La magica voce dei silenzi kyrgyzi..

29 agosto Milano - Istanbul "Benvenuta Anna". Questo viaggio comincia così, con la nascita della piccola Anna, venuta al mondo ieri sera, giusto in tempo per non farmi partire col patema, e per realizzare il sogno a lungo atteso di mamma Graziana, compagna di tanti viaggi e di tante emozioni...Questo viaggio lo dedico a loro. Dopo la giornata...
Scritto da: vagamondi
Partenza il: 29/08/2009
Ritorno il: 22/09/2009
Viaggiatori: da solo
Spesa: 1000 €
29 agosto Milano – Istanbul “Benvenuta Anna”. Questo viaggio comincia così, con la nascita della piccola Anna, venuta al mondo ieri sera, giusto in tempo per non farmi partire col patema, e per realizzare il sogno a lungo atteso di mamma Graziana, compagna di tanti viaggi e di tante emozioni…Questo viaggio lo dedico a loro.

Dopo la giornata intensa di ieri, parto per una nuova avventura, un nuovo sogno che vado a realizzare in solitaria. E’ notte, sono appena le 3 quando mio cognato Gigi mi lascia in stazione Centrale alla fermata del Malpensa Shuttle. Il progetto di questo viaggio, prevede il ripercorrere in parte le orme di un grande viaggiatore, Marco polo, lungo quella che per anni è stata la Via della Seta, ovvero dei commerci fra due continenti fra loro sconosciuti. Farò tappa ad Istanbul un giorno ( per poi fermarmi più tempo e visitarla con la dovuta calma alla fine del viaggio), per poi proseguire verso il remoto e poco conosciuto Kyrgyzstan. Il volo Swiss Air che mi porta a Zurigo, per poi cambiare vettore direzione Istanbul, è di una precisione..Svizzera, appunto. Giusto il tempo di ammirare un bellissimo panorama alpino sovrastato da una morbida coperta di nuvole che sembrano di cotone; prima di proiettare le immancabili gag di Mr Bean, dai monitor dell’aereo vengono proiettate le consuete norme di salvataggio. Il fumetto dell’apertura dei giubbotti salvagenti è troppo buffo: l’omino, sorridente, gonfia il suo giubbetto. Poi, sempre sorridendo, si tuffa in acqua dallo scivolo di emergenza raggiungendo moglie e figlio…Mi chiedo: ma è così divertente finire in acqua con l’aereo? Mah, strani questi svizzeri, però almeno su entrambi i voli ti regalano il loro cioccolato. Sono quasi le 14 quando atterro all’aereoporto Ataturk di Istanbul, un’ora avanti rispetto all’Italia; recupero (sospiro di sollievo) il mio zaino, e, prima di cercare un taxi, prelevo lire turche in uno dei tanti bancomat dell’aereoporto. Taxi ( a tassametro, ma è comunque una stangata, 14 euro per arrivare al quartiere Sultanameth), solita guida disinvolta, anche se nulla in confronto ai mitici tuk tuk indiani, ormai sono vaccinato a qualsiasi tipo di guida. Il tassista, che non parla mezza parola di inglese, mi lascia in un punto dicendomi che l’hotel non è raggiungibile via auto, provo ad insistere ma inutilmente, non capisce, in pratica non riusciva a trovarlo nonostante la mappa. Morale: stanco e sotto un sole cocente, mi trascino a braccia il fardello dello zainone per oltre 500 metri, fino a trovare, grazie anche alle indicazioni chieste tra i passanti, il piccolo hotel Emek, prenotato mesi fa tramite il sito Venere.Com. Sono sfinito, per fortuna c’è una piccola ascensore, perchè sennò arrivare alla mia camera 507 al quinto piano…L’hotel è imboscato in una via stretta e non di passaggio. Di fronte ci sono dei lavori, ed è a poca distanza da quello che sembra essere un comando di polizia. Ad Istanbul sono di passaggio, tornerò qua al termine del viaggio e mi fermerò 4 giorni, però, dopo una provvidenziale doccia, mappa alla mano, comincio lo stesso a girarmela un pò. Il primo impatto è quello di una città caotica, tanta gente, e spesso mi ritrovo in stretti vicoli contornati da mille botteghe che vendono di tutto, è un continuo ed unico bazar un pò ovunque. E’ impressionante invece il nazionalismo dei turchi, che già si percepisce in fase di atterraggio con l’aereo sulla città: da numerosi edifici vengono calati dalla cima fino in basso enormi bandieroni rossi con la stella e la mezzaluna bianche, i colori nazionali, che ricoprono intere facciate al posto del cemento. Mi sposto verso il molo Eminonu, dove attraccano i numerosi e grandi traghetti che collegano le varie sponde della città: questa è una della zone più caratteristiche, si vedono venditori di pannocchie abbrustolite, di fichi, di cozze e pesce appena pescato. Lungo il vicino ponte di Galata, diversi pescatori gettano nelle acque sottostanti le loro esche, mentre sullo sfondo il colle con le abitazioni che sembrano arrampicarsi l’una sull’altra, e su tutte la Torre di Galata, al tramonto sono davvero suggestive. Per fortuna le principali attrazioni della città sono facilmente raggiungibili a piedi, così attraverso in salita (Istanbul è tutta un sali e scendi essendo costruita su colli) Alemdar Cad., la via tranviaria, dove passano i lunghi e moderni tram cittadini, bianchi e azzurri, che fanno il pelo ai marciapiedi, infatti è un continuo suonare il loro. La città è viva, tanta gente di tutte le età e razze, tantissimi turisti. Ed è inoltre tenuta molto bene, soprattutto il verde, curatissimo, tanto che è facile vedere improvvisati pic nic di coppiette o intere famiglie col loro tappeto al posto della normale stuoia, ovunque ci sia uno spiazzo verde. Molte