un luogo meraviglioso e di pace, dove bambini fanno eslpodere fuochi artificiali e uomini e donne si bagnano nell’acqua, o lasciano offerte votive sotto forma di cesti di frutta.
Due ragazze mi sorridono, ridendo probabilmente del segno che ancora porto sulla fronte, e mi fanno cenno di scendere per unirmi ai pellegrini.
Ma non vado, sono solo un turista in un posto sacro, dove uomini a torso nudo affondano nell’acqua fino alla vita reggendo in mano bastoncini d’incenso.Non e’ il posto mio.
Mai come in India forse, dove gli dei sono cosi’ tanti e sono cosi’ presenti, io mi sono sentito senza un dio.
O forse sono solo terrorizzato dal sorriso di due ragazze indiane.
Tornando verso la citta’, attraverso il sentiero di roccia ai cui lati siedono famiglie con bambini nati direttamente da una tempesta di sole e di sabbia, che mi salutano e mi stringono la mano, guardandomi come un alieno.
Poco piu’ avanti, disposte su due file, un centinaio di persone stanno sedute per terra mentre viene loro servito un thali su foglie di banano.
Attraverso questa mensa di comunione lentamente, come se stessi facendo un salto della fede indossando stivali da atronauta.
Quando rientro nel traffico delirante di Jaipur, cammino sulle acque, e quasi senza accorgermene sto canticchiando una canzone dei Beatles.
PUSHKAR Ora sto a Pushkar, per la Camel Fair.
20000 cammelli, una visione a tratti stupefacente.
Al contrario delle giraffe, comunque, i cammelli non sembrano nasconderci nulla.
E’ un luogo sacro, piccolo e tutto attorno al lago, molto turistico.
E’ qui infatti che vedo i primi occidentali vestiti da indiano, (massimo rispetto anche per loro, ma devo ammettere che quando vedo qualcuno che lascia la sua cultura per abbracciarne cosi’ totalmente un’altra, non so perfche’ mi torna sempre in mente lo scritto di Emma Goldman: patriotism: a menace to liberty.) C’e’qualcosa di greco nelle strade principali, dove le librerie vendono kerouac e la vita di Milarepa e si sente Bob Marley uscire dagli stereo dei ristoranti.
Ammetto quindi di aver comprato dell’incenso e un chiloom, e di fermarmi qui qualche giorno.
Ma il lago e’ davvero magnifico, ci arrivo la prima volta che il sole e’ gia’ quasi tramontato.Ancora mi ricorda la Grecia.La Grecia antica, se avessero avuto l’elettricita’ e le luci ad intermittenza.
Pipistrelli giganti volano ad angolo sopra di me (non e’ un delirio, ci sono davvero).
E’ qui e adesso in fondo, davanti all’acqua che diventa scura, mentre stento a credere dove sono e cerco forse di capire quale sia il mio posto, che oggi 22 novembre 2001, compio 35 anni.
P.S.:oggi mi sono pesato per strada.76 chili.Alla partenza ne pesavo circa 85.
Vado quindi ad ingozzarmi di chapati e a provare il mio primo lassi bhang.
——————————- 28.11.2001 DISCLAIMER: se non vuoi piu’ ricevere queste mail, fai 8 giri del tuo isolato e poi replica a questo messaggio con unsubscribe nel subject.
Verso sera, sto da un sarto a farmi rifare il colletto della camicia.
Scambio nell’attesa quattro chiacchiere con un sosia belga di Bettone, che gira per Pushkar in bicicletta.
Prima di andarsene mi da’ un biglietto informativo sul Joshua Project.
Bambini di Pushkar, invece che sniffare solvente, mendicare e diventare belve di strada, hanno ora un posto dove stare, cucinare, e imparano la matematica e a leggere e a scrivere.
Il biglietto del belga dice che il Joshua Project ha una tenda all’interno della Camel fair.
Ci vado il mattino dopo, dopo un chai e un paio di Wills.
E’ una piccola tenda in mezzo alle altre, dove dei bambini colorano disegni, c’e’ un cartello con l’alfabeto hindi e uno con quello inglese (l’alfabeto latino ha piu’ o meno 26 lettere, quello hindi 36).
E’ li’ che quel giorno indiano disegno cavalli, elefanti e cammelli per i bambini di Pushkar.
Senza mettere la coscienza a posto ne’ lacrimare di coccodrillo, solo segno, puro, in una tenda piantata nella sabbia.
(con gli animali me la sono cavata abbastanza bene, ma ho dovuto declinare quando un microbambino mi ha chiesto di disegnarli Lord Rama.
La mia iconografia di dei hindu si limita per ora a Ganesha e a Krishna col suo flauto) A questo proposito, ho scoperto che l’induismo (sono sempre stato ignorante) non e’ in fin dei conti una religione politeista.
Tutti gli hindu, per farla breve, credono in Brahman, il dio unico, senza forma e senza attributi, di cui l’universo e tutti gli dei non sono che manifestazioni.
