La scelta di Picasso
Dopo Picasso, la pittura non è più come prima, come i luoghi e la storia dopo il passaggio di Napoleone. Doveva formarsi in un luogo dove il prosciutto diventa jamón serrano, dove la Madonna diventa Nuestra Señora del Mayor Dolor, dove la gioventù del loco per le vie si spande, e mira ed è mirata e in cor s’allegra ogni santa sera dell’anno, e a mezzanotte il centro storico è animato come di giorno e più. Ma perché Malaga e non Cordova o Siviglia? Per amor di libertà, per non aver la palla al piede di troppa nobiltà, di troppa arte, di troppa notorietà. Quelle sarebbero venute da sole, come conseguenza, dopo: all’inizio gli sarebbero state d’impaccio. E infatti a diciannove anni Picasso lascia il borgo natìo per non farvi più ritorno. Malaga, un porto aperto agli scambi e alla diversità, è una città giovane, briosa e piacevole, dove l’eredità comune alle otto capitali andaluse – una sontuosa cattedrale, un imponente castello e una fortificazione araba – non danno ombra al mercato Atarazanas dove, dietro il portale dei mori e sotto le colonne di ghisa, si danno appuntamento ogni giorno frutta e verdure coloratissime. Malaga, trascorso l’obbligatorio periodo in cui si è solo fuori moda prima di diventare vintage, rende onore al suo figlio più illustre aprendo al pubblico la casa dei suoi primi anni e uno stupendo museo di orribili opere – motivo per cui non figuravano nelle collezioni già esistenti – ma proprio per questo assolutamente fondamentali per capire il genio di Picasso, la sua impostazione, e quasi vedere la sua mano menar sciabolate sulla tela. Di nuovo, lui stesso lo dice: “A che serve un’opera d’arte se non ti fa rizzare i capelli, se non ti fa venir la pelle d’oca?”. L’impatto di queste eiaculazioni precoci – non per niente i quadri riportano l’indicazione di una data precisa, quando altri artisti impiegano mesi o addirittura anni per portare a termine un lavoro – è devastante, rivelatorio e profondamente soddisfacente. Per capire Picasso non è a Parigi, a Barcellona o ad Antibes che occorre andare, ma a Malaga. Preferibilmente vestendo una corazza. Che si può lasciare nell’armadietto, quando si visita il nuovo museo Carmen Thyssen, visto che l’obiettivo dei pittori esposti lì è di piacere. Degli artisti la cui fama non ha oltrepassato i confini del proprio paese non si sa, ma anche la Spagna ha la sua schiera. I paesaggi e personaggi popolari passano in rivista qui, mentre i santi, i religiosi e la nobiltà sfilano in parata nell’arioso Museo di Belle Arti di Siviglia. Arte pura – per il palato, stavolta – è anche quella che il bar Casa Aranda trasfonde nei suoi churros, dolci fritti leggerissimi da intingere nella cioccolata calda, spessa come una crema, per iniziare bene il giorno. E arte ancora si ascolta a Kelipé, un’ora di flamenco implorato, ballato e suonato con un’autentiticà rara. John, il chitarrista, ha un formidabile pedigree di maestri e, a giudicare dalla velocità, precisione e complessità delle sue figure, deve certo aver venduto l’anima al diavolo. Altrove si inscena uno spettacolo – sentito e dignitoso, come quello della Casa de Sefarad di Cordova – ma la sua, a Malaga, è un’operazione a cuore aperto, emozionante e indimenticabile.
La Costa del Sol tra Malaga e Almeria è punteggiata di paesini candidi che invitano alla spiaggia e all’ozio. Nerja, oltre ad uno splendido balcone sul Mediterraneo che ricorda le pittoresche falesie delle Cinque Terre, attrae i turisti per le impressionanti grotte, scoperte giusto una cinquantina d’anni fa da cinque monelli. L’enorme colonna centrale nella Sala del Cataclisma vanta il Guinness in quanto a diametro. E cataclisma è l’unica parola che possa descrivere il distacco di una di queste stalattiti dalla calotta della grotta: a giudicare dagli enormi spuntoni che tappezzano il pavimento, creando un panorama sotterraneo da trip acido, negli ultimi cinque milioni di anni se ne sono succeduti parecchi.
