Le alpi in moto

Il treno si mosse con uno scossone. Qualche foglia mulinò per un attimo fra i binari, poi le luci di coda si lasciarono dietro solo un marciapiede vuoto e qualche giornale spiegazzato che un vento freddo ed ostile faceva sbattere ed accartocciare contro i pali. Era una giornata di inizio novembre, ed io rincasavo con un convoglio di pendolari...
Scritto da: Alessandro Pesaro
le alpi in moto
Viaggiatori: da solo
Spesa: 500 €
Il treno si mosse con uno scossone. Qualche foglia mulinò per un attimo fra i binari, poi le luci di coda si lasciarono dietro solo un marciapiede vuoto e qualche giornale spiegazzato che un vento freddo ed ostile faceva sbattere ed accartocciare contro i pali.

Era una giornata di inizio novembre, ed io rincasavo con un convoglio di pendolari ormai quasi deserto per l’ora tarda; uno di quei treni degli anni ’60 con i sedili in finta pelle consumati dal tempo, illuminati da luci al neon che spandevano una luce malsana. Aveva cominciato a piovere, ed il vetro era solcato da lunghe gocce che sembravano voler lavar via ostinate scolature rugginose. Mi sforzai di guardare fuori, ma il paesaggio oltre il finestrino era ormai immerso in un’oscurità quasi assoluta – ombre azzurrine di televisori accesi e fari di automobili nella notte -, quando le pareti del vagone rimandarono l’eco delle carrozze che sobbalzavano fragorose sugli scambi di una stazione abbandonata.

Un viaggiatore accanto a me borbottò qualcosa, destandosi appena da un sonno pesante e vischioso, ma quel suono sembrò portare il ricordo di cose lontane e familiare. Mi venne in mente un ponte provvisorio che interrompeva le curve dolci di una strada di montagna, un veloce scalare di marcia prima di attraversarlo, e poi il risuonare cupo delle tavole di abete sotto le ruote.

Chiusi gli occhi e lasciai vagare i pensieri. Ed allora emersero altri ricordi, prima nebulosi ed indistinti, poi sempre più vividi ed intensi: il suono familiare del vento che fischia nelle orecchie, lo sguardo che accarezza i pendii morbidi di colline boscose, la penombra misteriosa di foreste secolari, dove l’aria porta l’odore dolce di muschio e di pini. La sensazione di scendere veloci sui tornanti aggrovigliati di un passo, quando la moto infila docile una curva dopo l’altro, ed orizzonti aperti si aprono dopo ogni svolta. Momenti in cui l’aria fresca ti accarezza il viso, e tutto sembra così grande ed intenso che vorresti abbracciare quell’attimo e stringerlo, per tenerlo sempre con te e portarlo nel cuore.

Ricordai valli immense piene di luce, dove gli spruzzi degli irrigatori lanciano arcobaleni d’argento contro l’azzurro luminoso d’agosto, la sensazione di svegliarsi la mattina, alzare gli occhi e scoprire finalmente un cielo limpido, i colori brillanti nei primi raggi del sole, un sentimento dolce di felicità nel cuore ed il desiderio struggente che la giornata porti cose grandi e buone.

“Dove vai?”, mi chiedevano talvolta persone che incontravo per caso. “Non ne ho la minima idea”, facevo io di rimando, accompagnando l’espressione con un gesto eloquente delle mani, che significava tanto l’assenza completa di piani, quanto il desiderio di mostrare quanto fosse meschina un tipo di vacanza dove ogni singola ora sia organizzata nei minimi particolari. Troppo lungo spiegarlo a chi girava con l’antenna satellitare sul camper e guardava le partite dopo cena. Meglio raccontare tutto ad un diario di viaggio, ed ogni sera, quando ormai la tenda era drizzata e le cose ben sistemate nelle borse, scrivevo le impressioni ed i ricordi della giornata. A volte poche righe, spesso pagine intere. Mi è rimasta impressa una sosta in un campeggio vicino Schaffhausen. La tenda era ormai sistemata, ed una minuscola lampada gettava un cono di luce fioca sulle pagine del diario, lasciando gli oggetti circostanti in una cupa penombra. Lontano, nel buio, il fiume scorreva silenzioso e tranquillo, ma bastava sollevare la testa per scorgere da un lato la sagoma nera della tenda, e dall’altro la massa altrettanto tetra e sinistra della moto, che la mancanza di luce trasformava in una presenza silenziosa ed inquietante. Nitidi riflessi di cromo e tubi aggrovigliati in forme serpentine. Anche attraversare un fiume poteva essere un’esperienza memorabile, ed il momento in cui mi sono accorto di aver raggiunto il Reno è stato un attimo intenso ed indimenticabile. Ero fermo ad un semaforo alla periferia di Costanza, quando lo scattare del verde mi ha portato all’improvviso oltre un viale alberato, oltre una curva che chiudeva la visuale. Luce, spazio aperto, ed all’improvviso la consapevolezza di trovarmi su di un ponte rettilineo, orlato di una doppia fila di bandiere che ondeggiavano allegre al vento d’estate, colori accesi contro il cielo luminoso. Un colpetto leggero alle pedaliere, il suono rassicurante di parti meccaniche ben rodate che si spostano obbedienti, e mentre ascoltavo la voce del motore che saliva di giri, d’improvviso il desiderio di voltarmi alla mia destra.