Anche la famosa trimurti, Brahma, Shiva e Vishnu, non sono che manifestazioni di Brahaman.
E’ una religione che lascia quindi una libera scelta di adorazione del dio che sentiamo piu’ vicino perche’ tanto non e’ che una manifestazione del dio unico.
Detto questo, e ribadendo il fatto che ho il massimo rispetto per tutte le religioni, le credenze, gli usi, i costumi, i modi di tutti, e che rispetto profondamente l’induismo se non altro perche’ al contrario del cattolicesimo non e’ una religione il cui compito sia fare proseliti, mi viene spontaneo: ma come cazzo si fa a credere ed adorare un dio elefante che cavalca un topo? Allora e’ tutto vero.
Anzi, e’ vero tutto.
(“niente e’ vero, tutto e’ permesso.”, diceva Burroughs) E’ vero pure che i filippini possono togliermi il cuore senza tagliarmi, sono vere le madonne che piangono sangue nelle case dei contadini, e’ vero che ho sei braccia e che sono stato sposato 3 volte.
Allora e’ vero tutto.
E forse quindi, niente e’ permesso.
UDAIPUR Ad Udaipur hanno girato 007:missione Octopussy.
Per questo, praticamente ogni locale proietta il film in continuazione.
Stento a credere che qualche dio possa davvero averci creato a sua immagine e somiglianza.
Ma La citta’ e’ meravigliosa, e sembra uscire da un quadro di Turner.
Mi fa diventare melenso e dire che e’ una perla, un gioiello, un posto d’incanto.
E al tramonto, con gli uccelli neri immobili al largo, le ultime barche che tornano dalle due isole in mezzo al lago, i colori che cambiano fino a far diventare tutto di un bianco che solo qui ho visto, e’ una delle poche volte che mi e’ sembrato di avere avuto la fortuna di vedere della vera luce.
Mi chiedo se il sogno delle mucche del resto del mondo sia scappare in India.
Se ne conoscano l’esistenza.
Se L’India sia per caso un segreto che le mucche piu anziane tramandano ai cuccioli di generazione in generazione.
Quando al crepuscolo le stalle sono deserte, in quel momento preciso in cui il silenzio e’ dato dalla fine dei rumori del giorno e dal ritardo nell’iniziare dei rumori della notte, la mucca madre comincia a raccontare: “C’e’ un lontano paese chiamato India, pieno di colori e di profumi, dove noi mucche siamo rispettate, e invece di avere prima o poi un appuntamento con una sparachiodi, possiamo andare dove ci pare, ballare, persino bloccare il traffico se ci viene voglia di giocare a carte.” byez ——————————————— 02.12.2001 Abbastanza spezzato dopo due viaggi quasi consecutivi in autobus.
Ho fatto un salto di un giorno a Jodhpur, la citta’ blu.
E’ solo blu, ma il suo forte e’ davvero gigantesco e splendido.
Adesso eccomi comunque a Jaisalmer, la citta’ d’oro, ai margini del grande deserto del Thar, a davvero poche decine di chilometri dal confine col Pakistan.
Durante il viaggio in autobus abbiamo infatti sorpassato un’infinita colonna di veicoli militari, diretti a una delle tante installazioni dell’esercito disposte lungo il percorso e colorate di mimetico.
E’ anche pieno di soldati, che al contrario dei poliziotti nelle citta’ che di solito hanno come unica arma un bastone di bambu’ o al massimo un vecchio moschetto a tracolla, sfoggiano armi moderne ed automatiche.
(Scaglia perche’ i loro mitra hanno la canna bucherellata? questione di raffreddamento?) Ho comunque una stanza in una magnifica antica guest house all’interno del forte, e questo mi fa vivere questi giorni in un’ atmosfera piuttosto strana e beduina e milleeunanottesca.
Il padrone della guest house e’ un gentile e simpatico bramino (priest), appartenente cioe’, come non smette di farmi notare, alla casta superiore.
Naturalmente io invece tralascio di fargli notare come consideri il sistema delle caste inaccettabile e barbaro, una sorta di cancro terribile e senza fine che soltanto qualcosa di atroce come una religione puo’ essere riuscita a creare e mantenere in piedi attraverso i secoli.
Il concetto e’ che se nasci come appartenente a una casta inferiore o peggio sei un intoccabile non avrai mai nessuna speranza ne’ possibilita’ di cambiamento, a dispetto di qualunque tuo genio e alla faccia del sogno americano.
Inoltre, il fatto che i bramini siano una minoranza, o fondamentalmente che la maggior parte degli hindu non appartenga alla casta superiore, implica il fatto che il genere umano ha una propensione verso la malvagita’ o quanto meno verso una vita non propriamente retta, e per questo nel ciclo delle rinascite la maggior parte degli uomini si trova a nascere povera, infelice e sconfitta.