delle donne, soprattutto quelle di una certa età, indossano colorati foulard come copricapo, sembrano un pò le nostre nonne di un tempo, alcune in versione più colorata e moderna. E’ sabato, i giardini di Sultanameth, cuore storico di Istanbul, tra l’antica Aya Sophia e Sultanameth Camii (meglio nota come la Moschea Blu), sono presi d’assalto. La grande Moschea Blu da fuori è proprio bella, peccato che oggi ci sia davvero troppa gente. Nel suo cortile interno, piccoli stand che vendono testi religiosi, mentre il Muezin diffonde in tutta l’area attraverso gli alptoparlanti posti sui minareti, il suo forte richiamo alla preghiera, davvero suggestivo. Mi ricorda il calare della sera a Leh, in Ladakh…Nella parte esterna invece gli stand vendono articoli per turisti e kebap, con l’immancabile enorme rullo di carne di manzo sempre in caldo. Passo accanto all’ Obelisco egizio di Teodosio, risalente al 1450 a.C. Tornerò, per apprezzare meglio questi luoghi affascinanti, come Aya Sophia e il Palazzo Topkapi, anche da dentro. Intanto come primo assaggio mi accontento così. Riscendendo per Alemdar Cad. Curioso tra i vari negozi ( ottimi prezzi, mi sa che anche questo viaggio si concluderà con dello shopping), facendomi venire l’acquolina passando davanti alle vetrine dei negozi di dolci, ce ne sono alcuni dall’aspetto proprio invitante. Ma anche per loro, ci sarà tempo. La mia prima giornata qui in Turchia non poteva non concludersi con un classico piatto di kebap. Me ne rientro presto all’hotel Emek, mentre le luci colorate delle insegne illuminano Istanbul, e nel cielo (non sono lontano dal molo) svolazzano corvi e gabbiani. Domani, nel pomeriggio, si riparte, destinazione Kyrgyzstan…

30 agosto Istanbul Colazione per strada, seduto su un divanetto, spremuta di arancia fatta al momento e toast, con sottofondo musicale di brani arabi e new age. E’ domenica e si vede, in giro solo turisti stranieri, sembra che la città dorma da quanto è tranquilla rispetto a ieri. Il sole è caldo, però si sta bene, non c’è umidità. Passeggio tra le attrazioni turistiche di Sultanameth, percorrendo la ripida stradina acciottolata che arriva all’ingresso del Palazzo Topkapi, poi di nuovo in piazza Aya Sophia, e infine un pò di relax nel grande e bel Gulhane Parki, pieno di alberi secolari e ben curato, con alcune piccole sculture di personaggi della storia turca, aiuole fiorite e tanti gatti! Si, gatti, e non sono i primi che vedo, sono un pò ovunque nella città e, cosa alquanto insolita per i felini, molto a loro agio tra la gente, tanto che alcuni si fanno avvicinare e coccolare dai passanti. In alto, nascoste su alcuni tronchi, noto diverse piccole casette in legno per gli uccelli, non mi aspettavo tutta questa cura. Sono quasi le 14, zaino pronto, e prendo il taxi che mi porta all’aereoporto, stavolta è un ragazzo giovane alla guida, che sfreccia oltre i 100 km/h, e in meno di mezz’ora sono di nuovo al chek-in, con largo anticipo. Lungo la strada ho notato cartelloni pubblicitari che raffigurano giovani e belle modelle col velo colorato! Pubblicizzano proprio quello. Il moderno aereoporto Attaturk è affollato, sono tanti i voli in partenza. Dentro ci deve essere anche un bagno turco, perchè tra tutta la gente in attesa del proprio chek-in, ci sono anche uomini vestiti solo di asciugamani bianche, col loro bagaglio a mano al seguito, è surreale! Lunga attesa, volo per Bishkek in ritardo si un’ora. Alla fine eccomi finalmente sul volo Turkish Airline, altro decollo, altra meta da raggiungere nel cuore della notte…

31 agosto Bishkek Il viaggio, quello vero, comincia adesso. Istanbul è senz’altro una bellissima e affascinante città, ma qui è un altro mondo. Qui viene fuori la mia anima da nomade viaggiatore…Sta calando la sera mentre scrivo queste prime righe dalla guesthouse di Bishkek, capitale del Kyrgyzstan, in tutta la giornata ho incrociato una sola occidentale. Il viaggio notturno non è stato dei migliori, un’ora di ritardo e sedili non proprio comodi. Atterro alle 02.15 del mattino, sulla pista del piccolo aereoporto Manas, solo grandi aerei della U.S Force, fa impressione, oltrechè incazzare (i voli civili atterrano solo di notte perchè di giorno la pista è in uso agli americani come base logistica per i loro noti e sporchi giochi nel non lontano Afghanistan). Nonostante sia l’unico volo atterrato il nostro, il controllo dei passaporti è lentissimo, c’è anche del personale dell’aereoporto che riprende con una videocamera i passeggeri, munito di mascherina sul volto, non proprio rassicurante. Finalmente ritiro il mio bagaglio, e come un miraggio all’uscita vedo un cartello col mio nome! Un ragazzo della Guesthouse Ultimate Adventure, come da accordi via web, è venuto a prendermi. Sono stanchissimo, il ragazzo parla un pò di inglese, subito il discorso va sul calcio, mi dice che l’Inter ha vinto il derby 0-4, già lo sapevo, ma è esaltante essere accolti in Kyrgyzstan così! Però sono troppo stanco per stargli dietro. In 30 minuti che sembrano infiniti, arriviamo alla piccola guesthouse, sono quasi le 4 del mattino, ho tanto sonno…Ho dormito qualche ora, ma sono già in piedi, Bishkek mi aspetta con la luce del giorno. La guesthouse è carina, semplice, fatta di un piccolo cortile davanti alla camera che è