La mia Turchia
Sensazioni di un amore orientale
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Mi ero innamorato di Yasmine. Aveva braccia sottili, che ricordavano le torri affusolate che circondavano i luoghi di preghiera del suo Paese, nemmeno tanto lontano dal mio, eppure così esotico nella mia mente; e nei miei occhi quando lo ebbi conosciuto. Era da queste torri che lei stessa diverse volte al giorno, all’alba e al tramonto, a metà giornata, al pomeriggio e alla sera, si affacciava e faceva sentire la sua profonda voce. Alcuni le credevano preghiere, altri pensavano cantasse, a me sembravano poesie. La sua pelle in estate era bruna come quella delle donne del Sud del Paese, in inverno si faceva più chiara, come quella delle donne che abitavano le sponde settentrionali sul grande Mare. Era sempre piacevole rimanere incantato ad osservarla sdraiata su quei tappeti colorati a fumare quelle grandi pipe che lasciavano in bocca sapore di caramella e diffondevano tutt’attorno un profumo di frutta; manteneva gli occhi al cielo notturno colorato di arancione dalle luci della città. Potrà sembrarvi strano ma era difficile valutare il colore dei suoi occhi: procedevano dal blu profondo, come le luminose ceramiche che decoravano la sua casa, al turchese, lo stesso colore della cupola di quel santuario a cui era tanto legata. Questo era stato sede di un’antica confraternita di mistici, e lo conobbe nel cuore di un’altrettanto antica regione lungo il cammino mentre si recava in visita alle sue amiche fate. Già! Mi disse che tra le sue amiche c’erano alcune fate. Abitavano in lunghi coni di tufo protesi verso il cielo, sui quali loro stesse avevano poggiato dei cappelli di pietra dura per proteggerli dalla pioggia. Non ci credevo, dovevo trovarle. E le trovai! Ebbi la conferma che tra i difetti di Yasmine, che pure possedeva, non vi era la menzogna. Le entrate di questi camini, così li chiamavano, erano piccole aperture sulla loro sommità e il solo modo per accedervi era volare, niente scale. Yasmine era tollerante verso chi non la pensava nel suo identico modo; lasciava scegliere. Le piaceva uscire con amiche che vestivano abiti lunghi e che coprivano tutto il corpo e la testa, ma anche con altre che invece non esitavano a mostrarsi. Lei stessa indossava a volte gonne, a volte copriva tutto, anche il capo, con un velo. Riusciva a parlare con i più intransigenti e con coloro che vivevano in maniera meno religiosamente radicale. Le piaceva danzare; per farlo indossava lunghi abiti bianchi e un copricapo cilindrico di feltro. Girava su sé stessa. Diceva che ciò la avvicinava al cielo e contemporaneamente alla terra. Ci misi un po’ per capire cosa significasse. Lo capii un pomeriggio seduto sul tetto di un antico caravanserraglio circondato solo da pianura brulla e con il vento che fischiava nelle orecchie. Ora non saprei spiegarlo. Anche a lei piaceva meditare sui tetti di quegli edifici che centinaia di anni prima i mercanti di spezie e stoffe usavano come tappa e rifugio nella steppa. Lì sopra il vento faceva muovere e sbattere la bandiera del suo Paese (erano ovunque), e sotto gli occhi montagne dalla cima tagliata di netto, sembrava fatto di proposito, e distese irregolari di piante d’uva. Era una donna inaccesibile e silenziosa come un’alta montagna, come se ne trovavano all’estremo Est di quella terra, e vivace e rumorosa come un caotico bazaar cittadino. A volte rimaneva sveglia tutta la notte, a volte la mattina presto si faceva svegliare da uomini che passando per strada tambureggiando la chiamavano a mangiare prima che sorgesse il sole. Riusciva ad essere moderna, a tratti vi ritrovavo molto del mio mondo, ma era sempre pronta a mostrarmi il fascino orientale che era riuscita a conservare e che fino ad allora avevo potuto solo immaginare leggendo favole e racconti di geni e lampade, di tappeti volanti e bande di ladroni nascosti in misteriose caverne. A volte correva veloce, era facile per lei passare da un Continente all’altro; a volte si fermava per ore a sorseggiare un tè, ogni volta di un gusto diverso e sempre molto profumato. E come cucinava bene! La carne, i dolci; il pistacchio: ovunque. Capii veramente quello che provavo solo quando la salutai alla fine del nostro secondo incontro e le promisi con decisione un’altra visita. Questa era Yasmine. Voi potete chiamarla Sheherazade, come quella lontana principessa della quale era sicuramente discendente. D’altronde aveva sempre avuto numerosi nomi per sé durante il corso della sua lunga storia. Se volete chiamatela pure Turchia. Ma per una signora del suo fascino parlatene sempre con rispetto, sapendo che per chi l’ha conosciuta il suo nome susciterà sempre nostalgia e affetto.