(e’ un’idea immobile e noiosa e tragicamente priva di ironia) Non dimentichiamo infatti che un intoccabile suscita anche un certo disprezzo nelle caste superiori, in quanto si merita il suo stato di miseria a causa del cattivo karma e piccolo dharma della sua vita precedente.
Analizzando il sistema dal punto di vista statistico, si nota facilmente come il samsara, o ciclo delle rinascite, alla fine non funzioni poi cosi’ bene.
Accetto il fatto che la paura di rinascere intoccabile, o peggio (ma chissa’) mucca, sia un forte sistema di prevenzione contro il crimine e un ottimo incentivo a vivere una vita onesta, ma in questo caso la religione lascia il posto (o semplicemente asssume l’aspetto) alla consuetudine del controllo sociale.
Se a tutto questo aggiungiamo il fatto che le vedove sono costrette a vestirsi di bianco, non possono partecipare ne’ alle feste ne’ alle cerimonie religiose, e sono solitamente indicate come porta sfortuna; che soltanto le vedove appartenenti alla casta superiore possono risposarsi; che la maggior parte dei matrimoni sono combinati, ed e’ ovviamente l’uomo a scegliere la donna e non viceversa; che sono le donne a fare i lavori piu’ pesanti e quelli che un uomo considera indegni, quali per esempio portare l’acqua o fare i manovali in un cantiere edile; che l’omossessualita’ maschile (non quella femminile) e’ punita con la prigione; che solo gli uomini possono mettere fine al ciclo delle rinascite, una donna deve aspettare di rinascere come uomo; se si prende in considerazione tutto questo, probabilmente i burqa di Kabul sono davvero una piccola cosa, ma l’India e’ cosi’ grande, ha la bomba atomica ed e’ amica degli Stati Uniti e dell’Occidente dai vari pesi e dalle varie misure.
A Pushkar un gigantesco nero americano, che agli indiani mentiva senza successo sulla sua provenienza, mi ha parlato dei biscotti al bhang di Jaisalmer.
“Perfetti per i viaggi in autobus” mi ha detto.
Quello pero’ che il sosia del protagonista del Miglio Verde si era scordato di dirmi e’ che a Jaisalmer, giusto alla base del forte, c’e’ un Bhang Shop, regolarmente autorizzato dal governo.
Oggi ho quindi ovviamente comprato un biscotto (bhang cookie), e mi sono fatto regalare un po’ di bhang che ho provato a fumare.
L’effetto per inalazione e’ piuttosto blando, niente a che vedere con la meraviglia della stonanza in cui si cade inesorabilmente quando lo si mangia.
Ho anche comprato dell’erba da un nepalese, questa mattina.
Non ne avevo mai comprata, perche’ c’e’ appunto il rischio che al posto dell’erba ti rifilino del bhang, ma a jaisalmer, al contrario di qualunque posto che ho finora visto in India, dove praticamente chiunque non fa che offrirti del fumo, sembra impossibile trovare dell’hashish.
L’erba comunque e’ vera erba, simile al keef marocchino forse, leggera soave e stonante.
A proposito di nepalesi, sempre a Pushkar, un barista con la faccia a scimitarra ha cercato di convincermi che i maoisti hanno ragione (a dire il vero non ha faticato molto) e che non torcerebbero mai un capello a un turista, dato che il turismo e’ l’unica risorsa del paese.
Devo comunque ammettere che il riaccendersi della guerriglia ha probabilmente eliminato definitivamente il Nepal dal mio itinerario.
Ho praticamente rinunciato a fare un camel safari, non potendo fare a meno di chiedermi cosa andrei a fare a dorso di cammello tra le dune e a cenare attorno a un fuoco dove dei cammellieri cercano in tutti i modi di convincermi di essere Lawrence d’Arabia.
Credo che nel deserto andro’ in jeep, o se ne partira’ mai uno, (i turisti sono pochi)in autobus.
C’e’ l’invincibile problema che l’autobus che vorrei prendere per il piccolo villaggio tra le dune non ti riporta indietro in giornata, e dovrei quindi fermarmi a dormire, ma potrebbe non essere male.
I giornali continuano come ormai da giorni a riempire le loro prime pagine della vicenda di ingiuste punizioni arbitrali che ha colpito la nazionale indiana di cricket in Sud Africa, mentre va scemando lo stupore per un tragico incidente che ha visto la morte di 4 persone a Delhi investite da un autista ubriaco.
D’altronde a Delhi, 13,5 milioni di abitanti, la polizia ha tre, e dico tre, apparecchi per il controllo del tasso alcolico nel sangue.
Ma la notizia migliore, anche se devo ancora interpretarla nel modo giusto, e’ che qui un cammello costa 100 dollari.
Si accettano ordinazioni.
That’s all folks.
Jaisalmer, 02 12 2001 ———————————————————— 10.12.2001 Spariamo.
Bhang, diventiamo invisibili.