un mini bungalow, fuori il bagno e due locali doccia, puliti. Nell’atrio, due tavoli all’aperto, riparati dal tetto a spiovere della struttura in legno dove credo vivano i gestori. Lui, Stephane, il proprietario, è francese, si presenta e scambiamo quattro chiacchiere tra le varie foto e i piccoli e un pò scoloriti shyrdak appesi (i tradizionali tappetini di feltro lavorati dalle donne kyrgyze). Spicca una enorme bandiera rossa in pesante velluto, con la falce e martello e la stella rossa che domina il mondo; a lato, un busto di Lenin con in testa un cappello kyrgyzo. Faccio colazione e poi via a scoprire la città. Oggi, casualità, è l’anniversario dell’indipendenza, festa nazionale, e si vede. Arrivo all’immensa piazza Ala-Too (ex piazza Lenin), gremita di gente: sotto la grande statua che rappresenta Eriyndik (la libertà), ovvero una donna alata con in mano il sole kyrgyzo, è montato un palco e c’è un concerto con diversi artisti locali che si alternano. Tra loro, il cantante rap che fa anche capriole acrobatiche non me lo sarei mai aspettato, ma la cosa buffa è che anche i giovani delle prime fila lo ascoltano immobili, senza ballare, solo qualche braccio teso per scattare la foto dal cellulare. Quando attacca però la musica popolare, un gruppetto tra la folla di signore dalle chiare origini russe, comincia a scatenarsi, buffissime, però è bello vederle così allegre. E si divertono anche i tanti bambini che giocano scalzi dentro le numerose fontane che sono un pò dappertutto nella piazza, con getti e giochi di acqua a ripetizione. Mi mescolo tra la folla, c’è veramente tanta gente, e tanti fotografi locali con famiglie che posano per la foto ricordo. Non lontano c’è anche un piccolo mercato, dove la merce viene per lo più venduta ed esposta dal retro dei furgoni aperti che vendono ogni mercanzia, dai giocattoli (pupazzi e macchinine di plastica molto anni 70) ai prodotti della terra, miele, frutta, verdure, bevande. Sono l’unico occidentale, perfino un poliziotto mi ferma gentilmente per chiedermi di fargli vedere come funziona la mia macchina fotografica. Anche uno dei fotografi locali fa lo stesso. C’è tanta curiosità, è buffo. Anche perchè ci si capisce solo a gesti, qui che qualcuno parli inglese è davvero raro. Perfino all’ufficio cambia valute ( ce ne sono tanti per strada). Ma la cosa più complicata e che un pò mi spiazza, è che qui, dalle insegne ai nomi delle vie, è scritto quasi tutto in alfabeto cirillico, assolutamente incomprensibile. Mi devo quasi affacciare dentro per capire se sono negozi, ristoranti o che caspita d’altro, aiuto! C’è il sole e fa abbastanza caldo, vago un pò senza meta nel centro, tra i venditori di latte fermentato di giumenca (il Kymys, la bevanda nazionale) posto in grandi bidoni colorati, di bevande, giocattoli e perfino di bicchieri d’acqua, ognuno col suo ombrellone ripara sole. Arrivo ai grandi magazzini statali Tsum, un vero e moderno centro commerciale a più piani (ovviamente lo si capisce anche qua solo entrandovi). Al primo piano una quantità di telefonini e accessori impressionante, per quanto mi riguarda l’unico piano di un certo interesse è il terzo dove si trova un sacco di artigianato locale, i prezzi sono buoni, ma a quanto pare fuori dalla città saranno ancora più bassi. Sembra di essere ad una fiera, infatti non ci sono dei veri negozi, ma degli stand aperti. A parte Piazza Ala-Too Bishkek non offre molto da vedere, ma l’osservare la gente del posto nella sua quotidianità è molto interessante. Vado verso l’altra grande piazza della città, piazza della Vittoria, con un grande monumento che nelle intenzioni dovrebbe rappresentare una yurta gigante, e oltre alla piccola fiamma perenne a ricordare i caduti della seconda guerra mondiale, anche enormi statue in stile sovietico agli angoli della piazza, erette per lo stesso motivo. Poi grandi viali alberati percorsi da vecchi filobus e diverse auto, anche se il mezzo più usato sembrano essere i furgoni Mercedes Benz numerati che fungono da trasporto pubblico. Edifici bassi e piuttosto anonimi, comunque in sè mi da l’idea di una città relativamente tranquilla, con tanto verde. Dopo essermi abbuffato (non ho calcolato la quantità delle porzioni anche perchè con le cameriere non ci capivamo molto), assisto ad una scena (l’ennesima) al limite del surreale, soprattutto pensando a dove sono: fuori da un grande negozio, forse per una inaugurazione, un dj kyrgyzo mette su musica tecno ad altissimo volume (quasi insopportabile) e qualche ragazzo si scatena in balli da disoteca…A fianco a me una signora russa di passaggio, anziana, col suo foulard in testa (la classica babuska), che muove la testa al ritmo della musica! Me ne torno, sempre a piedi, verso la guesthouse, che è a nord della città (in una strada sterrata a fianco ad una casetta che è la sede della Fifa locale), non distante dalla piccola chiesa russo ortodossa, dai colori bianco e azzurro, che sembra quasi finta. Dall’Italia mi chiama Graziana, la sua piccola Anna sta bene, e son felice di sentirla. Arrivo in guesthouse, ho camminato tanto oggi, doccia provvidenziale. Cala il buio e si alza il vento, magari cambia il tempo. Vado a dormire mentre fuori si sentono i fuochi di artificio che concludono la giornata di festa nazionale.

