Lambratesi in thailandia

19 luglio- Bangkok Infine sono arrivato. I mesi scorsi sono sgocciolati trasformandosi in settimane, giorni, qualche ora di aereo stropicciato in seconda classe. Clima all'arrivo: afa insopportabile, smog, insomma, niente di nuovo rispetto ad un normale agosto a MIlano. L'autobus dall'aeroporto mi scarica direttamente in Khao San Road, enclave di...
Scritto da: shaobell
lambratesi in thailandia
Viaggiatori: fino a 6
19 luglio- Bangkok Infine sono arrivato. I mesi scorsi sono sgocciolati trasformandosi in settimane, giorni, qualche ora di aereo stropicciato in seconda classe. Clima all’arrivo: afa insopportabile, smog, insomma, niente di nuovo rispetto ad un normale agosto a MIlano. L’autobus dall’aeroporto mi scarica direttamente in Khao San Road, enclave di guest house, negozietti e turiste scollacciate. Prendo una camera modesta alla Sawasdee House, a circa 4 euro a notte. La stanza, con l’indispensabile fan (ventilatore) è ridotta all’essenziale, i bagni sono in comune ma tenuti bene, il panorama non proprio stupendo. Ma mi piace quest’atmosfera da ostello, da centro di smistamento di giovani occidentali in cerca di esotismo. Inoltre il bar ristorante, che si affaccia in Soi Rambutree, è abbastanza caratteristico e movimentato. Mi piace affacciarmi a fumare dalla finestra del corridoio e vedere gente che passeggia nella strada sottostante, anche ad ora tarda.

Bangkok (o Khrung Thep, come la chiama chi vuole atteggiarsi ad esperto dei luoghi, nel qual caso dovrebbe chiamarla col suo vero nome, che è Krung Thep Mahanakhon Amon Rattanakosin Mahinthara Ayuthaya Mahadilok Phop Noppharat Ratchathani Burirom Udomratchaniwet Mahasathan Amon Piman Awatan Sathit Sakkathattiya Witsanukam Prasit) beh, è una metropoli orientale confusa e visionaria, ma tutto sommato coerente, sudata e affollata ma con dignità. Gli abitanti sono generalmente affabili, a volte sconfinano nella molestia nel tentare di vendervi qualcosa, ma in generale si può girare abbastanza tranquillamente. Sembra lontana la sinistra ombra della violenza che di solito si accompagna alla povertà, come ad esempio nelle metropoli sudamericane. Tradizione e progresso in un mix abbagliante, bonzi in fila ad un bancomat, punkabbestia, guidatori di tuk tuk che vi vogliono portare a qualche ping-pong show, sarti indiani, routard di lungo corso. Non è raro vedere gente che dorme per strada, anche (forse soprattutto) di giorno. Il costo della vita è irrisorio per un occidentale. Oggi mi sono sentito un po’ solo, nonostante in serata abbia conosciuto una coppia di olandesi. Sarà lo spaesamento dell’arrivo. In piena notte, rosolavo nel letto per il caldo e ho deciso di scendere a fare due passi in strada. Ho acquistato da un ambulante un cartoccio di “mix croccante”, composto da locuste, camole, rane, grilli ed uno scarafaggio gigante. Sbocconcello un po’ le cosce delle cavallette, poi lascio perdere. Ho già capito che voler prendere precauzioni igieniche in Thailandia è come voler nuotare senza bagnarsi.

20 luglio- Bangkok Mi sono svegliato praticamente all’alba, il tempo di una doccia fresca e di una tazza di te e sono uscito. La meta era il tempio enorme di Wat Salamadoi, ma siccome era troppo presto mi sono fatto un giro per un mercato di bancarelle. Odori speziati carichi di un sentore di marcescenza; ero l’unico “falang” nei paraggi. Ho mangiato uno spiedino di credo (spero) pesce, mentre una pantegana passeggiava indisturbata fra i venditori. Dopo il Buddha di smeraldo, mi concedo una scorrazzata in tuk tuk, una cena nella luccicante Patpong, qualche acquisto di ricordini per amici e parenti.

21 luglio – In viaggio verso le isole Dopo una nottata pressochè insonne, ho fatto una passeggiata mattutina in Khao San. Qui pullulano piccole agenzie di viaggi e tour operator vari. Di solito tento di evitare intermediari, ma quando leggo che per poco più di 5 euro appoggiano le mie scarne chiappe sulla sabbia dell’isola di Koh Chang, mi lascio convincere. La mia guida ne parla bene, sembra un’isola con dei bei posti ancora non interamente sacrificati al turismo di massa. Sul pullman, un viaggio durato 7 ore quando in moto ne avrebbe richieste un paio andando piano, ho conosciuto un altro ragazzo olandese, Koen, che mi sembra abbastanza esperto di queste zone. Infatti vaneggia di arrivare, dopo Koh Chang, direttamente in Cambogia, passando per zone che sulla mia mappa sono segnate a foresta. Dopo un po’ di attesa, ci siamo imbarcati. Inutile dire che la puntualità in Thailandia è molto elastica, ma essendo italiano sono vaccinato. Ora sono sul traghetto, il mare è un tappeto nero, ci si potrebbe camminare sopra. Il tramonto è da cartolina, con immancabile stormo di uccelli che si staglia contro il sole arancione. La solitudine di ieri sembra svanita.

