La nostra Creta

Scritto da: numeliana
la nostra creta
Partenza il: 23/07/2012
Ritorno il: 02/08/2012
Viaggiatori: 2
Spesa: 1000 €
Partenza per Roma-Fiumicino all’una del mattino. Aria fresca, pioggia. Vestiti inadeguati. Sull’autostrada, solo pochi camion. Vero che di notte le forme prendono una vita misteriosa, immobile e muta. Verde metafisico degli alberi illuminati dai lampioni. Le fabbriche e il paesaggio hanno linee disegnate da un filo di luce fioca che le isola nel buio, come creature che abitano i fondali degli oceani. Non trattengo il sonno. Gate Easy Jet: apre in ritardo. Aria condizionata gelida, nessun bar aperto per un caffè, zanzare giganti sui turisti in coda: coppie di sposi, comitive di soli ragazzi o di sole ragazze. Miste, pochissime.

2. Arrivo ad Iraklio in tarda mattinata. Nessuna impressione precisa. Caldo secco. Aereoporto internazionale piccolo, spoglio, ordinato. Presa la macchina scelta in fitto: Fiat Panda che ha lo stesso colore del cielo sopra di noi. Rifornimento. Poi, verso Matala. Lungo la strada, numerose concessionarie d’auto; troppe per una zona che appare poco sviluppata. Strada nazionale sgombra, con paesaggi rocciosi ai lati e spartitraffico con oleandri fioriti. Vento.

Lungo la strada, mi colpiscono casette in muratura dipinta, che ricalcano fedelmente la forma delle chiese ortodosse dell’isola. Mi fermo ad osservarle: al loro interno, la foto di un defunto, con fiori secchi e lumini. Quelle più povere fatte di vecchie lamiere colorate. Ai piedi di alcune, i parenti hanno posto un fiasco di vino, una bottiglia d’acqua. Altre volte, questi tabernacoli custodiscono semplicemente l’immagine di una Madonna bizantina.

Il paesaggio verso Matala: montagne rocciose con piccoli arbusti a macchia, canyon, poi distese fitte di ulivi, e all’improvviso il mare, di un blu intenso che, come il sole, fa male guardare a lungo.

Arrivo a Matala. Cittadina piccola, variopinta, pacifica e pigra, pervasa da un’atmosfera anni ’70, con figli dei fiori di ogni nazionalità, età e ceto che oziano ovunque. Azzurro radioso del cielo e del mare. Scatto fotografia. I colori nel monitor sembrano saturati col Photo Shop, ma sono esattamente come appaiono. Asfalto delle strade dipinto con disegni di farfalle, arcobaleni, fiori, immagini di armonia tra uomini e creato. Di sera, mangiato sulla spiaggia in osteria “Sirtaki”. Ottimo pesce fresco alla griglia, insalata greca, buon vino. Il proprietario, sudato ed affrettato anche senza fare niente, accanto a noi ogni minuto, ringraziandoci senza ragione per ogni cosa.

3. Verso Horasfakion per prendere traghetto per Loutro. Accendiamo la radio, sintonizzata su Radio Mires, che dà musica tradizionale cretese, senza interruzioni pubblicitarie. I brani durano un tempo indefinibile, con musica arabescata di chitarra e lira greca, e canto maschile cupo e vibrato, che ricorda le canzoni islamiche ed asiatiche.

Horasfakion: paesino con case bianche sulla costa. Bar, botteghe per turisti, taverne, cantine. Orario partenza traghetto: 18,30. Alle 19, l’orizzonte è ancora sgombro. Nessuna nave nemmeno in lontananza, e senza che nessuno si preoccupi; né i turisti che aspettano, né la signora della biglietteria, che non viene a darci spiegazioni. Il traghetto è partito da Loutro, e prima o poi arriverà.

