Ladakh: spiritualità e calorie
Jullay
"Jullay, jullay" ci salutavano con le mani tese i bambini correndo dietro alla corriera sgangherata che, dopo aver superato un piccolo villaggio, arrancava sullo sterrato tra Leh e Manali. Al villaggio erano salite alcune donne con delle ceste di verdure da portare ad un mercato qualche kilometro più avanti. I vestiti di pelli avevano...
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Jullay “Jullay, jullay” ci salutavano con le mani tese i bambini correndo dietro alla corriera sgangherata che, dopo aver superato un piccolo villaggio, arrancava sullo sterrato tra Leh e Manali. Al villaggio erano salite alcune donne con delle ceste di verdure da portare ad un mercato qualche kilometro più avanti. I vestiti di pelli avevano un odore forte di sporcizia antica; i Ladakhi non si lavano molto, un po’ per il clima severo, un po’ per inclinazione naturale, malignano i mussulmani che stanno più a valle in Kashmir. Stupende collane di coralli fossili al collo e sulla testa degli straordinari perak ricoperti di turchesi grezzi e portareliquie d’argento a coprire la massa di capelli impastati di grasso per proteggersi dai pidocchi. Sguardi sereni, forse pensando ai due o tre mariti che ciascuna aveva lasciato a casa a zappare il terreno ciottoloso e avaro dei 4000 metri. Nella società matriarcale del Ladakh, le donne praticano comunemente la poliandria e si dedicano al commercio dei prodotti. Avevamo lasciato alla nostra destra la confluenza dell’Indo con lo Zanskar, dove i flutti terrei e limacciosi del primo si mescolano con una linea netta con le grige acque del secondo e salivamo la stretta valle verso Hemis. Tra le brulle pareti a V, l’Indo aveva un corso precipitoso e mulinante che non fa prevedere le dimensioni che il grande fiume assumerà dopo essersi buttato nelle pianure pakistane a fertilizzare una delle culle della cultura umana. In un tratto più largo dove la corrente sembrava avere un po’ di tregua, la corriera sterzò decisamente dalla carrareccia e con piglio deciso si gettò in un guado che sembrava avventuroso. Anche le nostre vicine odorose guardavano la corrente con occhio meno sereno, mentre l’acqua a poco a poco saliva lungo i fianchi del mezzo. Al centro del fiume l’acqua entrò all’interno bagnando gli zaini che avevamo lasciato sul pavimento. Alzammo i piedi sui sedili, poi pian piano uscimmo dal guado e guadagnammo l’altra sponda. Giunti al paese le donne se ne andarono verso il mercato con le gerle sulla schiena; noi, dopo aver visto il grande monastero di Hemis, Lonely Planet alla mano, cominciammo a salire per un sentiero lungo il fianco della montagna. Dopo i 4500 metri la salita è durissima e ci vollero più di tre ore per fare i tre o quattrocento mentri di dislivello che portavano ad una piccola gompa nascosta tra le rocce. Il paesaggio era abbagliante. Nel sole a picco del primo pomeriggio, dall’altro versante della valle, una parete ocra di roccia scistosa sembrava spaccata da un gigantesco colpo di sciabola, con gli strati geologici in diagonale in piena vista a formare una coda di rondine verticale di almeno mille metri, stagliata su di un cielo cobalto. L’aria era tersa e fine e calmato il respiro affannoso, entrammo nel piccolo tempio e ci sedemmo in un angolo ad ascoltare silenziosi le preghiere ritmate di quattro anziani monaci. Terminato l’ufficio, si ritirarono a meditare, mentre uno si avvicinò a noi salutandoci a mani giunte. Il contatto non era facile, ma intesi che stavano lì da anni ed un loro quinto compagno viveva in meditazione e digiuno, per sei mesi all’anno in una grotta cinquecento metri più in alto, che ci mostrò con serenità. Era molto vicino all’illuminazione. In queste condizioni e con l’aria molto rarefatta, si è portati a credere a tutto e la magia del luogo aiuta e convince. Chiesi se proprio non mangiava nulla per sei mesi; maledissi la mia miscredenza di occidentale legata alla corporeità e incapace di afferrare la trascendenza orientale, mentre il monaco mi guardava quasi con rimprovero ma con occhi buoni. “Durante il digiuno non si mangia – sottolineò la evidente tautologia – Una volta al giorno gli portiamo da bere qualche litro di thè.” Guardai la ciotola di thè tibetano che ci aveva offerto, considerando la sua composizione costituita da circa il 30% di burro di yak emulsionato e cominciai a capire. Lasciammo la gompa non prima di aver lasciato un cospicuo mazzetto di rupie in cambio di una paginetta dipinta di un libro sacro che il monaco dagli occhi buoni teneva pronta nellle pieghe del saio rosso. Scendemmo a valle, mentre l’ultimo sole impastava il cielo dello stesso colore.