22-28 luglio – Koh Chang Ieri sera, dopo la traghettata, siamo arrivati sull’isola ed era già buio fitto. Abbiamo buttato gli zaini su un pick-up collettivo e siccome eravamo troppi, io ed un altro ragazzo stavamo aggrappati fuori, sul predellino. Il conducente ha chiesto a tutti dove scendessero, e quando Koen ha detto Lonely Beach sono stato tentato di andarci anch’io, ma non mi son fatto incantare dal nome suggestivo e son sceso a Khong Phrao. Qui purtroppo c’era solo un resort carissimo (cioè, 40 euro a notte, che in Thailandia sono un’enormità). Mi sono quindi fatto dare un passaggio fino a White Sand Beach, la parte forse più turistica dell’isola, ma anche quella che offre più opportunità di sistemazione. Infatti, nonostante fosse tardi, ho trovato un procacciatore. Aveva la faccia abbastanza inaffidabile, per cui non ho esitato a seguirlo sulla spiaggia nel buio, con lo zaino in spalla. La buona stella mi ha dato una mano, poichè non aveva cattive intenzioni e mi ha portato ad un complesso di palafitte proprio all’estremità settentrionale della spiaggia. La mia camera, che pago 3 euro a notte, è più che in spiaggia, sento la risacca sotto le assi di legno del pavimento. Una zanzariera rattoppata avvolge il letto, e il bagno, a parte l’immancabile scarafaggio, è presentabile. La cosa divertente è che di notte, oltre ad una certa ora, si alza la marea e per arrivare in camera ci si immerge nell’acqua fino a mezza coscia. E’ una sistemazione spartana ma la gente sembra simpatica. Dopo un piatto di pollo e riso, e due birre, sono andato a letto. Ora è l’alba e guardo la poca gente sulla spiaggia, che alla luce del giorno appare lunga almeno un chilometro verso sud, oltre ad un altro chilometro a nord del grande scoglio su cui si aggrappa la mia palafitta. La parte più a settentrione è ancora più intonsa, giusto qualche casetta ben integrata e sabbia, fine e pulita. Qualche farang che cammina ozioso, qualche barca da pesca, delle donne che rovistano in una cesta piena di piccoli gamberetti. La mascotte del bar-palafitta è Beckham, una scimmietta irriverente che ieri sera mi ha divertito moltissimo, distraendomi da alcune poppute clienti. Oggi sono andato a pescare sugli scogli all’estremità nord. Ho preso in un negozietto il filo, qualche amo (troppo grosso per i pesci da scoglio, ma non ne avevano altri) ed un galleggiante di sughero. Mi sono brasato la pelle e la mattinata è passata in modo spensierato. Come esche usavo chiocciole e qualche vongola che riuscivo a staccare. I pesci si attaccavano, ma essendo gli ami troppo grossi pasteggiavano e se ne andavano. Solo uno, sfortunato, è rimasto attaccato ad una branchia, l’ho messo vivo in un sacchetto d’acqua per farlo vedere agli altri. Sugli scogli c’erano due bambini che pescavano, ma avevano ami ancora più inadatti dei miei. Gliene ho regalato qualcuno, ma non sembravano aver capito, nonostante il mio gesticolare che mimava pesci piccoli ed ami enormi, e mi hanno ringraziato perplessi. Nel primo pomeriggio, riappare all’orizzonte l’olandese, Koen, lo apostrofo Lonely Dutch e gli chiedo come sia andata sulla sua Spiaggia Solitaria. Mi dice che gli hanno fregato 4000 Baht, e che per dormire si è dovuto spalmare di solo Dio sa cosa perchè degli insetti non gli davano tregua. Ringrazio il mio sesto senso che mi ha fatto fermare a Sai Khao.

Il mio posto preferito in cui sedere, è un tronco scavato a forma di amaca in cima alle scale dell’ostello. E’il varco di accesso, mi permette di gustare la mia birra avendo il mare che ondeggia mollemente a due metri da me. Nel cemento della terrazza, sono state attaccate delle conchiglie. Verso le sette, la mia prima tempesta monsonica. In pochi istanti, il cielo ed il mare si uniscono in un grigio uniforme, l’orizzonte è indistinguibile. Scende acqua a secchiate, nel cielo ci sono dei fulmini spettacolari che tento di catturare bruciando metri di pellicola con lunghe esposizioni. Il cielo poi diventa giallo squillante, è il tramonto, il grosso della tempesta si sposta a nord, e i lampi diventano dei fuochi d’artificio lontani e sordi. Il tutto dura all’incirca una mezzora. Dopo aver fatto un bagno sotto la pioggia, ci spostiamo con altri avventori nella palafitta di un inglese, per uno sbargiollo e due chiacchiere. Dopo un po’ fatico a seguire ciò che dicono, soprattutto l’inglese che sbiascica, e me ne vado a letto. Mi piace questa sistemazione selvatica.