1 settembre Bishkek C’è il sole anche oggi su Bishkek. Passo la mattina cercando di organizzare i prossimi giorni qua in Kyrgyzstan e i passaggi, tramite il ragazzo della guesthouse, contrattando non poco. All’inizio prova a vendermi un qualcosa di simile ad un pacchetto turistico con tanto di guida, al modico prezzo di mille e novanta euro, quasi gli rido in faccia! “i’m not a tourist, i’m a voyager! Alla fine ci capiamo, e mi organizzo il taxi per domani fino a Kochkor, la notte lì e poi il trasporto con un autista fino al lago Song Kol (per forza con una 4×4) e poi a Tash Rabat nel sud del Paese, il tutto da fare in più di una settimana, così da godermi la zona con tutta la calma che voglio, pernottando in una yurta con le famiglie locali. Poi da lì la settimana successiva, risalirò con taxi o mezzi di trasporto locali per vedere la zona dell’altro grande lago, l’Issik Kol, decisamente più facile da affrontare. Risolto questo problema, ne arriva subito un altro: sono in centro, e non so per quale motivo il bancomat non mi fa prelevare più di 100 euro, ma visto che solo qua in città posso prelevare, non mi bastano per tutto il viaggio! Entro allora in banca per prelevare contante con la carta di credito, ma la moderna macchinetta dell’impiegata (l’unica che parla inglese) dice che la mia carta nega l’autorizzazione! Panico. Odio le carte di credito. Per fortuna dopo qualche chiamata in Italia alla banca (per la quale è tutto a posto), l’autorizzazione all’ennesimo tentativo arriva, eureka! Sarebbe stato un bel problema altrimenti! Ora sono più tranquillo, e mi metto di nuovo a passeggiare nelle vie di Bishkek. Tanti giovani kyrgyzy in giro; quella kyrgyza è una delle etnie più antiche di tutta l’Asia, le cui origini risalgono al II Sec a.C. (i tratti somatici sono quelli cino-mongoli). Ma ci sono anche tanti russi, chiari e biondi, la diversità è evidente, le ragazze, alcune davvero belle, alte e slanciate indossano abiti alla moda. Ormai di Bishkek non mi rimane nulla da vedere, un paio di giorni sono sufficienti per visitarla, così passeggio all’ombra degli alberi che costeggiano gli ampi viali del centro, su marciapiedi malmessi. Piccoli chioschi lungo le strade vendono dai giornali alla vodka, e alcune signore munite di bilancia portatile aspettano qualcuno che si pesi per 2 som. Arrivo di nuovo nella grande piazza Ala-Too, e qui mi fermo ad osservare un pò la città in movimento, seduto su una gradinata. Tutti i giovani hanno un telefonino e vestono all’ occidentale, segno che, qua in città, la globalizzazione è arrivata. La piazza oggi appare sotto una luce diversa, il grande viale che l’attraversa, dopo la festa di ieri, è stato riaperto al traffico, e il palco smontato, rendendo visibile il grande cubo di cemento bianco dietro la statua di Erkyndyk, che altro non è che il museo di Stato. In cielo svetta imponente (mai vista una bandiera di stato di queste dimensioni!) l’enorme bandiera rossa con al centro il sole giallo kyrgyzo. Intanto il tempo è cambiato, ora il cielo si è riempito di nuvole, e forse è per questo motivo che le fontane sono spente. Vado a fare qualche foto alla statua di Lenin, poco distante, che ironicamente punta il dito proprio in direzione della scuola d’arte americana. C’è anche una statua di Marx ed Engels, i padri del comunismo, poco distante da qua. Prima di tornare in guesthouse mi fermo da una delle signore che vendono frutta sedute per terra agli angoli del marciapiede, vicino alla chiesa russo ortodossa: 2 grandi mele rosse per 15 som (neanche 25 centesimi), io e l’anziana signora praticamente ci siamo capiti a gesti, sembrava giocassimo al gioco dei mimi, senza mai aprire bocca. Arrivo in guesthouse e bevo un thè accompagnato da tartine di pomodori fritti e zucchine, gentilmente offertomi dai ragazzi della guesthouse, tutti kyrgyzy a parte Stephane; domani comincia il viaggio…