Ricordo la sensazione repentina dell’aria che mi accarezza la faccia da un’angolazione insolita, il senso di smarrimento nel perdere per un attimo i punti di riferimento sulla strada, ma in quel momento mi sono accorto di qualcosa di nuovo e magnifico: una massa imponente d’acqua usciva dal lago diretta maestosa verso nord, c’era un rimorchiatore che arrancava controcorrente, mentre le creste delle onde scintillavano tranquille nella luce chiara e limpida di mezzogiorno…

Ma la bellezza più intensa è stata sempre quella velata da un’ombra di malinconia. Ho ancora negli occhi l’immagine di un viale di pioppi che si perdeva confuso verso l’ orizzonte, il piacere sottile di voltarsi per attimo e di vedere un mulinello di foglie turbinare nella scia della moto, piccoli voli lenti nella luce calda di una di quelle giornate che già inclinano furtive verso l’autunno.

Quella stessa sera ero a Bregenz. C’era in cartellone la Bohème, spettacolo estivo in un’arena sul Bodensee. La città era deserta, e l’istinto mi aveva portato verso la riva del lago, da dove proveniva un vago clamore di festa. Gonne fruscianti nella brezza della sera e passi veloci degli ultimi ritardatari. Poi, a poco a poco, la passeggiata si era fatta deserta. Il passo veloce di qualche ritardatario, rumori secchi sull’asfalto, e dopo un paio di minuti era rimasto solo qualche passante solitario che se ne tornava lento tra i viali in penombra.

Allora mi appoggiai sulla balaustra del lago. Onde nere sciabordavano sotto le banchine, le luci di qualche traghetto passavano lontane lungo un orizzonte invisibile, mentre nell’aria arrivavano a tratti le note del primo atto, e la voce malinconica di un’orchestra lontana si mescolava con il sussurro leggero del vento tra gli olmi.

Il bentornato della pianura – l’ultimo giorno di viaggio – è stato un muro di calore soffocante ed opprimente. Secco, piazzole polverose ed erba riarsa. Ed allora di corsa verso est, con la nostalgia nel cuore ed il desiderio di vivere gli ultimi momenti di bellezza ed avventura. L’alto Friuli è volato sotto le forcelle fino a Tarcento, quando il motore ha cominciato finalmente a spingere sulla rampa occidentale del passo, un tornante dopo l’altro, finché le pinze dei freni si sono chiuse per attimo davanti al minuscolo posto di frontiera nei boschi. Una piccola sosta, e poi via di nuovo verso la valle dell’Isonzo, oltre le foreste cupe della stretta di Saga, oltre la conca luminosa di Tolmino, oltre le acque azzurrine dopo Canale. Ho sfiorato Gorizia senza nemmeno accorgermene, e pochi attimi dopo il Vipacco mi passava accanto silenzioso e placido, nascosto nella tranquillità solitaria di sterpi e canneti. E allora d’istinto verso la lunga salita di S. Daniele, attraverso i paesaggi ondulati del Carso di Comeno, fino a passare il confine ed infilare il rettilineo della vecchia strada statale verso Trieste.

Sono arrivato al belvedere dell’Obelisco quando il calore del giorno si era ormai spento. L’aria era ormai tiepida, e l’indistinta foschia delle sere d’estate nascondeva l’azzurro del cielo con un lontano velo caliginoso. Qualche nave alla fonda punteggiava il golfo qua e là, mezza luna splendeva pallida ad oriente sopra le gobbe morbide delle colline, e lo stesso orizzonte del mare sembrava perdersi lontano, confuso nella penombra della sera.

La moto si è appoggiata docile su un fianco, ed il cavalletto sovraccarico ha protestato con un impercettibile scricchiolio lamentoso. Le mani contro il muretto, ho sentito distintamente la pietra calda sotto le dita, tiepida dopo aver bevuto il sole d’agosto. Lentamente ho tirato fuori il quaderno dalla tasca della giacca, sfogliando le pagine fruscianti fino a trovare l’ultima annotazione, e lì – in quel momento magico ed intenso – ho scritto le ultime pagine del diario. L’ ho chiuso, dato un ultimo sguardo a quel panorama familiare e nuovissimo allo stesso tempo, e pochi istanti dopo avevo già nelle orecchie il rumore rassicurante del motore che borbottava tranquillo in discesa, mentre il faro gettava ormai una chiazza di luce indistinta su quegli ultimi chilometri di strada.

Otto giorni, sei stati, e 2197 Km. Ero tornato a casa.



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