– Giornata partita male. Mi sono svegliato con un mal di testa e di gola terribile. Devo avere preso la famosa influenza asiatica, quest’anno all’origine. Sono sceso al baretto a prendere una tazza di te, e la sciura Mami mi ha detto che ero bad looking. Infatti mi sono guardato in uno specchio e non avevo una bella cera. Sono ricrollato a letto e mi sono svegliato che la marea era già quasi sotto al balcone, quindi suppongo fossero almeno le 4. Ho abolito qualsiasi cosa mi dica che ore sono. A cena sono sceso per buttare giù qualcosa, l’influenza era al suo culmine più violento e il ragazzo olandese mi ha dato due freesbee di paracetamolo; dopo un paio d’ore il mal di testa e di gola si sono attenuati, ho solo il naso chiuso. In serata siamo andati con due ragazze tedesche a bere qualcosa in un chiringuito, avevo bisogno di distrarmi, e sotto la luna siamo andati a fare il bagno, l’acqua era spettacolare. Sotto il pelo dell’acqua, i nostri movimenti lasciavano scie luminose. Dalle nostre mani si sprigionavano scintille di luce, tracciavamo arabeschi attorno a noi. Luzy diceva che non si poteva trattare di bolle d’aria, poichè le mani erano già sott’acqua. Un fenomeno che ci hanno spiegato solo dopo, ridendo; “Ma come, non avete visto The Beach?”. Si tratta di una specie di plancton bioluminescente. In quel momento per noi tre era un’altra piccola magia.

– I giorni trascorrono pigramente, passo ore oziando fra la spiaggia ed il bar, non posso chiedere di meglio. Sto velocemente rimpiazzando l’italiano, mi capita spesso di pensare in inglese. Ma a dire il vero, non ho molta voglia di intavolare grandi discorsi, mi sto dedicando al cazzeggio a livelli di eccellenza. Stamattina un’aquila enorme volteggiava sulla spiaggia. Il vecchio, il grande capo della guesthouse qui, si aggira soltanto con un sarong e gli occhiali da sole, sembra un cazzo di Ray Charles thailandese. Ogni tanto mi lancia gualche squardo di intesa, un lampo sopra le lenti nere, come a dire: io si che so stare al mondo. E non gli si può dare torto. Anche io guardo arrivare nuovi ospiti, sotto i loro zainoni, stupefatti e con l’acqua fino a metà coscia. Hanno la faccia che avevo quando sono arrivato io. Ora mi sento integrato, come se ci fossi da un mese, conosco le stradine e la gente, mi sento già un po’ a casa.

– Giornata in scooter, visita alle cascate, pigrizia diffusa. La ragazza canadese mi sorride, tutti sorridono. Di buon’ora noleggio una motoretta, che dev’essere una di quelle cilindrate impensabili che fanno in Cina, tipo 104. Il tipo mi dà anche un casco, che però deve essere omologato solo per giocare a scacchi, visto che a occhio e croce è di polistirolo. Decido quindi di godermi il vento fra i capelli. Il mio giro dell’isola parte in senso antiorario, nel versante orientale. Ma presto mi accorgo che questo lato ha proprio poco da offrire, una costa brulla e inospitale, qualche colata di cemento, qualche chioschetto allestito per i pochi che passano.Torno verso il lato occidentale. Qui gli scenari sono davvero notevoli, spiaggie tranquille, poca gente. Arrivo fino all’estremo sud dell’isola, alla laguna protetta, dove devo lasciare il motorino per poter accedere, mi danno una bicicletta. La tenuta è grande, scenografie oniriche. Dev’essere bassa stagione, o qualcosa di simile, perchè sembro esserci solo io e qualche vecchio miliardario della Florida. Il parco è stupendo e tenuto molto bene, qualche giardiniere pota i fiori, il cameriere del bar mi porta un pezzo di torta e una bibita “compresa nel prezzo”. C’è una specie di estuario di un fiume, e vecchi barconi (direi stile vaporiera del Mississipi) ormeggiati fungono da alloggi. Il tutto in un insieme armonico, non pacchiano. Nell’acqua salmastra nuotano pesci gatto grossi come foche. E poi la spiaggia. Oltre ad essere immacolata, orlata di palme spioventi, accarezzata dal vento tiepido, ha una caratteristica rara. E’ deserta. In lontananza alcune isole della Cambogia credo. Dopo un paio d’ore a pensare al destino del mondo sotto una palma, mi avventuro verso delle cascate all’interno dell’isola. Il sentiero è nelle vicinanze dell’ingresso del parco, c’è una sbarra arrugginita. Io da bravo italiano mi avventuro nella foresta in ciabatte, ma per il sentiero sono consigliabili delle scarpette con buona presa, o se si è uomini di mondo a piedi nudi, poichè il terreno non è sempre facile. Dopo un po’ arrivo alla cascata, ed è una vera oasi in cui rinfrescarsi e levarsi il sale dalla pelle. Ci sono solo io e due ragazzi, che dicono di essere svizzeri, ma che subito se ne vanno lasciandomi solo immerso nella quiete. L’acqua è limpida ed ha la temperatura perfetta che a casa con la doccia non ottengo mai. Ma un rumore turba questo scenario idilliaco: è il mio stomaco che mi ricorda che è ora di pranzo. Salto di nuovo in sella ed arrivo a Bang Bao, villaggio dei pescatori che sorge su tipiche palafitte. In pratica il paese è un pontile, attorno a cui si aggrappano case, negozietti, ristoranti ecc. In particolare i ristoranti possiedono vasche enormi in cui nuota qualsiasi cosa ingeribile da un essere umano. Crostacei, molluschi, pesci, alcuni veramente particolari, come il famoso limulo, un invertebrato che esiste da 500 milioni di anni. Decido di non contribuire ad estinguerlo ed opto per una specie di sarago gigante e multicolore, in un piatto tempestato di gamberi, capesante e contorni vari. Anche in questo ristorante di turisti ce n’è ben pochi, solo una famiglia di indiani ad un tavolo distante, impegnati come me ad affondare le fauci nei piatti. Un cameriere staziona vicino al mio tavolo, pronto ad ogni mia esigenza. Mi mette un po’ in soggezione, e quando mi riempie il bicchiere d’acqua, gli chiedo gentilmente di lasciar fare a me. Mi piace mangiare tranquillo, senza nessuno che invada uno spazio di almeno un metro attorno ai miei gamberoni. Anche il vino è buono, e il conto, di circa una quindicina d’euro, è ben oltre l’onestà. Soddisfatto e satollo, mi avvio verso un’altra baia a metà isola, di cui non ricordo il nome. Questo sembra un vero rifugio per turisti occidentali snob annoiati e ciondoloni, mi bevo una fanta, giusto il tempo di digerire il sarago imperiale. In serata ce la siamo spassata, e abbiamo bevuto anche un po’. Un dopocena in pieno relax al Sabay Bar, con Meika e gli altri, a fumare il narghilè guardando le stelle e l’ozioso moto della marea. Sono di ottimo umore, a parte qualche strascico di influenza. La serata si conclude con Koen e Luzy che sboccano sulla spiaggia, mentre io, rinvigorito per la ritrovata salute, sprizzo energia da tutti i pori.