Loutro: piccola isola raccolta in una conca, con tipiche case bianche con porte ed infissi in legno blu o azzurro. Ordine, armonia, silenzio. Forse una volta villaggio di pescatori, oggi il posto è interamente popolato da residenze e strutture per turisti: camere, piccoli alberghi, un solo lido sull’unica spiaggia, bar, ristoranti. Il paese, di fatto, non esiste. Dalla finestra dell’Hotel Sifis vedo un mare profondo e terso in cui qualche turista si tuffa direttamente dal pavimento di legno del bar. La nave che ci ha lasciati qui è ormeggiata proprio fuori il nostro albergo, pronta a salpare l’indomani. Alla reception, fuori sui gradini e su tavolini di legno, vecchie foto, giornali d’epoca, otri di terracotta, conchiglie, oggetti antichi e reliquie marinare. Il bianco incandescente delle case. Dietro, la roccia rossa della montagna, poi il cobalto del cielo. Brezza asciutta che viene dalla Tunisia. Notturno fatto per restare sulla spiaggia, uniti senza parlare.

5. In risalita verso Chania. Ore di montagna, canyon, paesi deserti di poche case. Gerry Flower stizzito per lunghi tragitti tortuosi e per il canto delle cicale, qui assordante e continuo come una raspa. Chiediamo indicazioni ogni chilometro per segnaletica scarsa. Ancora molta strada: quando il posto è vicino basta un dito ad indicarlo, quando è lontano, si agita la mano in avanti. Poche auto lungo il percorso, quasi tutte di viaggiatori come noi, in auto lucide e colorate, spesso ferme per consultare la mappa.

Chania. Città dal passato veneziano di cui restano tuttavia tracce scarse. I negozi del luogo vendono: manufatti in cuoio o in legno d’ulivo, saponi artigianali, spugne, conchiglie, liquori e spezie dell’isola, olio, miele, oggetti che riproducono il disco di Festo, e tutte le reliquie del Museo Archeologico Nazionale, in materiali scadenti, con aggiunte verso il basso. Prezzi improponibili. Poi negozi di scarpe, una quantità enorme rispetto agli abitanti e ai turisti del posto. Botteghe di tessuti e ricami tipici, dicono, ma tutti prodotti industrialmente in Cina. Trovato gli stessi articoli al mercato del mio paese per pochi euro. Per illudere i turisti, sedute fuori su vecchie sedie, anziane vestite di nero lavorano centri all’uncinetto. Appena ti vedono, ti invitano ad entrare in tutte le lingue. Negozi di abbigliamento: non esisterebbero senza l’India e l’Oriente. In vendita, solo capi in cotone colorati per figli dei fiori, gioielli in argentone, zaini, scarpe e pantofole orientali, incensi, quisquilie.

Presa camera in pieno centro storico per 25 euro. La padrona non chiede documenti; ci dà le chiavi, prende i soldi e scompare. Camera squallida, calda, umida, ma con tutto il necessario. In bagno, sapone liquido senza nome. Sull’etichetta, il disegno di una pesca e la scritta “Best price”. Bagno senza bidet, con vecchi rubinetti a manopole, e braccio doccia senza aggancio fisso. Acqua fredda spesso calda. Per i vicoli della città, manifesti di concerti di gruppi giovanili, ma tutti con chitarra e lira greca, a suonare la musica tradizionale ascoltata in auto. Nelle pubblicità, niente ammiccamenti, niente donne nude o svestite.

Entrati a visitare chiesa di S. Francesco. Vuota, con fiori freschi bianchi. Solo una rom con piccola nel passeggino, inginocchiata per terra lontano dall’altare, a pregare ad alta voce nella sua lingua. Più parlato che pregato. Poi, iniziato a piangere un pianto disperato, piegata in due col viso per terra in una supplica struggente e sincera alla Madonna di fronte. Usciti, abbiamo passeggiato per la città, in silenzio a lungo.