(vabbe’…) Lo so che avevo detto che.
Ma il tao rotola, la swastika gira…
insomma lo ammetto, ho fatto un camel safari.
KHURI Sull’autobus per Khuri, piccolo villaggio nel deserto a 45 km da Jaisalmer, conosco due fiorentini.Fede, 25 anni, e Linda, 19, ex fidanzati che al momento dell’addio avevano gia’ in tasca un biglietto per Bombay e quindi sono partiti.
E’una cosa curiosa, ma sono molto simpatici.
Arrivati a Khuri, ci lasciamo condurre a vedere una guest house (parola un po’ forte per un gruppo di capanne disposte attorno a un fuoco centrale, con letame secco come pavimento)nella parte vecchia del villaggio, molto vicina alle dune che si vedono in lontananza.
Prendiamo un chai, ci informiamo su un po’ di cose, e chiediamo al tipo dell’oppio.Ce lo procura dai cammellieri che girano attorno.
Non l’avevo mai provato quindi potrebbe essere qualunque cosa, comunque lo chiamero’ oppio.
E’ scuro, amaro, e ti da’ un’impressione come se niente potesse toccarti, perche’ forse tutto e’ niente e quindi anch’io sono niente e sono tutto.
Rilassamento, e rallentamento di tutto, organi interni compresi.
Parliamo col tipo della guest house e, visto che il prezzo e’ davvero economico rispetto alle offerte a Jaisalmer, ci accordiamo per un camel safari da farsi due giorni dopo.
Lo salutiamo e ci incanmmminiamo verso il ritorno.
L’autobus che doveva portarci a Jaisalmer, l’ultimo, quello delle 18, lo vediamo passare in lontananza mentre camminiamo verso la fermata, alle 17.30 (this is India, sir).
Ci viene proposto un passaggio in jeep per 350 rupie, ma e’ un prezzo folle abituati ormai ai prezzi indiani, quindi rifiutiamo.
Riusciamo piu’ tardi fortunatamente a contrattare per 150 rupie un passaggio su un camion di sacchi di iuta.
Alle 20 saliamo in 7 in cabina, noi tre piu’ quattro indiani, e partiamo alla volta di Jaisalmer, stretti come sabbia nell’abitacolo pieno di lustrini, ciondoli, pendoli, immagini di dei che si accendono e si spengono ad intermittenza.
Guardando la luna grande attraverso il vetro, vedo il luccicare del sorriso dei cani che le ballano attorno.
DESERT Il giorno seguente ci fermiamo a Khuri per la notte, mangiando oppio e sciogliendolo nel chai.
La mattina dopo partiamo per il camel safari in compagnia di due cammellieri molto giovani e premurosi.
Il fatto che il safari sia economico si rivela la prima volta a pranzo, quando scopriamo che i cammellieri sono tutt’altro che ottimi cuochi e non hanno nemmeno un coltello, e alla sera, quando dobbiamo prestargli le nostre torce.
Per il resto, i pro e i contro di tutti i camel safari, economici o meno che siano.
Innanzitutto, dopo una giornata di cammello sei spezzato, le gambe ti tremano, hai il culo in fiamme e le palle in gola.
In secondo luogo, mentre i cammellieri prendono due volte al giorno l’acqua fresca dai pozzi, per i turisti viene portata una scorta di acqua minerale.
Questo vuol dire bere acqua fredda all’alba e fresca verso le 9 di sera.
Durante il giorno, si beve magnifica acqua bollente.
Campeggiare nel deserto significa poi ritrovarsi i vestiti e le coperte piene di spine e rassegnarsi a fare amicizia con una svariata quantita’ di insetti, tra cui formiche color sabbia, scarafaggi, grandi scarabei neri, e mantidi religiose.
Il primo giorno, dopo un pranzo su una duna, i cammellieri ci portano al loro villaggio.Sono capanne di fango in mezzo al deserto (il deserto del thar ha pochissime dune in realta’, per la maggior parte e’ piu’ simile a una savana, con cespugli e arbusti che crescono un po’ ovunque a breve distanza l’uno dall’altro)dove veniamo accolti da bambini in corsa a cui Fede e Linda regalano penne e calzini.
Ci fermiamo per la notte sulle dune vicino al villaggio, e i cammellieri ci dicono che possono facilmente catturare una gazzella, di cui il deserto e’ pieno, con una torcia e un coltello.
Glieli forniamo immediatamente ma per una scusa o per l’altra non partono mai per la battuta di caccia.
Cominciano quindi a cucinare, ma l’oppio ci ha tolto completamente la fame, e non mangiamo quasi nulla.
Nonostante tutto stiamo passando la prima notte nel deserto e abbiamo tutto, la vastita’, il silenzio pieno di rumori, il cielo stellato.
Giochiamo con i cammellieri a board games disegnati sulla sabbia, usando come pedine palline di sterco secco.