– Oggi, tanto per cambiare, non sto facendo niente. E’ giusto che sia così. Questa spiaggia, questo clima, invitano ad una contemplazione senza orari nè scadenze. Faccio due tiri a pallone con dei ragazzi thai, catturo con un sacchettino di plastica una piccola medusa e la regalo a un bambino, figlio di un altro olandese, che la guarda meravigliato. Il padre, labbro leporino e faccia da pirata fiammingo, mi racconta che quando era giovane si è girato il Sudamerica da solo, e condisce gli aneddoti con una risata sibilante. Mi piace starlo ad ascoltare o raccontargli i miei viaggi, lui ogni tanto richiama il figlio che inizia a vagare lontano con la sua medusa. Il tempo sgocciola, mi accorgo di calcolarlo guardando il sole, o a che altezza sia arrivata la marea. All’imbrunire l’acqua arriva ai piedi della mia palafitta. Oggi Meika e Luzy sono partite.

– In mattinata presto siamo partiti per una battuta di pesca e snorkeling, un tragitto chiamato cinque isole. Sono andato con i tre francesi, Simon, Olivier ed Annabel; non parlo benissimo francese, ma con un po’ d’inglese e un po’ di mimica ci capiamo e andiamo subito d’accordo. All’imbarco eravamo un po’ delusi, la barca era molto turistica. Ci siamo divertiti tuffandoci dal parapetto con degli orientali, forse cinesi ricchi, che ci scattano le foto stupefatti da tanta tamarraggine mediterranea. Ma appena raggiunta un’isola, ci siamo messi maschera e boccaglio e ci siamo lasciati alle spalle le furgonate di orientali. I quali, devo dire uno spettacolo abbastanza triste, formavano delle specie di catene coi giubbotti salvagente e si facevano trainare da una barchetta di supporto, tenendo la testa sott’acqua col boccaglio. Io e i francesi ci avventuriamo nella circumnavigazione a nuoto dell’isola. Lo snorkeling ci dà grande soddisfazione: é la prima vera barriera corallina che vedo, ed è a mio avviso spettacolare. Coralli di ogni colore, anemoni di mare, stelle marine grosse come angurie. L’entusiasmo non è esagerato, per essere la prima volta. Mi diverto ad inventare i nomi dei pesci che vedo: pesce termometro, pesce sottomarino marrone, pesce sbruffone ecc. In un punto, dove la corrente è abbastanza forte, un’onda mi sbatte contro un corallo enorme e ovviamente mi taglio. Me ne accorgo solo quando vedo che dei pesci mi stanno assaggiando le caviglie, in una nuvoletta rossa. Sulla barca, memore di quanto sia infida e infettabile una ferita da corallo, mi verso sopra del brandy che Olivier gentilmente mi offre. Dopo avere guardato ben bene il fondale ed ogni suo ospite, ci dedichiamo alla pesca dalla barca. Anche qui, sembra di pescare alle vasche del ristorante. Ci sono talmente tanti pesci che alcuni adottano una singolare tecnica di pesca. Montano due ami grossi in fondo alla lenza, a circa 5 centimetri di distanza. A quello superiore attaccano l’esca, di solito un tentacolo di seppia o simili, mentre quello sotto rimane vuoto, con i tre uncini minacciosi. Poi cosa fanno, pasturano con del riso, ed arrivano i pesci. Quelli, quando vedono l’esca, non gli pare vera e ci si abboffano talmente in tanti che basta strattonare la lenza per agganciarne qualcuno con l’amo vuoto sotto. Prendo tre pesci di circa una trentina di centimetri, ed un meraviglioso pesce turchese si stacca dall’amo quando lo vedevo già nel secchio. L’avrei liberato, tanto era bello e probabilmente non commestibile. Gli altri tre però sono buoni, anche i francesi tirano su bene, e in serata grigliamo tutto sulla spiaggia. Serata con birretta e biliardo.