Negozi per turisti con cartoline che vendono un’immagine irreale dell’isola: blu caricati all’inverosimile, scorci di vecchi vicoli con anziani ed asini, casette bianche e blu. Quello che il turista vuol fare, io inclusa, è scattare fotografie che somiglino a queste cartoline, per convincersi che esista davvero un’isola così, e di esserci stato. In realtà, il blu di Creta non è quello delle piscine, ma quello ultramarino di una civiltà antica che si sente ancora nella luce delle pietre e della polvere, nei profumi del meltemi, nella sua eco ampia e cavernosa. Una civiltà, più che di forme, di pensiero. Gli anziani ci sono nei vicoli, sì, ma i vicoli sono pieni solo di negozi per i turisti senza i quali, c’è da dire, molti luoghi qui non esisterebbero. Sono cioè proprio le botteghe, i murales naif sui muri, i ristoranti, soprattutto di sera, con le loro luci fioche e calde, col legno liso di sedie e tavolini, con le zucche e le erbe secche appese, con piccoli utensili in legno e terracotta, tendine di corda, legnetti di spiaggia e conchiglie, a restituire un’immagine fedele della cultura dell’isola; in una specie di teatro vivente dislocato e a cielo aperto che, molto più di un Museo (qui quasi sempre minuscoli e chiusi) descrive a pieno l’aspetto culturale di Creta, restituendo al viaggiatore il passo scalzo e pacato dei luoghi.

6. Verso Balos

Kissamos: paesone inconcludente. Potrebbe essere Agropoli, Milano Marittima, ovunque altrove. Mini market, bar, ristoranti, vendita di oggetti da spiaggia, distributori di carburante. Sul pendio del monte, case per turisti simili a cappelle cimiteriali. In fuga, inorriditi. Bagno in piccola spiaggia libera appena fuori al paese, con battuta di cemento in acqua invece della sabbia.

Balos. La strada per la laguna è una via sterrata senza parapetti che dà su rocce a strapiombo nel mare. Qui, solo il blu del mar di Creta, capre nere, l’ocra d’oro delle rocce, il bianco di una piccola chiesa lungo la via, il vento forte dell’Africa che segna la vastità degli spazi, con un suono lungo, continuo, in cui pare di percepire l’armoniosa immensità del mondo.

Balos. Turisti francesi sugli asini per scendere a mare. Noi, a piedi per 2 km., arriviamo prima. Laguna bassa, di un acquamarina chiarissimo. Appena giunti a riva, foto ridicole. Tutte le coppie, di ogni età e provenienza, le stesse foto. Lui scatta, lei in posa da velina: le braccia aperte come ali, a tre quarti col sedere in fuori, di spalle col perizoma entrando in acqua. Faccio lo stesso, per vedere se sono ancora bella.

Gerry Flower, fermo in mezzo al mare, sembra un uccello tenuto a lungo in gabbia, cui è stata all’improvviso aperta la grata. Non scappa, resta immobile a guardare intorno con occhi stupiti. Senza volare, felice.

Per la prima volta, senza trucco. Indosso un pareo colorato che asciuga presto al vento caldo. Penso alla mia valigia da italiana, piena di vestiti e di precauzioni. Alla fine, per tutto il viaggio, usato 2 abitini di cotone pagati pochi euro al mercato, lavati a turno col bagnoschiuma e stesi ad asciugare, a volte in macchina sulle valigie coi finestrini aperti, oppure indossati ancora il giorno dopo, col profumo forte del mare. Scarpe basse, le stesse per la spiaggia e per la strada. Una borsa di paglia e lino vecchia di vent’anni, in perfetto accordo con la brillante semplicità del paesaggio.

Sulla strada di ritorno, mangiato insalata greca e dakos. Buoni il pane caldo, i pomodori, l’olio, il formaggio. Sensazione di salute animale. Viste per la prima volta nella mia vita le cicale, sul tronco e tra i rami di un pino.

Poi, ancora verso paesi inesistenti, segnati da una tabella che inizia e finisce dopo pochi metri. Altri, privi di insegna, mostrano solo l’indicazione di una cantina coi prezzi delle portate principali, a volte con foto tipo Mac Donald’s. Molte casette di defunti lungo la via, colorate come i cimiteri in Guatemala.

Verso Falasarna. Spiaggia che commuove solo chi non ha mai visto spiagge. Poi verso Sfinari, indicato come villaggio di pescatori. In realtà, deserto, squallido. Solo una chiesa, case morte, muri come in un quadro di Sironi.