2 settembre Bishkek – Korchkor 240 km Comincia il mio viaggio lungo l’antica Via della Seta, in direzione sud. Compio il primo tratto di strada su una vecchia Mercedes guidata da un simpatico anziano che continua a parlarmi in kyrgyzo cercando di farsi capire, ma con scarsi risultati. Uscendo da Bishkek, si susseguono ai lati della strada piccole bancarelle che vendono soprattutto angurie e strani meloni dalla forma allungata, oltre a patate e altra frutta e verdura. Il primo tratto attraversa una anonima e malandata campagna lungo il confine che separa il Kyrgyzstan col Kazakstan. Poi ecco le prime montagne, che dall’aspetto quasi collinare come se fossero coperte da un manto erboso vellutato, passano via via ad assumere aspetti rocciosi più aspri e ghiaiosi, privi di vegetazione. Peccato che il cielo sia nuvoloso e il sole solo a tratti faccia la sua comparsa. L’autista (dovrebbe essere un taxi, ma ha più l’aspetto di un’auto privata), si diverte a ripetere in italiano il nome delle cose che mi indica, come se lo volesse imparare. Veniamo anche brevemente fermati da una pattuglia di polizia appostata dietro ad una curva. E’ tarda mattinata, sono passate poco più di tre ore e sono arrivato a Korchkor; saluto il mio simpatico che mi ha lasciato davanti alla guesthouse dove stanotte pernotterò. Si tratta di una graziosa casetta bianca e azzurra, in una via sterrata e polverosa a 15 minuti a piedi dal centro del paesino. Ad accogliermi la proprietaria, gonna lunga e foulard in testa, con un ragazzino (figlio o nipote?). In realtà non è una vera guesthouse, ma è proprio casa loro: una grande e ampia entrata con due piccoli locali separati uno per il bagno e uno per la doccia, poi diverse sale tra le quali la mia camera, di fronte a quella del ragazzino. E’ alquanto bizzarra, tappeti ovunque (le scarpe si lasciano fuori casa, all’ingresso), perfino a ricoprire le pareti, e orribili mobili in mogano scuro laccato, con foto in bianco e nero di famiglia alle pareti, che sembrano più dei necrologi. La signora si esprime solo a gesti, ma è cordialissima, subito mi fa il letto, con coperta che tanto per cambiare sembra più un tappeto. In tutto questo le asciugamani rosa stonano non poco! Faccio due passi per Kochkor, il paese è proprio piccolo, quasi tutto disposto lungo i lati della strada principale che lo attraversa, casette ed edifici bassi, col tetto a spiovere in lamiera, alcune con una staccionata e qualcosa di simile ad un piccolo giardinetto. Tutto in poche centinaia di metri, attorno alla fermata del pullman, dove mentre passo i tassisti pronunciano le loro destinazioni, fermi accanto alle loro auto private a passare il tempo in attesa di qualcuno da portare. Qualche vecchia Lada e auto russe mezze arrugginite in un continuo via vai. Anche l’ufficio del CBT (Community Based Tourism), l’equivalente di un ente nazionale del turismo, che mette in qualche modo in contatto i viaggiatori con le famiglie nomadi, è un piccolo sgabuzzino di lamiera bianca, con una signora in ciabatte che però parla inglese. E io che mi aspettavo chissà quale sede! Qui organizzo definitivamente i prossimi giorni, compreso l’autista che per i primi 9 giorni mi porterà prima al Song Kol e poi a Tash Rabat; dormirò in vere yurte, le grandi tende circolari dei nomadi Kyrgyzy, ed entrerò in contatto con la vita nomade di questo popolo, in paesaggi che già so essere grandiosi, nel nulla…Dove la natura è padrona di tutto. Ma ora sono a Kochkor, questo tranquillo e sonnolento villaggio a 1800 metri di altezza, che a girarlo tutto non ci si impiega più di un’ora. Compro in un minuscolo negozietto senza insegna il primo regalino kyrgyzo per la piccola Anna, la bimba di Graziana: un paio di minuscole scarpette di feltro fatte a mano, con il nome di chi le ha realizzate ricamato come un’etichetta sopra. Mi intrufolo in qualche stradina interna, al di là della strada principale, niente asfalto, tanta polvere e qualche asino a passeggio, qualche placido cane randagio, anziani col tipico lungo cappello in feltro ak kalpak, e i bambini, che incuriositi e divertiti della mia presenza, salutano col classico “hello”. Qualcuno chiede anche di farsi fotografare, come una bimba da sola che prima si mette in posa seria e poi, rivedendosi nel monitor della mia Canon, ride divertita e andando via continua a salutarmi con la mano anche da lontano. Per lei è stato un gioco, un diversivo in una giornata che da queste parti mi dà l’idea di essere molto lunga a quell’età. Si fa sera e il cielo si rasserena scoprendo le montagne circostanti. E’ l’ora della mia prima cena kyrgyza. Credevo di mangiare insieme alla famiglia che mi ospita, invece la signora mi ha apparecchiato in una grande sala tutta “tappetata”, da solo in un tavolo per 12 persone, di fronte ad