– Mi sono svegliato di soprassalto, per delle voci che arrivavano dalla spiaggia. Ho deciso, oggi lascio Koh Chang. Sono triste, devo ammetterlo, è una decisione che mi costa ma non posso passare tutto il tempo su un’isola, per quanto felice. Saluto Koen, Sao, Da e tutti gli altri con malinconia, ci spiace perderci per strada ma ognuno ha il suo viaggio da fare.

Ci sono un tedesco, un francese ed un italiano che devono arrivare al porto. Il tedesco ferma un songthaew (taxi collettivo) il quale gli chiede 150 baht a testa. Il francese, che parla un po’ di thai, ne ferma un altro e riesce a cavare 100. L’italiano spegne la sua sigaretta, ferma il primo pick-up che va verso nord ed ottiene un passaggio per tutti.

Arriverò nel tardo pomeriggio a Bangkok, dove prenderò un treno e, secondo i piani, domani mattina dovrei essere a Nong Khai, alla frontiera con il Laos.

6 agosto – Bangkok – Ayutthaya (Il viaggio riprende dalla frontiera con il Laos, nel nord della Thailandia). Riassumo brevemente gli ultimi giorni. Dopo il viaggio della speranza, dal confine del Laos fino a Bangkok, incontro Marco al Suk 11, che dicono essere uno degli ostelli più belli della capitale. In effetti ad una prima occhiata non tradisce le aspettative, ma purtroppo è pieno, per cui decidiamo di ripiegare sulla Sawasdee House. Ci danno una doppia senza pretese, che si affaccia sul macello ininterrotto della strada sottostante. Ieri lo abbiamo passato girando la città in lungo e in largo, con tuktuk, barca e skytrain, e soprattutto facendo shopping (abbiamo ribattezzato l’artigianato locale “buddhanate”). Nei canali, fra ville sontuose e palafitte marcescenti, gli incontri interessanti non mancano. La vita. Lontana dalle arterie d’asfalto, è molto più tranquilla. Uomini che pescano pazientemente, bambini che fanno il bagno nelle acque marroni dei canali, tutti salutano e sorridono. Varani di grosse dimensioni che si arrampicano pigramente sugli argini, le immancabili effigi del re in ogni dove. Ieri sera siamo andati in Patpong a fare un po’ di vasche fra le bancarelle, e siamo entrati a dare un’occhiata in uno dei famosi go-go bar, in cui le prostitute ballano e adescano clienti. Non voglio fare moralismi, ma la situazione non era molto piccante. Le ragazze si agitano annoiatamente, un numero attaccato al costume le identifica. Forse hanno subodorato che da noi caveranno ben poco, perchè non veniamo importunati più di tanto. Offriamo da bere ad un paio di esse per scambiare due chiacchiere. Un grosso orientale ne ha due incollate addosso, noi guardiamo incuriositi le ardimentose manovre sul palco. Le donne si esibiscono con palline da ping-pong, cerbottane, lamette; il come lo lascio all’immaginazione. Qui la prostituzione non è ad esclusivo appannaggio di povere emarginate, ma coinvolge ragazze di tutti i ceti sociali, che la svolgono come un lavoro qualsiasi. Passato lo stupore iniziale per lo show, torniamo fuori fra le bancarelle. Stamattina Marco si è svegliato presto per andare a prendere Andrea all’aeroporto. Poi siamo partiti in battuta per andare ad Ayutthaya. La città è molto più tranquilla di Bkk, abbiamo fatto un pranzo luculliano e conosciuto due ragazze americane, a cui diamo appuntamento stasera alle 7 al Tony, uno dei pochi locali in città. Di vita comunque ce n’è ben poca, per fortuna veniamo salvati dalla depressione incombente da un prestigiatore di strada che ci delizia con mille giochini divertentissimi.