Arrivo ad Elafonissi in serata. Cercata camera invano: tutto pieno. Infine, trovatane una poco fuori mano, presso Hotel Paradise, accanto a monastero abbandonato e a scogliera sul mare. Accolti da una ragazzina tale e quale suo padre, e da suo padre, vecchio militare in canottiera bianca e pantalone mimetico. Poche parole in un Inglese malcerto. La ragazza, china verso di noi, come l’oste di Matala, ci ringrazia senza ragione per ogni cosa. La mattina al risveglio: il belato delle capre, il rombo del mare grosso, il vento tra le mura spente del monastero.

7. Elafonissi. Per una volta, una cartolina fedele. Foglie di cactus intagliate con faccine sorridenti. Oggi compio 40 anni. Lontana da casa, da tutti. Litigato un poco con Gerry Flower. Io guado l’acqua bassa verso est, lui dalla parte opposta. Ci scattiamo qualche foto, io a lui, lui a me: foto da mostrare ad un altro uomo, ad un’altra donna. Tristezza verticale malgrado il paesaggio. Sensazione di cambio rotta, irreversibile. Se incontrassi una che mi somiglia, non mi piacerebbe.

8. Verso Paleochora. Spiaggia selvaggia di Grammeno. Piccola pace con Gerry Flower.

Paleochora. Bagno in spiaggia al centro del paese. Parcheggio gratis. No vigili, no polizia. Docce municipali e spogliatoi sulla spiaggia. Ombrellone di paglia e 2 lettini: 7 euro. Pigrizia, quiete, vento fortissimo, mare terso. Anche qui, venditore di meloni in Ape Piaggio. Cena semplice. A fine pasto, in tutta l’isola, si regala un piatto di anguria e due bicchierini di Raki, a volte anche il dolce.

9. Rethymno. Città turca, dicono. Troppi turisti. Venditori aggressivi. Ristoratori invadenti appostati fuori dai locali, capiscono che siamo italiani anche se non parliamo. Gerry Flower prende yogurt con miele da oste ubriaco. Ci dice di essere un cantante tradizionale, che la notte scorsa è andato a Chania per un festival, e che qui un suo amico è morto d’infarto mentre suonava. Per questo è ubriaco. Mentre si scusa, cala nello yogurt mezzo barattolo di miele. Gerry per gentilezza mangia tutto. Disgusto e malessere per l’intera giornata. Salutandoci, l’oste ci grida allegro: “Una faccia, una razza!”

Di sera, passeggiata sul lungomare. Locali, ristoranti, articoli da spiaggia, abbigliamento orientale. Nausea del troppo. Al centro della strada, lontani da ogni cosa, un ragazzo e una ragazza. Lui vestito con grosso zaino in spalla; lei a piedi nudi, con abito cortissimo, sporco e un po’ stracciato, abbraccia il ragazzo sollevandosi sulle punte, il viso sulla spalla di lui, senza parlare, gli occhi chiusi in un pianto dolce e pieno di dolore.

In un negozio di frattaglie per turisti, dalla radio, le ultime note di “”Girlfriend in a coma” di Morrissey: nostalgia dei miei 20 anni, della mia fiducia infondata in tutte le cose.

Mattina presto. Sosta a Bali. Gerry Flower, come al solito fermo in mezzo al mare, bello come la colonna di un Tempio, coi suoi piccoli occhi curiosi in giro senza posa. Leggo Caraco all’ombra di un albero. Dal bar sulla spiaggia, Road Stewart, poi Lucio Dalla. Coppia di italiani di Brescia litiga a voce alta accanto ad una barca, minacciandosi di morte reciproca, l’una per annegamento, l’altro per incendio.

10. Ierapetra. Vento devastante. Mare tuttavia appena increspato. Sensazione meravigliosa di mutamento. Ragazzi che scherzano in acqua, corpi giovani, dorati, pieni, certi di sé e del proprio futuro. Impressione del posto: luogo in cui si aspetta in festa qualcosa di imprecisato. Flemma. Alle 9 del mattino, sedie ed ombrelloni capovolti sui tavoli di bar e ristoranti chiusi, come stoviglie stese ad asciugare su un lavandino.

