Le due capitali: Mosca e San Pietroburgo
Può sembrare strano a noi, gravati da tre millenni di vicende, che in Russia opere eseguite appena cinquecento anni fa costituiscano l’origine dell’arte di quel paese, ma l’epoca storica russa inizia solo mille anni fa, al tempo della costruzione di Mosca. San Pietroburgo ha addirittura una data ufficiale di fondazione: 16 maggio 1702. Prima di essere alfabetizzata nel IX secolo dai santi Cirillo e Metodio ricevendo l’eredità bizantina, la Russia era abitata dai cugini di quei barbari che distrussero la civiltà romana. Quante regioni, quante tribù le cui gesta sono ora nel vento! L’impressione generale è quindi di un personaggio arrivato tardi nel consesso delle nazioni europee, ma d’una presenza così massiccia da informare lo svolgimento della storia dal momento della sua apparizione in poi.
Attualmente Mosca è da diversi anni in testa alla classifica delle città più care del mondo, oltre a essere, con 15 milioni di abitanti, la più popolosa d’Europa. Non che il turista si avventuri mai nelle periferie per valutare la qualità di vita nei casermoni-dormitorio dell’era sovietica, ma la dimensione della città si avverte nell’anonimato persino dei suoi luoghi più caratteristici: essi appartengono a troppe persone, e hanno finito per diventare di nessuno in particolare, alla mercé di un potere tanto grande anch’esso che la catena delle responsabilità scompare nella nebbia della burocrazia dopo pochi rimandi. Esattamente come in Italia, i cittadini sono trattati da sudditi, senza alcun diritto al rispetto e all’informazione: una piramide di quindici milioni di mattoni sui quali poggia un centinaio di potenti: Mosca ha la maggiore concentrazione di milionari del mondo, più persino di New York. Ma mentre lì si vedono e si sentono le bielle e i pistoni d’un formicaio in ritmica e vivace attività, a Mosca tutto è avvolto nella segretezza. La piazza Rossa? Oggi l’accesso è vietato. I ragazzi in divisa allo sbarramento non sanno perché, loro eseguono solo gli ordini, e non lasciano passare. E, in generale, è consigliabile non chiedere nulla, per evitare di sollevare una questione che eliciterebbe immediatamente e automaticamente un diniego. La colpa è di Lenin, di Marx, di Stalin, chissà: del potere giudiziario, di quello esecutivo o di quello legislativo che, nel tentativo di concretizzare una magnanima filosofia per la promozione della comunità umana, ha privato i russi non solo del possesso delle cose ma anche della loro umanità. I comportamenti di oggi – l’interfaccia con cui il turista interagisce – ancora risentono di questa spersonalizzazione. Inoltre si rimane sorpresi dall’insistenza dei russi di parlare esclusivamente il proprio idioma. Non che gli italiani brillino per destrezza con le lingue straniere, ma mentre noi siamo semplicemente provinciali ed ignoranti, e la padronanza d’una lingua straniera rimane per noi una meta desiderata ma irraggiungibile, i russi la disdegnano perché si sentono come gli americani: superiori. E, considerato lo sviluppo geografico del loro dominio, ne hanno ben donde: l’Unione Sovietica può essere una definizione del passato, ma la realtà di uno sterminato territorio, che comprende 11 fusi orari e soggiace alle decisioni del Cremlino, rimane.