Le stelle, dicevo.Si vedono bene, tutte.Non sapendone mezza di astronomia devo per forza immaginarmele: c’e’ la stella del bambino che ride, ovviamente il cammello che sogna, e la quasi invisibile grande costellazione della strada, che e’ cosi’ lontana che soltanto dal deserto si vede.
Verso le 11 sale dall’ orizzonte una grande luna arancione che avanza lentamente verso l’alto dei cieli, verso il tutto degli universi, tenendo per mano la luce.
Ci svegliamo guardando nascere l’alba, e questo basta.
Il secondo giorno facciamo parecchia strada prima di fermarci a una serie di pozzi, sparsi in un’immensa prateria dove tra nuvole di polvere si abbeverano centinaia di animali, capre, cammelli, mucche.
Dopo pranzo, stanchi di oppio (sopratutto forse il nostro stomaco) mangiamo mezzo bhang cookie.
Quando arriviamo a un altro villaggio per fare bere i cammelli, ci offrono un chai, e mangiamo lentamente anche l’altro mezzo.
Cosi’ verso il tramonto, a dorso di cammello, il potere del biscotto (full power)sale lentamente a prendere possesso della nostra testa.
Fede infatti rompe talmente i coglioni ai cammellieri dicendo “chicken” che uno dei due si offre di andare, al buio (finche’ non c’e’ la luna il deserto e’ davvero buio) a cercare un pollo da cucinare al villaggio vicino.
Probabilmente l’ha fatto temendo che al ritorno ci lamentassimo del cibo o che altro, ma eravamo in buona fede, solo innocenti prede del bhang.
Dopo un’ora comunque, torna a mani vuote, e cosi’ insieme all’altro si mettono a cucinare il solito thali mal fatto e il consueto chapati pieno di sabbia.
Mentre cucinano cantano magnifiche nenie che probabilmente si sentono a distanza di chilometri.
Siamo a pezzi, dopo cena Linda e Fede si addormentano quasi subito, io resto sveglio a guardare il cielo, aspettando l’ultimo the’ (senza latte, perche’ nelle vicinanze non ci sono capre).
Guardo le stelle di nuovo.Ci sono ancora tutte, ed alcune le guardo cadere.
Il mio desiderio e’ sempre lo stesso:vedere, vedere, vedere.
BIKANER Ora comunque sto a Bikaner, ultima citta’ che visitero’ in Rajasthan.
Grazie alla fortuna e a una raccomandazione sto in un albergo magnifico, dove per 3 dollari ho una stanza sconcertante.
Dopo un mese vedo le mie prime lenzuola, addirittura delle abat-jour.
E ci sono persino gli asciugamani nel bagno.
Non ci posso ancora credere.
A prestoz.
———————————————————– 13.12.2001 BIKANER Bikaner ha uno splendido forte, tutto decorato e ben tenuto, ancora assurdamente proprieta’ del Maraja’ (o cosi’ mi dicono).
Nei pavimenti marmo di Carrara, come in tutti i forti del Rajasthan.
Bikaner e’ pure gemellata con Udine, e appena qualcuno si accorge della mia italianza non puo’ fare a meno di ricordarmelo.
Ma il meglio e’ Deshnok, a 25 km, e il tempio dei topi.
Centinaia di topi che se la spassano per il tempio, scorrazzando qua e la’e uscendo dai buchi, bevendo in gruppo da enormi ciotole di latte e mangiando le noci di cocco e la frutta che offrono i fedeli.
Non sono ahime’ riuscito a vedere il leggendario unico topo bianco, che si dice porti una fortuna incredibile e della cui esistenza anche alcuni indiani cominciano a dubitare.
Tra questi, il giovane musulmano che mi fa da guida per il meraviglioso tempio gianista di Bikaner(al contrario dei templi hindu, che all’interno sono piutosto spogli, i templi gianisti sono tutti scolpiti decorati e dipinti anche all’interno.) Altro marmo di Carrara, of course.
DELHI Ora sono tornato a Delhi dopo un difficilmente dimenticabile viaggio di 11 ore in ordinary class (altre su quel treno non ce n’erano), ovvero seduto su una grande panca in legno sulla quale ci si siede finche’ ci si sta.
Sono entusiasta di essere a delhi, mi piace persino Paharganj, dopo un mese di India.
Questo quartiere turistico pieno di negozi, sporco come tutta l’India, dove tra freaks scoppiati, fango e mucche, regna assoluto un puro, genuino, luminoso caos.
Ovviamente ho subito comprato del fumo.
Ma niente astinenza.Sono stato dieci dieci giorni senza fumare e come al solito non mi ha fatto ne’ bene ne’ male.
Solo incazzare il fatto che una cosa che non fa niente non possa comprarla insieme alle sigarette e ai fiammiferi.
Ma delhi mi piace, e non ci sono cammelli.