Vecchio negozio di conchiglie e pietre dure gestito da pescatore anziano. Alexander ci fitta camera vicino al porto. Parla un poco Italiano. Ubriaco di birra da mattina a sera. Come gli altri, prende i soldi, lascia chiavi e sparisce.

Isola di Chrissi, altra cartolina perfettamente riuscita. Sul traghetto, venditori di bevande e frutta a peso d’oro. Scesi sull’isola, vendono la merce in spiaggia tra i bagnanti. Poi, venditori di conchiglie e di souvenir. Ritorno alle 16. Gli italiani si riconoscono subito: si avviano con largo anticipo, presi dall’ansia dei posti migliori. Sul traghetto al ritorno, comitiva di Caserta parla del mare di Marina di Camerota: il mio viaggio, un poco è già finito.

11.Iraklion. La capitale: palazzi imballati dalla pubblicità degli sponsor delle ristrutturazioni. Gli stessi franchising di Milano, Tokyo, Berlino. Lanciatori pakistani di oggetti luminosi in alto. Mendicanti. Negozi, troppi, col guaito delle cose che non servono. Muri corrosi dalla salsedine e dal meltemi. Il rombo potente del mare, puro e turchese al porto come su un’isola. L’ocra d’oro del Forte Veneziano, i colori delle barche dei pescatori come nei dipinti francesi. La spuma delle onde imbizzarrite scavalca il muro di cinta e ci raggiunge. Camminata lenta lungo le vie del centro, senza particolari intenzioni. Entriamo nel negozio di vecchio antiquario che vende ori ed argenti antichi, icone bizantine originali. Appena mi vede entrare mi caccia verso l’uscita dicendomi che quello non è posto per me, che se non intendo acquistare il negozio è chiuso, che i suoi articoli non sono alla mia portata, che è meglio che vada a comprarmi un souvenir da 10 euro, o se voglio vedere le icone, che vada al museo. Da lui si va solo per affari seri, e i suoi articoli, ripete, non sono alla mia altezza. Ho cercato di fargli notare che non mi ha neanche fatto entrare per valutare la merce, che non mi conosce affatto, e così via. Lui, con un gesto come si scaccia una mosca, risponde che non gli interessano “queste storie napolitane”, che lui la gente la pesa da subito, e che dobbiamo uscire tutti e due, “fratelli di Berlusconi”. Gerry Flower furioso, io in uno sgomento divertito. La sera, a negozio chiuso, io e Gerry infilato sotto la saracinesca cattivo biglietto di addio a piccolo, triste vecchio uomo.

Al tramonto, straordinaria immagine di vita: le case in controluce, le auto, le montagne, la gente che parte, che arriva, che torna, che scompare, i testi delle canzoni, le strade rotte, quelle sporche, i luoghi imperfettibili nella loro bellezza; ogni cosa mi è parsa degna e vera.

Al buio, i locali accesi, i negozi aperti, il tuono dei Boeing in volo basso sui tetti, in decollo ed atterraggio dall’aereoporto vicino. Il mondo che si muove, sconosciuto e mio. La gioia per tutte le cose che esistono e che passano, e per le stesse cose, il dolore.

Viaggio finito. Io e Gerry senza parlare.

All’aereoporto, andata agli arrivi per regalare a qualcuno il nostro ombrellone. Evitata dagli stranieri con sospetto. Chiedo anche a degli europei, parlando in Inglese con tutti. Tutti rifiutano. Tre di questi sono italiani. Uno dice alle mie spalle: “Sta cercando di venderlo”.

In 9 giorni, in 2 persone, spesi: 270,00 Euro fitto auto; 105 Euro benzina; 311 Euro camere; 333 cibo; 126 varie.

Pianto sommesso ad alta quota, al pensiero di una vita che è come fare una doccia vestita, anche se l’acqua è calda, e buoni i vestiti.



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