Il Cremlino, dunque: una cittadella fortificata (questo significa “kremlin”) impenetrabile e imperturbabile che conserva, protette da una rossa cinta muraria, ritmata da disuguali e fotogeniche torri di guardia, autorità, storia e arte, tutte innalzate all’ennesima potenza. Dal Cremlino Lenin sembra essere stato espulso: per lui un mausoleo di granito, anch’esso rosso mattone, fuori le mura, sorvegliato da una parata di minuscoli busti di dignitari, i cui resti sono invece incorporati nelle mura. Nella piazza Rossa non è ormai che una presenza muta, e la fila di due ore che si faceva per omaggiare la salma, preservata da sostanze rinnovate annualmente, è passato remoto. Adesso la cittadella sembra presentare il suo massimo esponente a mo’ di offerta sacrificale alla sterminata facciata della concorrenza all’altro lato della piazza: i magazzini Gum, ora centro commerciale di lusso, pieno di boutiques esclusive quasi deserte. Agli occhi di chi dovranno apparire alla moda quei cento milionari moscoviti? Di nonnette col fazzolettone in testa? Di dimessi impiegati che si affrettano alla loro quotidiana missione segreta? Di giovanissimi bohémien, figli della grande letteratura russa della vacuità, che campano di interrogativi esistenziali? Comunque sia, vestiti da sarti italiani e imbellettati da profumieri francesi, oggi non sono qui, e neanche nella galleria Petrovkskij, pure quella sorvegliata da gorilla armati – luoghi incongrui in una città pane-e-cipolle, dato che un moscovita su dieci vive in coabitazione nelle kommunalke, come ai tempi del defunto regime. La cruda vistosità del nouveau riche serpeggia sposandosi, dove può, alle vecchie glorie. L’emporio alimentare Jelisejev al 14 di via Tverskaja, carico di sfarzose decorazioni originali art déco e superfornito di specialità di tutto il mondo, ne è l’esempio più magniloquente. Non è promuovendo l’oligarchia economica, tipico fenomeno da terzo mondo, che la Russia si risolleverà. I magazzini Gum rivelano la loro natura crassa soprattutto di notte: centinaia di lampadine ne disegnano i contorni, come in una Disneyland senza topolini e senza innocenza. E’ indubbiamente spettacolare, e per il tempo della passeggiata tra il Museo Russo a nord e le cupole multicolori di San Basilio a sud, nella piazza Rossa si può anche ammiccare a quella sguaiata seduzione e godersi il centro immobile del sempre imprevedibile ciclone russo.
Dall’altra parte, al di là di quella recinzione, è tutt’un’altra storia. Gli squisiti regali fatti agli zar luccicano nelle bacheche dell’Armeria e cinque piccole chiese preservano iconostasi antiche e dipinti centenari, mentre un gigantesco cannone da cerimonia finge che la guerra abbia anche un lato fotogenico. Nell’inarrivabile triangolo del Cremlino, congelato nel rispetto reverenziale dovuto ai potenti e all’Onnipotente, tutto è pulizia e ordine. A noi, abituati a vaste chiese piene di banchi, le cappelle ortodosse appaiono minuscole e meritevoli giusto d’una breve sosta – ignorando che le funzioni che vi si svolgono durano ore, durante le quali, per converso, i fedeli hanno la facoltà di uscire per una pausa. Bloccate da una dottrina che non ammette evoluzione, queste microcattedrali celebrano, negli affreschi che ne rivestono completamente gli interni, i santi, il Cristo e la Vergine una, cento, mille volte, impregnando di quel credo l’anima del popolo, che sta ora tornando alla pratica. Se Marx fosse vivo, certo non se la prenderebbe più con la religione. Di questi tempi, l’oppio dei popoli è la televisione, un’assuefazione che nessuna filosofia, nessuna rivoluzione avrà mai né l’interesse né la capacità di estirpare. Piano piano tanti luoghi di culto, adibiti a piscina, deposito, garage e officina durante l’era sovietica e ancora in corso di restauro e riabilitazione, tornano ad essere consacrati per la pietà del popolo.
Da nessuna parte questo riflusso è così evidente come al Monastero di San Sergio, sede del patriarcato russo, a Sergev Posad, un paio d’ore da Mosca. Uscendo dalla città, il lineare monumento alle conquiste spaziali riporta a una semplicità quasi commovente, a quando non soltanto la Terra ma l’universo intero sembravano essere alla ricerca di un padrone a cui offrire le loro inesplorate risorse. La stessa ingenuità si respira a San Sergio, per raggiungere il quale la strada attraversa villaggi di isbe, piccole case coloniche di tronchi o di tavole, molte delle quali denunciano l’abbandono in cui la gioventù le ha lasciate alla ricerca, come successe da noi mezzo secolo fa, di migliori possibilità nelle città. Dal belvedere il convento è un’illustrazione da libro di fiabe: una spessa, candida muraglia fortificata cinge campanili e cupole d’oro contro un cielo blu innocenza. All’interno, i gruppi sciamano dalla chiesa al museo e dai souvenir al pozzo dell’acqua miracolosa, mentre i fedeli si allineano per baciare il sarcofago d’argento del santo. Una superstizione alimentata