Quanto Malaga è festaiola, tanto Almeria è schiva, come fosse la città a scrutare il nuovo arrivato e non il turista a cercarne la personalità. La guida menziona molti lavoratori stagionali dalla dirimpettaia sponda d’Africa, e forse le loro usanze riservate e la loro cultura rigida contagiano alla città un’impersonalità che la mole massiccia della cattedrale – costruita come fortificazione contro le incursioni dei pirati, frequenti nel medioevo – rinforza. Qui le diversità culturali si fanno evidenti: gli europei non conoscono l’ineluttabile fissità della pietra color di sabbia, la dittatura di un’architettura erta a baluardo contro il nulla del deserto e delle distanze, e reputano il sole principio di vita, non arsura di morte. Al calar della luce, le strade si svuotano, e quelle più antiche, labirinti arabi per difesa dagli uomini e dal sole, occultano di certo fatti senza voce e persone senza volto, uomini dalla pelle bruna, smunti, che parlano rapido a mezzi gesti e a voce bassa, attratti qui forse dal vicino Desierto de Tabernas, l’unico deserto del nostro continente, che tutti abbiamo visto nei film di Sergio Leone. Eppure son proprio loro, gli invasori venuti dal sud, ad aver dato ad Almeria il proprio motivo di vanto: la Alcazaba, il castello che la domina da un’altura e la cui rampa d’accesso profuma dell’intricatissima rete di rampicanti in fiore che ne ricopre completamente le mura, che assieme alle palme e alla distesa azzurra del Mediterraneo crea un colpo d’occhio da copertina. Dei suoi tre livelli, il primo è tutt’un gioco di pendenze, alberelli, canali d’acqua, marmi, fontane, siepi e rose, la giusta preparazione per sgrossare l’animo ed elevare lo spirito prima dell’incontro, nei due livelli superiori, col signore della città.
Quegli stessi elementi fanno dell’Alhambra l’Alhambra. E pensare che, poco lontano da Granada, tante famiglie vivono in caverne sulle pendici delle colline di Guadix – abitazioni dall’esterno molto pittoresche, calce bianca sui muri ravvivati dal rosso acceso dei gerani – un po’ quelle dei puffi (quelle vere dei puffi, quelle del film, si trovano a Júzcar, ex-paesino bianco, ora dipinto celeste puffo). Memore delle poderose stalattiti di Nerja, mi chiedo come si difendano dalle infiltrazioni. E a La Calahorra, poco lontano da Guadix, un privato ancora possiede un castello, uno di quelli massicci, da fumetto, colle torri agli angoli e la muraglia di protezione, e ci vive. Ciascuno crea la propria vita, e ognuno costruisce la propria casa: di località in località, i variatissimi stili rendono l’Andalusia continuamente sorprendente. Una molteplicità di espressioni che non deve essere sfuggita al poliedrico Picasso. Dalle caverne di Nerja – dove abitavamo quand’eravamo cacciatori dell’età della pietra – all’Alhambra, ne abbiamo fatta, di strada. Eppure qualche somiglianza rimane, nelle elegantissime muqarnas – le vertiginose stalattiti che ne ornano i soffitti –, nella moltitudine di colonne, nella presenza dell’acqua. Da un patio o addirittura da una stanza aperta, un filo d’acqua scorre fino al centro del giardino, donando frescura ma – e qui s’avverte un altro forte stacco culturale con l’Occidente – acqua trattata come elemento sacro, prezioso e impreziosito dalle sculture e dalle fontane. Un connubio, questo tra pietra e acqua, che appartiene oggi alla cultura giapponese, raffinata e sublime, pur se sottesa da un’implicita violenza. E, come quella, gli archi a ferro di cavallo, le dimensioni raccolte, l’organizzazione quasi familiare degli ambienti e il ritmo gentile delle architetture, accompagnate dalla festa dei giardini in fiore, inducono – nonostante la nudità delle stanze – un’estasi estetica. Boabdil, l’ultimo sultano, cacciato da questo paradiso dai re cattolici, sospirò, e, tanto per chiarire il ruolo delle donne nella storia, sua madre rincarò la dose con l’immortale “Ora piangi come una donna, lasciando quel che non sei stato capace di difendere come un uomo”. La notte nasconde i virtuosismi architettonici e invade di silenzio i marmi bianchi, i cortili in intima attesa, le siepi e le ombre, mentre le iscrizioni dei muri ripetono, come in un coro a bocca chiusa: “Non c’è altro vincitore che Allah”. L’acerrimo e multisecolare scontro tra Maometto e Gesù Cristo rivela la propria reale, economica natura nell’iscrizione sul poco distante Monasterio de San Jerónimo: “Soli Deo Gloria”: un’identità di vedute, tra i fautori della mezzaluna e quelli della croce, che con amara ironia distrugge d’un sol colpo ogni fondamento religioso una guerra possa avere. Ciascuno dà alla propria un volto diverso, ma l’atteggiamento verso la divinità è il medesimo dappertutto. Alla gloria di Dio sono dedicate sia le infinite decorazioni calligrafiche dell’Alhambra quanto le volute dorate delle vertiginose pale d’altare della Basilica di San Giovanni di Dio, che realizzò la sua vocazione di soccorritore degli ammalati proprio a Granada, divenendone il santo patrono. Anche gli eccessi del barocco andaluso – tanto spettacolari quanto insostenibili sia in questa chiesa come nella Iglesia del Salvador di Siviglia – trovano un riscontro negli eccessi forsennati di Picasso, per il quale ogni giorno era buono per coprire un altro spazio dell’universo. E la compostezza rinascimentale delle tombe della Cappella Reale – Filippo il Bello con Giovanna la Pazza e Ferdinando con Isabella –, che mostrano un’umanità che finalmente trova pace, si accorda colla serenità scultorea e quasi metafisica del suo periodo neoclassico, precursore dell’ordine che troviamo nei nostri Carrà e Sironi.