un quadro – ritratto di un antenato di famiglia. Eh si, questa casa al di là del buon gusto dei suppettili e della mobilia, è proprio grande, la famigliola non se la deve passare male, eppure io, per una notte con cena e colazione, pagherò solo 610 som, meno di 9 euro, che comunque da queste parti è già un prezzo medio alto. Mi riempio letteralmente con tre gigantesche polpette di carne e riso, in brodo di cipolle e pomodori, e poi quattro fette simil torta di pasta al vapore ripiena di un qualcosa non meglio identificato. Da bere thè caldo servito in una teiera di porcellana, e in tavola anche vassoi pieni di frutta, caramelle e biscotti, oltre all’immancabile “nan (pane) kyrgyzo. In poche parole rotolo! Tutto buono comunque, chissà domani nella yurta con la famiglia nomade. Fra non molto sarò al lago Song Kol, la meta che attraverso i racconti letti e le foto viste, mi ha fatto prima sognare, poi volere questo viaggio. Domani sarò nomade tra i nomadi. Il silenzio di Kochkor e la luminosa luna quasi piena che intravedo tra le tendine della finestra della mia camera, sembrano quasi volermi dare una sorta di anticipato benvenuto al Song Kol…

3 settembre Kochkor – Song Kol 160 km Si parte per il Song Kol, l’autista, di nome Medeth, è un omone mezzo sdentato con un buffo cappellino da pittore francese, infilato in testa come un preservativo! E’ simpatico, non parla mezza parola di inglese, ma chiacchera in continuazione, capisco dopo vari tentativi e col linguaggio dei gesti misto a qualche parola di inglese, tipico dei viaggiatori, che ha fatto il soldato per la ex DDR da giovane. Viaggiamo sul suo grande Jeep Pajero 4×4, l’unico mezzo motorio che può arrivare in quelle zone. Ad un certo punto, divertito, si mette a cantare a squarciagola il poema epico nazionale Manas in kyrgyzo, aiuto! Il primo tratto è su strada asfaltata e in piano, ma già si cominciano a vedere le prime alte montagne. Attraversiamo piccoli insediamenti di case, con gli uomini davanti alle porte in piccoli gruppi, che indossano l’ ak kalpak in testa. Ora la strada sale, diventa sempre di più una pista battuta, fatta di tornanti in mezzo alle montagne, sempre meno verdi. In tre ore ci sono! Sono al lago Song Kol, mi appare in lontananza con le sue acque color turchese, dalle mille sfumature grazie ai riflessi delle massicce vette innevate alle sue spalle, le vette dello Thien Shan; il paesaggio è semplicemente maestoso, intorno solo qualche punto bianco, le yurte dei pastori nomadi e i primi cavalli bradi, sempre più numerosi, bellissimi. La strada riscende, tra qualche piccolo guado, fino ad arrivare ai 3000 metri di altezza del Song Kol. Passiamo proprio in mezzo a gruppi di cavalli neri, bianchi e marroni, che placidamente mangiano l’erba. Ormai neanche la pista per terra è più segnata, solo qualche traccia di pneumatico. Ci allontaniamo dal lago, la zona è vastissima, attraversiamo ampie vallate verdi e un susseguirsi infinito di colline e piccoli promontori, fino ad arrivare alla yurta circolare bianca, con accanto un’altra tenda tipo militare, dove vive la famiglia kyrgyza che mi ospiterà. Sono quasi sorpresi, qui non esiste segnale telefonico, quindi non potevano sapere del mio arrivo. Lei, Ba Ke, è un’anziana signora, foulard in testa e abiti semplici, qualche dente d’oro e il volto scavato dal freddo e dalla fatica. Medeth l’autista mi fa capire che il marito non vive con loro al momento, ma lavora come tassista a Kochkor. Della famiglia fanno parte anche i due figli maschi grandi, Serhak che avrà poco più di vent’anni, e Shy Lo, forse una quindicina, poi la piccola Nasmy di 5 e il piccolo Jilds di 2 anni. Le due tende sono posizionate appena dietro ad una collinetta, davanti una vasta vallata in piano e le montagne. C’è qualche mucca al pascolo e dei cavalli, uno scenario stupendo. Lascio le mie cose nella yurta e…Mi tocca il primo vero pranzo kyrgyzo nella tenda insieme alla famiglia: seduti per terra a gambe incrociate attorno ad un basso tavolo, io e Medeth, essendo gli ospiti, di fronte alla precaria porta di ingresso della tenda fatta da un pannello ricoperto di stoffa. Le scarpe sempre lasciate appena dopo l’ingresso, prima dei tappeti che coprono la terra. Carne di pecora all’osso, grassissima ed immasticabile, il temibile Kymyz, ovvero il latte fermentato di giumenca, e il nan