da una necessità personale o il gesto umile di una pietà paesana? In città, comunque, non è diverso: la canna del revolver del partigiano e il muso e la zampa del bracco di bronzo nella stazione della metropolitana di piazza della Rivoluzione sono consunti quanto il piede di San Pietro in Vaticano. Una carezza al muso del cane assicura infatti buoni risultati agli esami universitari, e poi il gesto diventa automatico, nonostante l’umanità tesa e compresa che riempie le undici linee della metropolitana schizzi come tante molecole di gas sotto pressione. Molto s’è scritto sulla rete sotterranea di Mosca: treni in sequenza quasi ininterrotta, dieci milioni di viaggiatori al giorno, più di quelli di Londra e New York assieme, e stazioni monumentali alla costruzione delle quali hanno contribuito associazioni di giovani volontari, soldati e lavoratori accorsi da ogni angolo dell’URSS per un’opera di valore artistico, oltreché utilitario, che mostrasse al mondo la validità del comunismo e i risultati raggiungibili da quel regime. Quello che più impressiona, però, è l’illuminazione intatta e funzionante. Le file di colonnine di vetro opaco e di lampadari a globo tra le lunghissime scale mobili, da noi, non durerebbero una notte. Ma forse non si tratta di educazione civica, probabilmente è semplice timore dell’inevitabile repressione. Qualcosa aleggia nell’aria, tutti sembrano star fuggendo da qualcosa – ed è per questo che il parco Alexander, che accompagna il lato occidentale del Cremlino, appare come un’oasi d’una serenità quasi fuori luogo a Mosca: le guardie piantonano il monumento al milite ignoto mentre un ufficiale va a ricevere i fiori che due sposi novelli son venuti a porgere; più in là, davanti a un grottino artificiale, una banda suona canzoni americane; cavalli di bronzo si impennano tra i getti di una grande fontana dove i turisti vengono a fotografarsi, e le aiole traboccano di colori. Altrettanto vivaci sono i quadri delle avanguardie del vicino Museo Pushkin, che insieme alla Galleria Tretjakovskaja, più composta, offre ai moscoviti l’arte con la A maiuscola. Un quadro resta comunque una rappresentazione senza svolgimento: più interessante è la realtà, e giusto al di là del ponte dal museo luccicano le cupole dorate della nuova, candida cattedrale di Mosca, costruita in appena otto anni, dal 1992 al 2000. Nonostante la dovizia di architettura e di arte, la chiesa di Cristo Salvatore del Mondo ha ancora l’aria un po’ asettica delle cose nuove, ma è la storia del sito che è avvicente. La precedente cattedrale, ricchissima anch’essa di marmi e di affreschi, non resistette neanche cinquant’anni: fu demolita nel 1931 per far posto al palazzo dei Soviet, che avrebbe dovuto essere coronato da una gigantesca statua di Lenin. Il progetto, in mostra nei sotterranei della chiesa, era tanto futuribile quanto delirante e venne interrotto per mancanza di fondi. Alla fine, lo scavo già realizzato venne utilizzato per una piscina pubblica. Ora quello sfregio sul volto della città è sparito.
Settecento chilometri più a nord, cinque ore di treno attraverso boschi e pianure incolte, anche la chiesa del Salvatore sul Sangue Versato di San Pietroburgo è stata sollevata dall’umiliante funzione di guardaroba per costumi teatrali, e dopo un pluridecennale restauro è tornata al suo splendore, se non come luogo di culto, almeno come incredibile opera d’arte. Interamente rivestita all’interno di mosaici, adeguati se non entusiasmanti, l’unico confronto possibile con un progetto altrettanto estremo è San Marco. Come per la cattedrale veneziana, anche l’esterno lascia a bocca aperta: la fantasmagoria di cupole, di colori e di motivi decorativi ricorda San Basilio a Mosca. L’ubicazione, sulla riva di un canale, la rende ancor più pittoresca. Inevitabilmente, l’affianca un mercatino di souvenir dove si può comprare, oltre a tutta la minutaglia per i turisti, una matrioska col volto di Berlusconi. Almeno Mosca ha il mercato di Izmailovo dove i fine settimana, insieme allo stesso ciarpame, si possono acquistare armi, tappeti, oggetti in ferro battuto e altri prodotti artigianali. Ma il cacciatore di pezzi unici verrà dissuaso dai prezzi, che possono essere al livello dei nostri. E comunque il freddo che fa da noi non giustifica l’acquisto di un colbacco. Ci si accontenta perciò delle cose belle che si vedono e non si vendono, e a San Pietroburgo, se non la valigia, ci si possono riempire gli occhi. La vasta piazza di Sant’Isacco, la Fortezza dei Santi Pietro e Paolo, lo sterminato, algido Ermitage, il corso Nevski, che con la sua pompa apparterrebbe di diritto a Parigi, i canali e l’affaccio sul mare… c’è chi l’ha definita, senza troppo sbagliare, la città più bella del mondo. Ma anche se non lo fosse, San Pietroburgo regala a chi ci vive la sensazione di essere come un pisello nel proprio baccello, subliminalmente comunicando la soddisfazione della perla: “Il mondo è la mia conchiglia!”.