Conclusa la reconquista cristiana della penisola nel 1492, la transizione architettonica della Spagna dalle trine arabe alla monumentalità europea veniva informata dal Rinascimento. I canoni italiani erano applicati con innegabile entusiasmo unito a una certa pesantezza di mano: siamo comunque in provincia. Ecco allora che parte dell’Alhambra viene demolita per far posto al cubo col buco di Carlo V – una plaza de toros travestita da palazzo, giustamente mai abitato. In luoghi che i secoli a venire avrebbero lasciato da parte – Úbeda e Baeza, per nominarne un paio finiti nella lista del Patrimonio dell’Umanità dell’UNESCO – le cattedrali mostrano invece le stratificazioni degli stili, e le piazze respirano una spazialità sconosciuta agli architetti islamici. In queste minuscole giurisdizioni troneggiano palazzi magnifici con scaloni adorni di statue, soffitti a volta affrescati e l’immancabile patio colonnato al centro, nel quale reminiscenze romane, arabe e medievali si confondono, concordando sulla necessità di ombra, acqua e riservatezza.
Non così a Cordova, dove perfino Carlo V, le cui colpe verso l’Alhambra non saranno mai perdonate, criticò gli architetti incaricati di cristianizzare la moschea. Li accusò di aver creato un luogo visibile ovunque, guastandone uno unico. Ma che potevano fare quei meschini? Cristianizzare la Mezquita era impossibile. Delle altre moschee avevano giusto conservato le basi, distruggendo tutto. Ma la Grande Moschea di Cordova, capitale dell’al‑Andalus, il regno musulmano della penisola, era l’equivalente del Vaticano. Con successive ampliazioni, era divenuta la più grande moschea del mondo – una foresta di colonne e archi, un’infinità matematica che rispecchiava l’ordine e l’immensità di Dio e che ancora seduce, inducendo a rinunciare alla propria unicità per unirsi al coro, per partecipare alla forza invincibile del gruppo. L’architettura ha un’influenza precisa nell’animo umano – ben lo sapevano i costruttori delle cattedrali gotiche, come oggi lo ignorano gli architetti cui vengono commissionate le nuove chiese, espressioni patenti dell’attuale perdita del senso del sacro. La spiritualità ancora riverbera nella zona musulmana della costruzione, dove la quieta penombra è scandita dalle fasce bianche e bordò degli archi. I marmi della cattedrale cristiana, che ne violenta il centro e il perimetro, sono, a confronto, sfacciatamente esibizionisti e terribilmente secolari. Il giardino degli aranci, con cui la natura replica, nei tronchi degli alberi e nelle loro chiome, l’intenzione devota delle colonne e degli archi, completa idealmente questa residenza divina. Un passo fuori le mura che lo recingono, e si torna brutalmente nella città degli uomini. E’ tutt’un brulicare di gente, di sole, di sete, un accavallarsi di storia e di storie che rimane quasi palpabile nell’aria mentre, indifferente e grasso, il Guadalquivir passa sotto gli archi del Ponte Romano, l’equivalente del Ponte Carlo per Praga o del Ponte Sant’Angelo per Roma. Cordova suona ruffiana le corde del cuore e, senza lo sfarzo di Siviglia e lontana dall’effervescenza di Granada, accoglie e delizia chi s’avventura per le labirintiche stradine che d’improvviso rivelano una piazzetta alberata, un locale dove nessun turista ha mai messo piede o un maestoso portone colonnato tranquillo in un angolo come fosse l’entrata di un condominio. Piace, Cordova, perché la capitale che fu è rimasta a misura d’uomo, e uno dei piaceri del turista è proprio sentire di avere la città in pugno, di afferrarne la logica geografica. Piace per gli onnipresenti fiori, che allietano non solo i curatissimi giardini dell’Alcázar – la residenza reale – e i vicoli che portano alla Mezquita – calce bianca, gerani in fiamme e cascate di petunie – ma anche i numerosi patii, il più bello dei quali viene premiato ogni primavera. Se ogni palazzetto ne ha uno, la vasta casa signorile di Viana ne cinge ben tredici, tutti diversi e tutti squisiti. E parlando di squisitezze, la rivelazione gastronomica di questo viaggio è stata il salmorejo cordobés, un primo estivo originale e facilissimo che riesce sempre. Si frulla del pane raffermo, acqua, pomodori, mezzo spicchio d’aglio, un uovo sodo, un cucchiaino di zucchero, un cucchiaio d’olio d’oliva e uno d’aceto. La crema che ne risulta si versa nel piatto da portata, si guarnisce con cubetti di prosciutto crudo e un altro uovo sodo sbriciolato e si serve dopo un paio d’ore di frigorifero. Facile, saporito, diverso.