con burro. Il primo approccio è un pò imbarazzante, in quanto la comunicazione è complicata, nessuno parla alcuna lingua al di fuori del kyrgyzo, ma in qualche modo si fa. La signora continua a versarmi incessantemente del thè caldo: “chay, chay”. Rifiutare sarebbe scortese, così continuo a bere. La tenda non è grande, sarà un 4 metri per 4, subito dopo la porta di feltro, una arrugginita stufa alimentata da sterco essicato di mucca (indubbiamente un metodo economico), che funge anche da cucina, con gli enormi pentoloni un pò malandati. Dall’altro lato gli utensili da cucina, per terra tappeti e poi il tavolo basso che la sera lascia il posto ai materassini colmi di pesanti coperte. La yurta a fianco, dove invece dormirò con Medeth l’autista, è la tipica yurta kyrgyza, a forma circolare, ricoperta esternamente da feltro, interamente il perimetro è formato da una staccionata di legni incrociati, dalle cui sommità partono concentrici a forma di cono rovesciato, tanti lunghi bastoni che convergono fino ad un cerchio sempre in legno, su cui poggia il “cappello” della yurta, regolato da corde esterne che lo aprono e chiudono facendolo scivolare per fare entrare la luce. La sua forma, vista dall’interno, rispecchia proprio quella del sole kyrgyzo rappresentato sulla bandiera nazionale. Il tutto è saldamente legato da lunghe cinture in lana e feltro. Per terra, sopra ai tappeti, i due materassini con le coperte: ” le loro case sono circolari e sono fatte di bacchette coperte di feltro. Queste case se le portano appresso, ovunque vadano. Poichè le bacchette sono legate strettamente insieme e sono ben connesse, la struttura può essere assai leggera”. Così descrive le yurte dei nomadi Marco Polo nel suo libro “Il Milione”. Dentro alla yurta c’è anche un fucile, che immagino serva per le eventuali aggressioni notturne dei lupi al bestiame. Fuori infatti c’è un grande recinto vuoto, le pecore saranno a pascolare ora. Niente luce, qui non arriva nessuna forma di elettricità, si è fuori dal mondo, proprio come ai tempi di Marco Polo. A qualche decina di metri dalla yurta, il bagno, che consiste in quattro pannelli di lamiera arrugginiti, e un profondo buco scavato nel terreno: è già un passo in avanti rispetto al viaggio in Mongolia. Faccio qualche passo (anche per smaltire il pranzo) fra gli altopiani, senza una meta e in totale solitudine. Il tempo non è dei migliori, le nuvole coprono il sole e dal Song Kol proviene un vento freddo e costante. L’aria però è tersa, e gli odori sono nitidi, come quello dell’erba…Mi sdraio, è una sensazione stupenda, sono in cima ad una collina, tutto attorno non vedo altro che natura, cavalli bradi e da lontano qualche puntino scuro di qualche mandria di mucche, o chissà, di pecore. L’unico rumore, o meglio, suono, che si sente, è quello del vento. Di qua passavano le antiche carovane lungo una delle tante strade che costituivano la Via della Seta, la via dei commerci tra due mondi che ancora non si conoscevano, che si scoprivano reciprocamente, oriente e occidente. Erano i primi anni del X secolo, e da allora poco sembra essere cambiato…Provo una sensazione di libertà assoluta. Ora il cielo comincia a farsi davvero minaccioso, il forte vento sposta in continuazione le nuvole, portando con sè anche piccoli chicchi di quella che sembra neve ghiacciata. Torno verso la yurta, o meglio verso la tenda della famiglia, visto che la yurta non è scaldata, mentre lì la stufa è un buon riparo. Si fa sera e la piccola Nasmy, con le sue ciabattine e la felpa con su l’uomo ragno, corre fuori per riportare i vitellini nel loro piccolo recinto. Lei sembra divertirsi, da queste parti tutti aiutano come possono, così i due figli grandi sono fuori a cavallo chissà dove a recuperare il bestiame che libero se ne è andato a pascolare, mentre Ba Ke prepara la temibile cena. Tutto è scandito dai lenti ritmi della natura, che qui decide tutto, padrona incontrastata degli uomini e del loro tempo. Arriva la cena, anche Shy Lo e Serhak sono tornati, fuori ormai è buio, l’unica luce è quella debole di una vecchia lampada ad olio messa sul tavolo, sembra di cenare a lume di candela, si vede poco ma è suggestivo. E forse meglio anche non vedere esattamente cosa c’è nel piatto. Stanotte sarà la mia prima notte nomade in una yurta, in una terra lontana e poco conosciuta.