7 agosto – Ayutthaya La mattina noleggiamo due scooter e vagabondiamo per la città, fra templi in disfacimento, elefanti, bande musicali con le giacche viola ed enormi Buddha di pietra. Ai piedi di uno di essi svolgiamo il rituale, che consiste nell’attaccare una lamina dorata alla pietra e accendere una candela. Non so se sia contemplato anche la realizzazione di un piccolo desiderio, o se quella di chiedere favori sia un’usanza solo occidentale. Sono poco ferrato sulle usanze religiose, esprimo quindi una richiesta non molto complicata da esaudire. A ora di pranzo abbiamo praticamente visto tutta la città, che a dire il vero ci aspettavamo un po’ più caratteristica. Siamo indecisi, vorremmo andare a Lopburi ma temiamo che, una volta visti i tre templi e le famose scimmie, si riveli una città un po’ malinconica come qui. Dopo una pacata discussione (i soliti piatti che volano e sedie ribaltate), decidiamo di andare verso il mare. Questo perchè Luca arriva fra tre giorni e non avremmo il tempo materiale di vedere qualcosa di più lontano. Pattaya è la località balneare più vicina, la guida ne parla come di una specie di girone di perdizione e lussuria. E andiamolo a vedere, sto girone infernale! Torniamo quindi a Bangkok in treno, e qui prendiamo un pulmino assieme ad un gruppo di ragazzi israeliani e due olandesi. Arriviamo a Pattaya in serata. La Walking Street è una specie di rutilante succursale di Las Vegas. Ristoranti, negozi e go-go bar immensi. Qui questi posti sono ancora più sfacciati, sono in pratica dei mercati a cielo aperto, le ragazze urlano come matte per farci avvicinare. Gridano ” Halò – sexyboy – aliugoing – velcom – massage!” in una sorta di loop ipnotico. Questi posti, lasciata un attimo in disparte la facile morale, sono senz’altro caratteristici, se non altro per farsi due risate. Non c’è sfruttamento, forse meno rispetto a un ragazzo occidentale che lavora in un call-center, e comunque non sta a noi giudicare le usanze di questo popolo, ne abbiamo abbastanza di croci da portare già col nostro. Vorremmo portare Andrea a vedere uno dei famosi ping-pong show, ma il locale sta chiudendo. I ristoranti vendono aragoste di dimensioni spropositate, sembrano cuccioli di alano. Ne facciamo pesare una per curiosità, è quasi quattro chili e lunga più di un avambraccio. Ecco, sono grosse come le pantegane che corrono all’ingresso della via, dove ci sono anche alcune facce poco raccomandabili. Finiamo la serata in spiaggia, dove conosciamo Fabrizio, che diventa subito il nostro idolo per le sue rivelazioni illuminanti che diventeranno hit della vacanza (“Ragassi (perchè ha l’accento emiliano), non fidatevi, sembrano brave ragasse ma son tute batone.. E MA NON CAPISCO!) Alla quinta volta che viene in Thailandia, sembra aver finalmente appurato che molte ragazze qui non sono disinteressate .

8 agosto – Pattaya La giornata la passiamo vagando spensierati per la città, percorriamo il lungomare fino all’estremità nord. Il mare non è granchè, decidiamo quindi di fare qualche compera per passarci via. Prendo un paio di pantaloni perchè quelli che indosso ormai non li metterebbe neanche un minatore. Si vendono anche innumerevoli patacche, rolex finti non male, e gioielli di scarsa qualità. Particolarmente molesti sono i sarti indiani, che insistono per farci dei vestiti su misura. Con uno, purtroppo, vengo quasi alle mani perchè praticamente mi strattona per trascinarmi dentro il suo negozio. La serata si conclude con un ladyboy (o katoy.. Un travone, per capirci) che nel bel mezzo della Walking, prima prova ad adescare Marco, e poi tira una cinghiata ad Andrea che gli dice di lasciar perdere. La situazione è talmente surreale che ci allontaniamo frettolosamente, la reazione immediata sarebbe quella di riempirlo di botte ma il suo aspetto femminile ci disorienta, e decidiamo di tornare in hotel.

10-11 agosto – Bangkok Siamo tornati a Bkk per recuperare gli ultimi due compagni di viaggio che ancora mancano all’appello, Luca e Nando. La città ora mi appare insopportabile, l’inquinamento mischiato agli odori agrodolci del cibo, il clima soffocante che non dà tregua, assieme all’insistenza di alcuni venditori. Nando lo incontriamo in un hotel in una traversa di Sukhumvit. Dietro suo consiglio, decidiamo di andare al “the Club”, uno dei pochi locali che tiene aperto fino all’alba. Molti farang, alcune ragazze thai apparentemente senza secondi fini, musica house pompata al limite della sopportazione, aria condizionata tipo cella frigorifera. Dopo un po’, vuoi per il gelo vuoi per l’alcool, ho un principio di collasso e mi siedo al divanetto all’ingresso ad aspettare gli altri. Siamo brilli per non dire ubriachi. La serata si conclude con una marea di baht spesi e il guidatore pazzo di tuktuk, che ci delizia impennando il suo mezzo di un metro buono e rischiando il ribaltamento. Quando arriviamo integri alla guesthouse, gli battiamo le mani e gli lasciamo una buona mancia.

– Oggi è stata la giornata dedicata alle compere, nel gigantesco mercato di Mo-Chi (spero di averlo trascritto giusto). Saranno diecimila bancarelle divise per settore, vestiti, artigianato ecc. Se avessi i soldi comprerei la metà della roba che vedo, begli oggetti anche da regalare. Per cui mi accontento di girare e guardare. Purtroppo non riesco a godermelo fino in fondo. Esattamente come Marco in Sudafrica, dopo circa 3 settimane di assunzione, il Lariam (profilassi antimalarica che sto facendo per Lao e Cambogia) dà luogo ai suoi terribili effetti collaterali. Premetto che sono abbastanza forte, ho affrontato Messico e Marocco e altri Paesi “a rischio” senza avere il minimo turbamento interno, diciamo. Invece, dopo un po’ che ci inoltriamo fra le merci, inizio ad avvertire forti capogiri, nausea, pressione a terra. Dico agli altri di continuare pure il loro giro, mentre io mi fermo ad un baretto all’ombra. Pur non avendo mangiato praticamente nulla, vomito l’anima in un tombino, una ragazza pietosa del bar mi porta del ghiaccio che mi dà un po’ di energia. Me lo passo sulla fronte fino a che non si scioglie, e vedendo che mi sta ripigliando ne chiedo ancora. Non appena sono in grado di mettermi in piedi, mi dirigo a malincuore verso l’uscita. Prendo un tuktuk il cui guidatore, dopo avermi chiesto varie volte se, per caso, voglio fare un vestito o un bum-bum, e di fronte alle mie risposte inferocite, mi porta finalmente in albergo, dove dormo qualche ora. Mi sveglio rintronato nel tardo pomeriggio, e decido di fare due passi in Khao San per vedere se gli altri si sono incontrati con Luca, con cui avevamo un appuntamento. Lo trovo che vaga solo e spaesato, zaino in spalla, e lo accompagno in camera. Gli altri arrivano ad ora di cena, freschi freschi, carichi di borse; erano a fare shopping, meno male che Luca l’ho beccato io per caso. In serata prenotiamo il pullman per Siem Reap (in Cambogia) a 2300 baht compreso il visto. Gli altri vanno poi al Lumphini Stadium per assistere ad un incontro di Muay Thay, mentre io rimango in camera a riprendermi, visto che domani la sveglia è alle 6. Un ultimo appunto, anzi due, del tutto scollegati dal contesto ma che mi sento di fare ora.