A Delhi oltretutto,e’ piu’ facile scomparire, e tutti sono meno assedianti che in Rajasthan, dove ti chiedono se vuoi un rickshaw anche quando stai bevendo una birra in un bar parlando con qualcuno.
O forse,in un mese, ho imparato a schivare.
Di certo ormai mento alla perfezione e so a memoria i dialoghi meccanici che ogni turista arriva a conoscere.
Uno classico d’esempio e’ il dialogo per comprare l’acqua: – Quanto costa un litro? – 15 rupie.
– Non 10? – Si’, 10.
All’albergo dove l’avevo lasciata avevano ancora la mia borsa (anche se prima fanno per darmi lo zaino di un altro che onestamente rifuto).
Stamattina quindi me ne esco con in mente il fatto di vendere le mie finte scarpe da trekking, che hanno cominciato a farmi male dopo un paio d’ore, e la guida del Nepal.
Gli avidi commercianti di Paharganj non mi danno nessuna sopddisfazione, offrendomi 50 rupie (1 dollaro) per la guida e masssimo 250 per le scarpe.
Vado quindi ad Old Delhi, dove a un certo punto,dal gruppo di persone che si e’ creato attorno alla mia figura con in mano un paio di scarpe, spunta un sikh (quindi ricco, o quantomeno benestante) a cui piacciono moltissimo e alla fine riesco a farmi dare 350 rupie.
La guida riesco a venderla a Connaught Place per 200 rupie, anche se il fatto che il tipo abbia accettato cosi’ presto mi fa pensare che forse avrei potuto avere il doppio.
Ma va bene, piu’ soldi e meno peso.
Sono stato al Red Fort anche, l’antica dimora dell’Imperatore, un misto tra un castello e Versailles.
Ci sono stato solo un paio d’ore perche’ alle 13 chiude, e decine di poliziotti e militari cominciano a soffiare nei loro fischietti e a cercare di far uscire la gente il piu’ in fretta possibile.
Alcuni corrono minacciosamente verso i visitatori che si attardano, urlando e fischiando.
Una specie di evacuazione, insomma.
A me dimostra semplicemente che tra le forme o gli aspetti che ha assunto la nostra specie, quello militare e’ senz’altro uno di quelli che piu’ ci allontana dalla perfezione.
Comunque, ora come ora, e’ vero che l’ India e’ dura, difficile, faticosa e tosta, ma ci sono dei momenti in cui sto cosi’ bene, delle mattine in cui mi sveglio cosi’ in forma e delle sere sulle terrazze in cui mi sento cosi’ in pace fragile e ovviamente libero.
Domani vado a benares, la citta’ sacra, a vedere il Gange, finalmente.
byez —————————————————————————————— 18.12.2001 DISCLAIMER: Se non vuoi piu’ ricevere questa mail, assorbi il pensiero e fai un reply a questa mail scrivendo “unsubscribe”nel subject.
TRAINS Il treno che dovrebbe portarmi a Varanasi, il leggendario (almeno per me lo diventera’) SAHDBAWNA EXPRESS, treno N.4016, dovrebbe partire alle 16.45.Ho scelto questo, che parte dalla stazione di Old Delhi, perche’, pur essendo piu’ lento di un altro, arriva alle 9 del mattino invece che alle 5.
Verso le 16 vado quindi a mischiarmi alla folla al binario n.13, concentrandomi sul come vincere l’apparente impossibilita’ per un occidentale di trovare il posto sui treni indiani.
Nel biglietto c’e’ il numero della carrozza, che viene disegnato col gesso sulla carrozza stessa, e il numero della cuccetta.Sulla carrozza viene anche attaccato un foglio scritto a mano o a macchina che elenca i nomi dei passeggeri col relativo numero di posto.
Bisogna a volte guardare tutto questo nel tempo, lungo o meno, prima della partenza del treno.
E ovviamente, quando piove, tutto questo alfabeto di segni si scioglie come lacrime eccetera eccetera.
E nelle vicinanze non ci sono portatori.
E’ stato Piero ad insegnarmelo.E’ un ex insegnante, viaggiatore immenso e, almeno a prima vista, uomo di pace, che ho conosciuto quando il mio aereo ha fatto scalo a Gedda, in Arabia Saudita.
Degli occidentali che eravanmo sul primo aereo, praticamente tutti hanno preso la coincidenza per le spiagge della Thailandia.Ad andare in India siamo rimasti io, lui, e una ragazza greca che meditava in posizione del loto sulle poltroncine dell’aeroporto.
Con Piero ho passato alcune ore i primi 2 giorni a Delhi.
Mi ha impedito di pagare le cose quattro volte il loro prezzo e mi ha fatto assaggiare cose che probabilmente ancora adesso dopo un mese non avrei osato mettermi in bocca.
E’ nel suo albergo che ho lasciato la borsa che ho ritrovato 2 giorni fa e che ho sostituito ora con un meraviglioso baule di metallo.
