La mia Grande Mela 2

New York sono tante città sotto lo stesso nome. Culture diverse si amalgamano nelle strade affollate dai grattacieli
Scritto da: Lipperlì
la mia grande mela 2
Partenza il: 21/02/2012
Ritorno il: 02/03/2012
Viaggiatori: 1
Spesa: 2000 €
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Basta poco per trovarsi in Russia, Africa, Cina. Sensazioni ed emozioni in una meta dai tanti stereotipi che però ti lasciano sempre e comunque con il sorriso sul volto.

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Desideravo da tanto vedere New York, poi mi sono laureata. Il giorno dopo ero su un aereo American’s Air Lines. Durante le 8 lunghe ore di viaggio, un trancio di pizza hut riscaldata al microonde e un bicchiere di birra mi hanno fatto compagnia. Non potevo crederci, finalmente mi sarei sentita come quella biondona di Carrie Bradshaw o come qui teppistelli del Bronx.

Scesa al gigantesco J.F.Kennedy, attendo il mio taxi, il tombino fuma. Non posso essere già dentro il mio film, non posso, devo aspettare i grattacieli e le ville di periferia.

Percorrendo il Queens fantastico a occhi aperti. Un Cosco malmesso, del filo spinato, poi villette colorate, strade pulite altre sporche, quattro corsie di autostrada, targhe del Michigan, dell’Illinois, della Florida. Il mio amico del taxi corre come un matto e in meno di 40 minuti eccolo il mio primo grattacielo. Clacson all’impazzata, gente in ogni dove, bandierine patriottiche sventolano da ogni palazzo. Tante chiazze gialle mi circondano, sono più delle automobili normali, non resisto e scatto la mia prima scontatissima foto dei taxi gialli newyorkesi.

Arrivo al mio grattacielo: Il Westin Hotel, 42esima strada, nel pieno di Time Square. La mia camera è al ventisettesimo piano, ho un evenly bed, una macchina per il caffè Starbucks e una vista sull’Hudson e su quel crogiolo di strade che circondano Broadway e Time square.

Non riesco a riposare nonostante il mega materasso e i 10 cuscini, scendo tra le vie; i colori, le persone, gli schiamazzi mi rimbombano nelle orecchie, mi rintano in una pizzeria. Come si fa a dire che noi italiani siamo i più bravi nella pizza? Provo un trancio spettacolare, da veri golosoni, con salsiccia, funghi, peperoni e chi più ne ha più ne metta, mi scolo la mia Coca cola e poi torno al Westin. Volevo restare più sveglia, ma alle 18.00 il sonno ha preso il sopravvento.

Sveglia alle 5.00 del mattino non posso evitare di passare il mio primo giorno al famigerato Central Park, ma prima, abbondiamo con la colazione. Dopo un caffè lungo anzi lughissimo e un bagels con uova e bacon, sono pronta per vedere i veri salutisti che alle sette corrono in tutina per il parco. Ce ne sono davvero tanti, molti con il cane, molti solo con i loro leggings fosforescenti. Il parco trasmette pace, la luce inonda le colline al suo interno, i primi studenti diligenti attraversano la strada in fila indiana con le loro divise da classico b movie americano. Tutto è perfetto, ma il tempo scorre veloce e alle 9.00 la pace è svanita e New York è tornata in tutta la sua foga a vivere.

Decido di visitare la stereopatissima Fifth Avenue, niente di spettacolare, forse poco affascinante per chi non ha troppi soldi da lasciare nel caro Tiffany o nell’immenso Bloomfield, ma davvero il meglio doveva ancora venire. Subito nelle vicinanze della strada del lusso si snodano viali alberati con case dal fascino raro, con i loro porticati contornati da colonne imponenti, aiuole ordinate si alternano ai cassonetti marroni, le scalette che portano ai portoni ti invogliano a salire. Lo faccio, mi fingo una newyorkese, oggi sono una di quelle ricche che va in giro con la Vuitton e poi si va a fare la pedicure a Chinatown. Oggi sono la giornalista di Sex and city che senza un soldo vive lo stesso a Mananattan, oggi sono solo una studentessa che si è persa nella grande mela.

Vedo il fiume, forse riesco a orientarmi, mi avvicino alla riva e vedo che in pochi passi avrei potuto raggiungere la filovia che porta a Roosevelt Island.

Spettacolare, la vista è impagabile, forse ancora meglio di quella che si gode dall’Empire State Building. Ti muovi leggiadro sopra la città, non senti rumori (tranne quelli dei cinesi-arabi-spagnoli-italiani & co. che stanno nella cabina con te) e capisci che ti basta 1 $ per essere contento. Arrivata sull’isola faccio un breve giro, c’è poco da vedere se non il fiume e il vecchio edificio che un tempo era un manicomio.