I russi sono bruschi e non sorridono, incatenati come sono da assurdi regolamenti, ma Parigi val bene una messa. E in Russia la magnificenza, lo stile, la composta gioia della ricchezza si concentrano a San Pietroburgo. Mosca è stata il polo aggregante della Russia antica, il quartier generale dell’Unione Sovietica ed è la capitale della Russia attuale, ma San Pietroburgo è stata il centro dell’impero, e non c’è dubbio che, qui come ovunque, la vituperata aristocrazia abbia fatto assai più per gli attuali operatori turistici di qualsiasi dittatura, foss’anche del proletariato. Sancta sanctorum della città è la Fortezza, utilizzata non per gli scopi bellici che ne avevano determinato la costruzione, ma come soggiorno obbligato per menti eccentriche: ospitò i detenuti Dostoevskij, Gorkij, Trotskij e Bakunin. La fortuna da strofinìo è possibile anche a San Pietroburgo: dispensatori ne sono l’indice della mano destra della statua di Pietro il Grande e, sull’argine della Neva, un leone di bronzo che accompagna una sfinge egiziana, qui esiliata da Tebe nel 1834. L’interno barocco della cattedrale dei santi Pietro e Paolo è il pantheon dei capi di stato russi, inumati in monumentali sarcofagi di marmo pregiato, e la sua filiforme guglia è un punto di riferimento facilmente visibile. Il panorama della città, dalla cupola colonnata che corona Sant’Isacco, spazia sereno: per lungo tempo, infatti, nessuna costruzione aveva il diritto di superarne l’altezza. A Sant’Isacco si accede pagando un biglietto d’ingresso, ma la nobile magnificenza, la grandiosa compostezza e la severa verticalità della basilica ne sconfessano l’uso secolare per rivendicarle il ruolo di luogo di culto. Perfino i contatti con l’Altissimo sono avvenuti, per i pietroburghesi, in un ambiente regale. Merito di un attivissimo manipolo di architetti francesi, tedeschi ma soprattutto italiani, che ha trasceso l’iniziale funzione difensiva della città contro gli svedesi, creando in meno di centocinquant’anni un’antenna puntata ad occidente, in grado di captare l’arte, gli stili e le maniere delle altre corti europee. Per i suoi tesori architettonici barocchi, rococò e neoclassici, il centro storico di San Pietroburgo è annoverato dall’Unesco tra i siti patrimonio dell’umanità. E non basta ancora: per un tu per tu con il Suonatore di liuto di Caravaggio, con Alexandra Feodorovna di Winterhalter o con la Ballerina seduta di Degas, è all’Ermitage che occorre venire. L’infinito labirinto costituito dal Palazzo d’Inverno, per più di centocinquant’anni residenza degli zar e, in ordine di costruzione, dal Piccolo, dal Vecchio e dal Nuovo Ermitage, collegati da passaggi ai piani alti, ricovera le numerose collezioni acquistate dagli zar e quelle, proletariamente espropriate dopo la rivoluzione d’ottobre, della nobiltà russa. La fantasmagoria di opere d’arte si placa finalmente all’esterno, nella nobile piazza Dvorcovaja, teatralmente definita dal semicerchio di due palazzi governativi uniti da un arco di trionfo. Una colonna, al centro, commemora la vittoria su Napoleone. Poco oltre, il rettilineo del corso Nevskij, cuore vivo della città, si estende a perdita d’occhio fino al complesso dell’omonimo monastero, preceduto dai verdi cimiteri gemelli degli artisti e dei dignitari. Inevitabilmente, ci si passa e ci si ripassa, ed ogni volta col naso per aria. Non si sa quale grandioso palazzo guardare, persino le drogherie sembrano musei. Altro sito da non mancare è l’elegantissimo palazzo Yusupov dove, nel 1916, Rasputin venne avvelenato da un gruppo di congiurati.
Incantato dallo splendore ammirato in Francia, Pietro il Grande fece costruire una replica di Versailles a una mezz’ora di aliscafo dalla città. Dal molo un lungo viale, aperto in una macchia di tigli, querce e aceri dalle ariose chiome e solcato da un canale completo di cascatelle, dirige i visitatori verso il Grande Palazzo che lo domina, sotto il quale una monumentale cascata delizia gli ospiti con statue e giochi d’acqua. Peterhof è un vasto complesso di giardini, padiglioni, fontane, boschetti e specchi d’acqua, residenza di piacere e di potere come dev’essere stata la villa di Tivoli per Adriano. Non c’è in tutta la Russia un giardino più bello, e la vista dalla terrazza sul parco e sul Golfo di Finlandia è veramente degna di un re.