“E’ impossibile a volte trovare il proprio posto su un treno indiano”, mi disse portandomi in visita alla New Delhi Station – “ma spesso non ce n’e’ bisogno.
Dai poche rupie a un portatore, sono quelli la’ con la casacca rossa, e in un lampo ti troverai al tuo posto con lo zaino appoggiato sulla tua cuccetta.” Ma ora non vedo portatori, e sono le 16.55, dieci minuti dopo la partenza prevista.E nessuno attorno a me sembra conoscere nemmeno l’esistenza della lingua inglese.
Finalmente vedo un poliziotto, e ne approfitto per mostrargli il biglietto e chiedergli informazioni.
Allora, so.
Il mio treno ha un leggero ritardo, un ritardo indiano, quelle 7 ore appena.
Parte alle 23.50.
La notizia mi appiattisce.
Torno a mettere lo zaino nella cloak room della stazione da dove l’ho ritirato solo un’ora prima.
Esco dalla stazione.La strada si e’ riempita di banchetti che vendono tutto il cibo del mondo.Le fiamme dei loro fornelli a gas illuminano i lati della strada mentre la sera scende su Old Delhi, la sua vecchia stazione e la biblioteca pubblica di fronte.
Mangio una delle loro frittate di cipolle e piccanza, servita su un foglio di giornale scritto in hindi.
Ne do’ un pezzo a un cane che passa, certo che nella prossima vita, karma o non karma, anch’io saro’ un cane di strada.
Compro 2 banane.
Aspetto.
Torno verso la stazione, salgo i gradini verso la sala d’attesa.
Mi fermo sui larghi balconi del corridoio, accendo uno dei 2 joint che mi ero preparato per il viaggio.
Aspetto.
Dall’alto, i fuochi e le luci dei venditori sembrano un accampamento nel cuore del traffico, e lo sono.
Passa canmminando un poliziotto, trattengo il fumo finche’ non si allontana.
Aspetto.
Torno in sala d’attesa, finisco il libro di Chrichton che ho preso in inglese a Jaisalmer.E’ in inglese comprensibile e imparo qualcosa sui passati remoti.
Vado allo snack bar a bere un chai.E’ pieno di nepalesi che sembrano in gita scolastica, tutti con gli occhi sottili come mi sembra stiano diventando i miei.
Fumo una Wills, e aspetto.
Vado in bagno a lavarmi la faccia, poi scendo nell’atrio assalito da un presentimento, uno brutto.
Guardo il tabellone con gli orari.
Un orrore lovecraftiano si impadronisce di me.
Reschudeled, dice il tabellone.Di nuovo.
Il mio treno partira’ alle 5 del mattino.
Mi precipito a una fila per cercare di comprare un biglietto per il treno delle 22, ma ovviamente, su questa tratta cosi’ frequentata non c’e’ nemmeno un posto senza prenotazione.
Aspetto.
Prendo un letto nel dormitorio della stazione.
E’ soltanto pulito, soltanto questo.
Alle 5, parto.
Dopo un po’, il mio vicino di cuccetta, che lavora al Red Fort di Delhi, comincia ad aggiornarmi sul ritardo che il nostro treno sta accumulando.
“Guarda, Lucknow” mi dice per esempio “avremmo dovuto arrivarci alle 3” e mi indica l’orologio che segna le 5.
Il tempo del treno e’ un tempo non scandito da nulla, se non forse dal freddo che arriva dai finestrini quando il sole tramonta.
Mi faccio 2 joint nei bagni, un notevole esercizio di stile.
Sara’ la stanchezza, l’hashish, essere in un cubo che si muove cosi’ lento, ma vedo la Madonna.
E’ la ragazza nella cuccetta di fronte alla mia, disposta orizzontalmente lungo il corridoio.Sta dormendo, suo marito le sta accanto, seduto contro la spalliera, in un’immobilita’ che solo l’Asia.
E penso che cosi’ doveva essere Maria tutte le sere dopo Betlemme.
Avvolta di coperte colorate e sporche, che lasciano intravedere le cavigliere.
I capelli scuri nascosti da un foulard ricamato a disegni, il suo bambino in braccio.
Addormentata felice dopo un’altra indimenticabile notte di sesso col suo falegname.
All’1 del mattino appoggio il piede sul marciapiede di Varanasi Junction.
22 ore dopo la partenza effettiva.
32 ore dopo la partenza prevista.
35 ore esatte dopo avere attraversato per la prima volta il traballante metal detector posto all’ingresso della stazione di Old Delhi.
VARANASI (BENARES) Alloggio, si fa per dire, all’Hotel Samman.La mia stanza, semza smentite, fa indubbiamente schifo.E’ grande e ha una doccia (fredda) che funziona, ma mi trovo costretto a dividerla con troppe specie di animali differenti dalla mia.
La tengo per pigrizia, perche’ nella guest house dove volevo andare hanno solo stanze a 200 rupie (la mia ne costa 150) e perche’ c’e’ un piccolo televisore in bianco e nero in cui guardo deliranti film indiani.