1) Tutte le guide vi parleranno dell’affabilità e del sorriso dei thailandesi. Verissimo. Ma pochi menzioneranno l’altro, sinistro, lato della medaglia. E cioè che se vogliono vendervi qualcosa diventano dei veri rompicoglioni, secondi solo, forse, agli indonesiani.

2) In Thailandia due cose sono essenziali, da portare con sè. La prima sono dei sacchettini di plastica, da tenere sempre con sè per bloccare i bocchettoni dell’aria condizionata. Ho notato che in tutti i Paesi tropicali la usano con violenza, come uno status symbol, del tutto incuranti alle proteste. La seconda è la carta igienica, a meno che non siate in prestigiosi hotel internazionali, visto che l’idea di igiene intima, in tutta l’Indocina, si esprime al massimo con un secchio di acqua torbida vicino al cesso, il cui uso non oso immaginare.

25 Agosto – Satun – Koh Samui (Il viaggio riprende dalla frontiera con la Malesia, nel sud della Thailandia). Risveglio brusco e imbarco all’ultimo minuto sul traghetto che mi porta a Satun, in Thailandia. L’ufficiale di frontiera conta spaesato i visti, le pratiche sono abbastanza veloci. Fortunatamente, un francese silenzioso con trolley va a Koh Samui, per cui mi aggrego. Con 750 baht posso raggiungere l’isola, e poi decidere se avventurarmi a Koh Pangan o Koh Tao. Tragitto con minivan fino ad Hat Yai e Surat Thani. Il traghetto per l’arcipelago partirà stanotte, per cui mangio in un ristorantino al porto, brodo di riso e pollo. La barca ha un’aspetto un po’ antiquato, ma ha un suo fascino, l’idea che si avventuri nella notte dell’oceano coi suoi legni cigolanti e i suoi bulloni arrugginiti. Al primo piano vi è la stiva e i motori, al secondo, su un pavimento di legno, una distesa di materassini dall’aria vissuta, su cui stendo il sacco lenzuolo. Famigliole thai, bonzi, qualche farang, una ventina. Scelgo una postazione d’angolo, con un oblò che si affaccia sulle tenebre e da cui fumo l’ultima sigaretta prima di sdraiarmi. Dormo bene, il mare è una distesa d’olio ed il rumore del motore si attenua durante il viaggio.

26 Agosto – Koh Samui Entriamo nel porto all’alba, il cielo appena rosa all’orizzonte, un gruppetto di tassisti mattutini cantilena le destinazioni. Come al solito i falang si consultano, si formano i gruppetti che si sparpaglieranno per l’isola. La mia meta è Chaweng Beach, e sembra che ci vada anche qualche faccia simpatica. Con me, sul songthaew, un gruppetto di canadesi, tre ragazze e quattro ragazzi, con cui simpatizzo. Arriviamo che chiareggia, i canadesi fanno colazione da un Burger King, mentre io, fuori, scambio qualche informazione con dei pisani recuperati in strada. Loro, prima di qua, son stati dieci giorni a Phiket e hanno preso praticamente solo pioggia, per cui probabilmente ho scelto la costa giusta. Qua mi consigliano un resort, il Chaweng Garden, dove trovo una doppia a 500 baht. Uno dei canadesi è spaiato, sembra una persona per bene e decidiamo di prenderla insieme, soprattutto perchè l’alternativa è andare a cercare un altro posto, visto che molti hotel sono pieni. Il bungalow, in un complesso fra le palme, è abbastanza pulito e ordinato, ad una ventina di metri dal mare. Il gruppo di canadesi è attivissimo, decide di prendere un taxi collettivo per fare un giro dell’isola ed io mi faccio tirare in mezzo, anche se mi proietterei volentieri in spiaggia a farmi fare un massaggio mentre sorseggio un cuba. Andiamo a vedere l’ennesima cascata, da cui ci tuffiamo, ed un gruppo di scogli dalla curiosa forma di genitali. Dopo una foto collettiva sulla cappella di roccia, ci dedichiamo ad un pomeriggio nei negozietti di artigianato, dopo di che mi faccio il meritato riposino. Cena luculliana in riva al mare, crostacei e pesce, vino bianco non dei migliori, collane di fiori. Con le canadesi fumo il narghilè, distesi sulle stuoie, fra i cuscini, guardiamo i palloni di carta con la lampada dentro alzarsi nel cielo e farsi portare via dal vento. Conosciamo due ragazze californiane, con cui ci diamo appuntamento all’ Happy Bar, salvo poi scoprire che ce ne sono almeno 4 di posti con quel nome, un paio dei quali di dubbia fama. Nottata etilica a vagare da un locale all’altro, la vita notturna si concentra in un paio di posti facilmente raggiungibili. Finiamo sulla spiaggia ad aspettare l’alba, le ragazze fanno il bagno, Monica mi invita nell’acqua ma io preferisco aspettare sulla sabbia tiepida. Fumiamo con un thai che si è unito al gruppo, ci spiega quali zone dell’isola secondo lui sono le migliori per comprare o per fare il bagno, eccetera. Non male, come primo giorno a Koh Samui. L’isola è bella, bikini farang sulla spiaggia, buona la possibilità di alloggiare e fare acquisti a prezzi onesti, gente tranquilla; alla sera la movida è frizzante, finalmente, dopo il ritiro spirituale nella musulmana Malesia. Frase del giorno : “Where the fuck is the third Happy Bar?” 29 agosto – Koh Phangan – Full Moon L’isola di Koh Samui si presta ad essere girata facilmente in scooter. Fra le attrazioni, un buddha dorato gigantesco (e un po’ pacchiano, con lucine tipo luna park), il Butterfly Garden (un parco racchiuso da reti dentro cui volano migliaia di farfalle) e molte spiagge lontane dal turismo di massa, magari meno adatte al bagno ma senz’altro affascinanti.