Per la moglie, Pietro fece costruire una residenza estiva a Pushkin, a meno d’un paio d’ore lungo una trafficatissima arteria. Ancora in restauro, a vedere le foto delle nude mura – tutto quel che era rimasto dopo la seconda querra mondiale – si stringe il cuore, pensando alla inutile distruzione, alla crudezza dell’incontro tra la migliore espressione umana – la ricerca della bellezza – e la peggiore – la violenza indiscriminata. I trecento metri della composta facciata rococò, dipinta d’un lezioso celeste, chiudono il grande cortile d’onore. All’interno, l’infilata di stanze è una festa di marmi, di monumentali stufe in ceramica di Delft, di stucchi e di ori. Da qualche anno è visitabile la famosa camera d’ambra, che i tedeschi fecero sparire durante l’occupazione del 1943-45, rifatta sulle foto di quella originale, un regalo del re di Prussia nel 1716. Curiosamente, Pietro il Grande ricambiò in natura, con un corpo di guardia di imponenti soldati russi. Nel parco, attraversato da viali regolari, palazzetti e padiglioni si affacciano su due idilliaci laghetti artificiali.
Un viaggio in Russia coinvolge ogni risorsa del turista, che chiama frettolosamente a raccolta le proprie conoscenze storiche e artistiche per comporre il mosaico delle tessere che ogni palazzo delle città, ogni opera d’arte dei musei e ogni icona delle chiese gli offrono. L’impresa prosegue nelle strade, dove ogni striscione, insegna e cartello tentano di ridurre anche il più attento al rango di analfabeta, grazie a Cirillo, Metodio e alla loro scrittura. Ma alla fine della giornata, dopo un altro monastero ortodosso, un’altra imperdibile pinacoteca o un altro giro lungo i canali, tanto maggiore è la soddisfazione di aver trovato la propria strada e di essersi riempiti gli occhi di bellezza, la mente di storia e lo stomaco d’un ricco borsch (minestra di rape) o d’un piatto di pelmeni (ravioli). Anche in un viaggio breve come questo si avverte il tempo allungarsi e l’impegno del turista ripagato in pieno.
E i russi? In Russia si presentano alte, bionde e invitanti – per parlare solo delle birre. E le ragazze hanno due gambe che sembrano autostrade. Si può far finta di non avere capito l’annuncio, improvvidamente trasmesso durante il pasto in aereo, che un comportamento non consono in cabina equivarrebbe a una rescissione del contratto di volo, con le conseguenze specificate nella rivista di bordo. Si può ignorare la dezhurnaya, la capo-piano dell’albergo, scrivania con vista panoramica su tutto il corridoio, una sorta di istitutrice davanti alla quale gli addetti alle pulizie fanno finta di lavorare. E si possono addebitare al passato regime e alla parcellizzazione delle responsabilità d’una burocrazia in grado di competere con quella italiana la ressa al guardaroba dei turisti individuali, mentre l’addetta a quello per i gruppi ozia, come anche, all’aeroporto, l’interminabile coda al controllo bagagli per i viaggiatori, mentre quello per i soldati è libero. E il pannello di alluminio lucido che permette al controllore dei passaporti di vedere la parte posteriore del viaggiatore? Meglio premunirsi: la sorte di Pushkin, il poeta nazionale, è evidentemente di monito: cornuto, mazziato e morto. A che vale che ora gli dedichino piazze, musei, città addirittura? La moglie lo tradiva, il rivale insozzò il suo onore, il duello fu inevitabile, e la ferita fu mortale: meglio dunque non correre rischi. E la corruzione? I ladri del metrò, stelle della televisione a circuito chiuso, sono in combutta con la polizia e un esposto è inutile. Ma è confortante trovare anche anticonformisti che studiano le lingue e conoscono l’arte, meritevoli in altri tempi d’essere spediti nel gulag dalle condizioni più estreme, tanto estrema è la loro critica dell’attuale sistema. L’idealismo e la logica sono perdenti in Russia tanto quanto in Italia, ma le prepotenze dei ricchi che corrompono la legge farebbero storcere il naso anche ai nostri politici: almeno da noi ci tengono, a un modicum di apparenza. Lo stile russo della mafia è bieco, bestiale, disumano. C’è troppo marcio, e chi sa leggere lo zeitgeist sostiene che un’altra rivoluzione è inevitabile. Occorre visitare Mosca e San Pietroburgo adesso: domani potrebbe non essere più possibile.