Osservo degli Albano con la pelle scura e la pancia che fanno i bulli per delle Romine indiane vestite da James Bond girls, e scene dove i cattivi fumano dei chiloom nelle sale d’attesa degli ospedali.
Cambio canale prima di innamorarmi della ragazza dello spot del sapone Borosoft.
C’e’ una partita di calcio in cui i raccattapalle indossano il turbante.
E l’incontro India-Inghilterra di cricket.
C’e’ ancora qualcosa che mi sfugge nel cricket, e continuo a preferire il calcio a qualunque gioco di posizione, ma i giocatori sono indubbiamente molto eleganti, e gli arbitri portano la cravatta.
Gli indiani comunque ne vanno pazzi.
Qui a Varanasi mi riposo dall’ultima settimana un po’ dura.
Dormo fino a tardi, vado a passegiare sui ghats (scalini di pietra da cui si accede al fiume) e a guardare il Gange (Ganga) che scorre liscio portandosi dentro sacchetti, i colori del bucato dei lavatori (dhobi), mucche morte e tutti gli dei.
Il Gange e’ bellissimo, e domani ci andro’ sopra in barca, anche se la Lonely Planet lo vede come un suicidio.
Mai andare da soli in barca, dice la guida, ricordando come a Varanasi ogni 3/4 mesi scompaiano nel nulla un paio di turisti.
Ma ho pensato che, primo, il boatman e’ anziano e io ho un coltello, secondo, che c’e’ un sacco di gente, e terzo, e forse quello che mi salvera’ la vita, ho promesso che dopo il giro in barca mi lascero’ portare in un negozio di sete e tessuti.
Oggi sono stato anche al Manikarnika ghat, uno dei posti migliori dove un hindu puo’ sperare di essere cremato.
(Varanasi e’ una delle citta’ piu’ sante dell’India, chi muore a Varanasi puo’ interrompere il samsara, o ciclo delle rinascite) Ci si accede per una strada stretta nella citta’ vecchia, ai cui lati stanno enormi cataste di legna, i cui tronchi piu’ o meno grandi vengono pesati su grandi bilance e venduti ai parenti del morto che li useranno per costruire la pira funebre.
Piu’ la pira e’ alta, e piu’ costa, e piu’ il morto era ricco.
Le cremazioni sono frequentissime, e infatti ce ne sono due.
Mi avvicino per guardare: la testa secca di un uomo vecchissimo spunta, come i piedi, dai lenzuoli e dalle carte dorate in cui e’ avvolto, mentre qualcuno nei pressi cerca di dare fuoco alla legna sotto di lui.
Odore di incenso, di legna, di fumo, probabilmente anche di morte e carne che brucia, ma non mi fa cosi’ effetto.
Per quanto speri sempre forse di sbagliarmi, continuo a non credere a una vita dopo la morte, e per me quindi un cadavere e’ praticamente nulla, come la televisione.
Faccio anche la figura del turista peggiore quando un gentile signore mi chiede di allontanarmi perche’ mi sono unito ai parenti della salma e questo non e’ bello.Mi allontano in un mare di “man, i’m sorry..”, il mio inglese parlato sempre piu’ simile a un testo dei Public Enemy.
Qui a varanasi ammetto di avere comprato anche un’altra tola (10/11 grammi).
Mi hanno offerto del Manali, cioe’ proveniente dalle montagne del nord, e non ho saputo rifiutare.
Per la prima volta, stamattina qualcuno mi ha pure offerto delle donne facili.
“Ehi friend, hashish?good marijuana?Everything?Indian Girls?” Assaggio cose, la mirinda alla mela, il belphuri: (si parte da un piccolo biscotto salato su cui viene messa della cipolla fresca e delle erbe e delle salse e poi ancora delle erbe, forse coriandolo, e delle salse e del grattugiato, e quando il tutto e’ alto piu’ o meno tre cm.
si mangia in un colpo solo e lascia la bocca in fiamme e fresca nello stesso tempo) e vado in giro mistico e stonato.
Insomma non mi manca quasi nulla, tranne forse un computer che pesi come un accendino e una tastiera gonfiabile.
Chi eventualmente ne fosse in possesso e volesse sbarazzarsene, puo’ mandare il tutto presso Hotel Samman Dasaswamedh Rd., Godowila Crossing 221001 Varanasi, India.
Oggi ho comprato il biglietto e tra due giorni parto di nuovo.Dico a me stesso che e’ per il freddo ma in realta’ probabilmente non sono ancora pronto a fermarmi a lungo da qualche parte.
Continua a piacermi il movimento, e spostarmi da un posto all’altro, di citta’ in citta’ e di stanza in stanza.
Per ora, la mia casa resta il mio zaino.
Se tutto va bene quindi, passero’ il Natale a Calcutta, nel Bengala Occidentale.
byez