Stanotte siamo stati a Koh Phangan. Siccome ieri pomeriggio tutti fervevano per via della luna piena e del Full-moon party, pur non essendo un grande amante del genere decido di unirmi a loro. Al porto, ci recupera una speed-boat, siamo un gruppetto nutrito, ovviamente tutti falang. La barca è una scheggia nella notte, limpida e luminosa per via della luna, solleviamo grosse creste di schiuma bianca dietro di noi. Una ragazza inglese scopre di soffrire il mare, per fortuna si allontana. Da lontano, avvistiamo le luci della festa. Sono curioso di verificare quante leggende su questa festa siano vere. La spiaggia, nel buio, luccica di centinaia di chioschetti, neon, ragazzine ubriache, impianti stereo, mangiafuoco. Ci sono zone in cui la musica è pompata, altre dove si può far riposare i timpani e osservare i giocolieri o la gente che balla seminuda ricoperta di vernice fosforescente. Coi canadesi faccio un patto di aiuto-controllo reciproco, ripromettendoci di non perderci di vista. Bisogna dire che non girano solo ettolitri di alcol, per cui cerchiamo di tenerci alla larga da situazioni spiacevoli. Un poliziotto ispeziona il mio zaino, e mi augura gentilmente di divertirmi. Tutta la notte abbiamo ballato, riso, soprattutto bevuto parecchi bucket di lamencoke; credo di aver cambiato tre volte le ciabatte nel corso della serata. Ci ritroviamo all’alba, a sonnecchiare sulla spiaggia, praticamente sotto un woofer. Io sono dipinto di roba fluorescente peggio di quelli che pigliavo per il culo quando sono arrivato. Centinaia di persone, barcollanti, aspettano con l’acqua fino alla vita l’arrivo delle spead-boats. Silhouettes nere contro il cielo rosa e arancio, come animali migratori verso la prossima festa. Devo ammettere che mi sono divertito, anche se questo genere di feste non rientra nella pura filosofia routard, ogni tanto è giusto prendersi una pausa e godersela un po’. Delle lampade-mongolfiere di carta annuiscono, mentre si sollevano lente dalla spiaggia su cui si trascinano gli ultimi e già si smontano i baracchini e i sound system.

30 agosto – Koh Samui Giornata finale sull’isola. Stamattina i canadesi sono partiti, ho intravisto nel sonno Ryan che mi faceva un cenno di saluto. Avrei voluto salutarlo meglio, ma il dormiveglia mi ha sopraffatto. Quando sono uscito, noto che sulla porta c’è una busta con dei soldi. C’è una lettera di Rehzad, uno dei canadesi, che dice a Ryan che ha deciso di partire all’improvviso, e gli rende i soldi che il mio compagno di stanza gli aveva anticipato per una gita. Non posso fare altro che tenerli, sono circa 15 euro. In spiaggia, sotto una palma, mi faccio fare un massaggio mentre sorseggio un cuba, che mi scioglie un po’ di stanchezza per questi ultimi 51 giorni in Indocina. Passo la serata facendo una passeggiata, fra bancarelle e locali, o a giocare a biliardo con le ragazze dei go-go bar, ovviamente fortissime. All’alba, inglesi ubriachi e ladyboys che vagano per la strada. Un pitbull con una collana di fiori. Sentimenti da fine della festa, devo dirigermi verso nord per raggiungere Bangkok, dove Luca e Marco mi racconteranno come è andata fra le montagne del nord.

Le fotografie ed il video “LAMBRATESI IN INDOCINA” sono disponibili sul mio sito Il viaggio in Indocina non finisce qui! Consulta anche “Lambratesi in Cambogia – in Laos – in Malesia”



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