A proposito di luoghi equivalenti, il sito archeologico di Madinat al-Zahra, a pochi chilometri da Cordova, è il corrispettivo andaluso della nostra Villa Adriana: una mini-città costruita per la residenza del califfo Abd al-Rahman III, presto caduta in rovina e saccheggiata, che ora si vendica d’un oblio millenario grazie a restauri e riedificazioni. I mutamenti di orientamento degli umani verso le loro costruzioni sono davvero imponderabili. Come certe loro decisioni. Che sia storia o leggenda che i sivigliani decidessero di costruire una cattedrale così grande da venir considerati folli dai posteri, quel che è certo è che la sua visita è un lungo excursus nelle mode del passato in fatto di santi – Leandro, Isidoro, Ermenegildo, Laureano –, negli stili artistici e nelle espressioni della pietà popolare. E, tanto per non dimenticare che era una moschea, l’ex-minareto si è riciclato come campanile e il giardino degli aranci le è rimasto al fianco. Per non sfigurare, il potere secolare le è dirimpettaio con un Alcázar anch’esso ricco di stili ma fortunatamente essenzialmente arabo. Gli ambienti raccolti ma comunicanti – tra di loro e con i freschi patii – le decorazioni varie ed eleganti e il vasto parco che lo completa ne fecero una residenza veramente principesca e ne fanno ora una piacevolissima meta turistica. Siviglia porta altri segni caratteristici di una capitale: luoghi di rappresentanza, come la smisurata Plaza de España, dal 1928 indecisa se essere un mini-parco divertimenti o una maxi-alcova per innamorati serali. Sulle mura del suo enorme emiciclo, 48 scene dipinte su ceramica rappresentano le province spagnole davanti a un battibecco di canali e ponti che occorrerebbe vedere dall’alto per decifrare. Grandi città ereditano a volte incomodi lasciti come la Cartuja, prima monastero, poi fabbrica di ceramiche ed ora museo, abbastanza infelice, d’arte contemporanea. I suoi ampi spazi austeri sarebbero molto più adatti ad ospitare il classicismo in mostra al Museo di Belle Arti. Grandi città, poi, possono permettersi il lusso d’un investimento pazzo, come il Metropol Parasol, mostruosità moderna di Jürgen Mayer, sei fungoni cresciuti in Plaza de la Encarnación che, oltre ad ospitare negozi ed un mercato, sono stati adottati per le ore serali di ozio dalla gioventù sivigliana, per nulla attratta dagli spettacoli di flamenco offerti a quell’ora altrove, in piccoli ritrovi. Ci si aspetterebbe uno spettacolo ufficiale, magari patrocinato dalla città, che presentasse gli artisti migliori dando ai visitatori qualcosa da raccontare a casa. Ma anche a Siviglia succede lo stesso che a Roma, dove gli stormi di stranieri riempirebbero volentieri un teatro dedicato ad uno spettacolo tipico – nel nostro caso, l’opera – ma le autorità non provvedono. L’iniziativa è lasciata ai privati, ed ecco che si inscenano recite miserelle in luoghi poco adatti, da noi nelle chiese, in Andalusia nei patii delle case e nelle bettole. I privati gareggiano anche su altri fronti: la contessa di Lebrija ha lasciato a Siviglia, nel palazzetto che occupava, una notevole raccolta di mosaici e sculture antiche, il frutto della passione d’una vita. Idem a Malaga, dove un nobile abbiente vanta un ricchissimo assortimento di vetri, vetrate e cristalli, in mostra nella sua stupenda casa. Lo stesso a Ronda, dove il signor Lara, accanito collezionista, non ha saputo decidersi e ha riempito la sua casa, ora museo, di tutto un po’: orologi, armi, attrezzature fotografiche e da ripresa, strumenti di tortura e cartoline. C’è anche una cappella dedicata a un frate, ora beato, nato proprio nella Serranía di Ronda e molto venerato in Andalusia.