La prima giornata ti lascia sempre felice, sembra sempre la più lunga e quella in cui concentri tutte le tue energie, non sai cosa vedere per primo e cammini in lungo e in largo per ritrovarti la sera con le gambe a pezzi. Dopo una cena al ristorante greco vicino casa, è l’ora dell’evenly bed.

secondo giorno

Il secondo giorno inizia all’insegna di Chinatown, delle sue strade trafficate, dei suoi pescivendoli, dei baracchini di frutta strana, dei vecchietti seduti al Columbus park, dei negozi che vendono All stars, Clarks e tante altre firme a prezzi veramente cheap. Dopo aver pescato il bigliettino portafortuna dentro il tempio buddista Mahayana, decido di dover passare per LittleItaly. Quanti clichè, tavolini all’aperto con tovagliette a scacchi attendono Lilli e il Vagabondo. Faccio un salto da Di Palo e dopo un’occhiata al provolone Auricchio e a un volantino della tournèe di Pino Daniele nella City, decido di scappare. A quanto pare la vera comunità italiana ora è nell’Harlem. E meno male, Little Italy oggi sembra più un’allestimento di Cinecittà.

Per pranzo mi intrufolo in un fast food vegano, un wrap ripieno di falafel e salsa alla rapa rossa. Veramente delizioso. Il pomeriggio trascorre tranquillo, una volta riposata, decido di prendermi una pausa da Manatthan e visitare ConeyIsland.

Dopo 50 minuti di metropolitana mi ritrovo sull’oceano. La prima impressione è di desolazione. Un vecchio parco giochi si profila all’orizzonte, un uomo è circondato da gabbiani e prova a sfamarli. L’acqua dell’oceano è mossa e il molo di legno è affascinante. ConeyIsland è famosa per la sua comunità russa. E, infatti non passa troppo tempo che iniziano a presentarmisi davanti ristoranti con menù scritti in cirillico e donne e bambini dagli spiccati lineamenti dell’est. Penetrando verso l’interno della periferia scovo un mercato stracolmo di prodotti russi, non so, ma questo non sembra come Di Palo, sembra molto più verace.

Tornata in albergo prendo del tex mex da asporto.

terzo giorno

Oggi decido di prendermela con calma e fare una breve gita fuori porta. Mi dirigo verso la Port Autority e prendo un bus per il New Jersey, direzione: Hoboken, la famigerata terra del Boss delle torte. Sebbene il motivo della visita fosse di provare almeno un biscottino del pasticcere Buddy Valastro, la cittadina di Hoboken (situata al di là dell’Hudson, che si trova in un altro stato, ma che si raggiunge da Time Square in meno di 20 minuti)mi stupisce. è la classica cittadina americana con i vialoni larghi e le case curate. Una chiesa in mattoncini è il fulcro della cittadina che ha dato i natali a Frank Sinatra.

I giorni si susseguono e vorrei fermare il tempo.

L’Harlem è affascinante, è un quartiere, o meglio distretto, che sta crescendo, sta migliorando, alcune parti sono proprio il classico ghetto, campi da basket circondati di filo spinato, case con davanti cumuli di pattume, gruppetti di ragazzi dallo sguardo inquietante, ma poi vedi anche casette pitturate di fresco e viali ordinati pieni di negozi per capelli.

Il Bronx non fa paura come ci hanno fatto credere, c’è un’università molto bella, bar dal fascino degli anni ’60 e poi c’è il fantastico zoo, dove mi hanno fatto entrare gratis visto che mancava meno di mezz’ora alla chiusura. Il re indiscusso della giornata è stato un gigantesco leone marino che con i suoi versi simil ambulanza è rimasto impresso nella mia memoria.

Trascorrono i miei ultimi giorni nella grande mela, ho bisogno di riportarmene un pezzettino a casa. Entro in tutti gli alimentari, i negozietti più stravaganti, spulcio tra tutti i vintage dell’east village, mi faccio girar la testa dentro Century21, mi perdo nei Whole Foods, curioso tra le bancarelle del mercatino in Union Square.

Un anello con una green jasper e patatine viola, sono solo un decimo delle cose alle quali non ho saputo resistere.

Il consumismo dilaga in me, ma del resto dopo viaggi di 8 ore, si pensa sempre: “ma quando mai ritornerò?”. Ed è così che ho pulito la mia coscienza dal portafogli very very empty.

Dopo 9 giorni l’aereo al J.F. Kennedy mi attende. Prendo il mio ultimo taxi, saluto il Queens visto due volte, ma solo di passaggio, saluto le casette in stile Desperate House wife, i venditori di hot dog, i personaggi folli della città, i porcellini tenuti al guinzaglio, i centri commerciali, il MoMa, Central Park, il fumo dei tombini.

Volevo un pezzo di New York da portare con me, ma uno non basta perchè New York è una, nessuna, centomila. Prima o poi I’ll return.

Guarda la gallery
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Roosevelt Island

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The first breakfast

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taxi, la foto inevitabile.

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Central Park

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Coney Island

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Time Square



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