Se a Malaga il Mediterraneo rivolgeva l’invito, a Cadice l’Atlantico ingiunge l’ordine: salpare, esplorare. Questo anelito ineludibile dello spirito andaluso ha definito tutta l’attività di Picasso, visceralmente pioniere. La città stessa si protende precariamente nelle acque sconfinate della Costa de la Luz, quasi un trampolino sulla distesa azzurra, sua vocazione, sua vita. La cattedrale? E’ l’unica, nella regione, spoglia e in attesa di interventi che saranno duri a venire. Perno è la Torre Tavira, anch’essa un invito a guardare lontano, con una camera oscura che permette di spiare la città, bianchissima, in tempo reale. Nell’entroterra, punteggiato di paesini candidi anch’essi, l’Andalusia distende le sue pazienti curve, accarezzate dai mille e mille ulivi che da sempre la vestono. Ulivi a perdita d’occhio: c’è un motivo per cui Picasso non è noto per i suoi paesaggi. Ulivi e i vigneti dai quali – dopo matematici travasi e anni d’invecchiamento – ci viene lo sherry. La visita a una cantina nel triangolo di produzione – El Puerto de Santa Maria, Sanlúcar de Barrameda e Jeréz de la Frontera – è d’obbligo. Jeréz porta addirittura il nome dell’illustre ambrosia, e la sua tranquillità distinta è un’oasi per il viaggiatore stanco della babele turistica.
Messa a tappeto dall’imperativo del sole, questa terra ha affidato il suo destino al regno animale – a quelli a due e a quattro zampe, e capitare di assistere a uno degli spettacoli delle famose e nobilissime scuole di equitazione o a una corrida è una fortuna. Picasso, la corrida, ce l’aveva nel sangue, e tori e minotauri figurano ripetutamente nei suoi schizzi, nei suoi quadri, nelle sue ceramiche. Quasi dispiace che la virata new age l’abbia coperta di vergogna, considerando la passione, le epiche gesta e talvolta i sacrifici umani che fanno da contorno allo spettacolo. La plaza de toros più rinomata è quella di Ronda, la più pericolosa in quanto la più ampia. Ah, Ronda, che favolosa trappola per turisti! I bagni arabi, l’interessante Santa Maria Mayor, il Museo della Reale Maestranza di Cavalleria, ma soprattutto quel dirupo, quel ponte sul Tajo, e il panorama verde che la circonda: Ronda è una festa per i fotografi e nella sua dimensione compatta questa città di pietra sembra concentrare l’animus, il piglio andaluso, esibizionista, sfacciato, ma illustre ed eccelso. Si diceva di Picasso: ecco, ecco un andaluso al 100%. Il genius loci di questa terra è troppo moro, per sangue e per sole, per la compostezza d’un’Europa essenzialmente temperata e addomesticata: è uno spirito dirompente, accecante come qui è la luce. Il deserto per girare i western, la Sierra Nevada per sciare, ulivi e vigne e poi ancora ulivi, ma soprattutto il mare, per te tuffatore, pescatore o esploratore: ecco l’Andalusia. Picasso ha ben scelto il suo blocco di partenza. E tu? L’Italia? La vincitrice o la vinta? La colta, la povera, il faro di civiltà o la perenne ultima della classe? La cortese? Tu santo, poeta, artista, navigatore, colonizzatore o trasmigratore: e per portar cosa, al nostro paese?