4 settembre Song Kol Come prima notte in una yurta poteva decisamente andare meglio; Medeth russa come un trombone, e io ho avuto problemi di stomaco tutta la notte trattenuti al limite del possibile, perchè fuori si gelava. Alle prime luci dell’alba filtrate nella tenda, sono uscito dalle coperte messe ad arte per creare un saccoletto (muoversi dentro è un’impresa), e via verso il bagno. Mah, sorpresa! Fuori è tutto bianco, sta nevicando! Ba Ke nella penombra è già fuori a mungere una cavalla, e il recinto delle pecore è pieno, sono tantissime, centinaia! La colazione è già un’altra bella impresa, patate e cipolle (portate da Korchkor da Medeth) e una crema bianca fatta di uova e latte; però va meglio, un pò è stato anche il freddo, oggi sono decisamente meglio attrezzato. Anche se la neve in questo periodo proprio non me l’aspettavo. Provo lo stesso a fare una passeggiata in direzione del lago, ma comincia una vera tormenta di neve con fiocchi gelati che vengono trasportati in orizzontale da un gelido e forte vento. Impossibile continuare, non riesco a tenere gli occhi aperti, quin di rinuncio e a fatica torno verso la tenda. Gioco un pò con Jilds e Nasmy, e do loro i primi regali portati dall’Italia: delle palline di gomma colorate, e una lavagnetta con pastelli e cancellino. Il piccolo Jilds di 2 anni è ancora un pò titubante, e forse impaurito da questo strano signore vestito per lui in maniera ancora più strana. Nasmy invece si scioglie e il suo viso si illumina di un sorriso enorme, fatto di gioia e sorpresa, così come quello della mamma. Passiamo il tempo a disegnare. Fuori intanto smette di nevicare e incredibilmente la neve in poche ore sparisce, assorbita dal terreno assetato, tanto che sembra già secco, come se mai avesse nevicato,effetto anche del vento che continua incessante. E’ ora di pranzo, e, stavolta altra sorpresa positiva, per pranzo verdure cotte e pezzi di carne con riso. Un toccasana per il mio stomaco, già temevo. Medeth l’autista mentre mangia continua nell’indifferenza di tutti a fare rutti devastanti, è impressionante. Finito pranzo ci riprovo, voglio arrivare al Song Kol, che disterà un km da qui, lo si vede in lontananza dall’alto della collinetta. Comincio la mia lunga passeggiata, della neve non c’è più traccia, e solo 2 ore fa era tutto bianco…Sto molto attento a tenermi delle montagne o delle collinette come punti di riferimento, perchè perdersi in questa vastità è facile, le colline, piccole e grandi, si susseguono e accavallano così come le montagne, mentre un punto fermo è il piccolo torrente del Song Kol, solo che anche lui si dirama in più punti. Cerco e trovo i punti dove è più semplice guadarlo a piedi, tra i sassi. Qualche yurta, cavalli e mucche, le uniche forme di vita che incontro, è spettacolare, ormai nel mio girovagare in questo assordante silenzio, comincio anche a parlare da solo, sarà un segno di pazzia? Bhè, ho modo anche di parlare con un cavallo che fotografo se è per questo. Non riesco però ad arrivare al Song Kol, è più distante di quanto pensassi, per oggi ci rinuncio anche perchè rischio si faccia buio, così torno verso la tenda, e per un attimo temo di essermi perso, poi però ritrovo la collinetta sotto la quale ci sono le due tende. Nasmy è dentro che gioca orgogliosa con la sua lavagnetta, è facile intuire che è la prima cosa che le sia stata donata nella vita, qui regali e giocattoli non esistono, gli unici giochi che i bambini si inventano sono quelli di lanciare un piccolo osso di animale per vedere su che lato si ferma, un pò come giocare a dadi. Ed è proprio così che Medeth, io e Shy Lo passiamo i tempi morti in tenda, al riparo dal vento freddo che nel frattempo ha ripreso di intensità. Il piccolo Jilds con il manico di un cucchiaino scava dentro ad un ossobuco, per mangiarsi ciò che ne esce. E’ tornato anche il figlio maggiore, Serhak, e noto per la seconda volta che sotto agli stivali di gomma neri, non indossa calze, ma due vecchie maglie fatte a straccio ed attorcigliate ai piedi. Anche i vestiti sono quelli di una famiglia semplice, sempre più o meno gli stessi, anche perchè tra freddo e mancanza di acqua corrente…Oh, anche a cena come oggi a pranzo, qualcosa di commestibile, patate miste ad altre verdure e brodo di carne. Finiamo la cena col solito gesto rituale di ringraziamento musulmano (che consiste nel giungere le mani da aperte al volto), Nasmy su invito della mamma, mi canta in kyrgyzo una canzoncina con tanto di balletto, è tenerissima! Poi canta anche Medeth col suo vocione, e non è proprio la stessa cosa, mentre anche Serhak si diletta a fare qualche disegno sulla lavagnetta per la sorellina. Fuori ha ripreso di nuovo a nevicare, giusto il tempo di uscire dalla tenda ed entrare nella yurta per la notte, mi cambio il più velocemente possibile (la yurta non è scaldata e spogliarsi è un’impresa), e mi infilo, o meglio, mi incastro sotto le pesanti coperte, mentre il vento si fa sentire sempre più forte contro le pareti della yurta.

5 settembre Song Kol Sembra di essere in Lapponia, è surreale, chi l’avrebbe mai immaginato! Sembra che l’inverno sia arrivato in netto anticipo. Fa freddo, è tutto di nuovo bianco, anche se ha smesso di nevicare, ma lo ha fatto tutta notte, e per terra ci saranno più di 10 centimetri. Il cielo sembra aprirsi timidamente; le pecore, rimaste strette l’una accanto all’altra per scaldarsi nonostante il recinto aperto, ora sembrano decise ad uscire e a cercare da sole un buon punto dove pascolare, chissà dove. E soprattutto chissà come fanno poi a trovarle e recuperarle in questa vastità da qui fino a sera. Finchè la neve non si scioglie c’è poco da fare, così sto nella tenda e gioco con le macchinine che ho appena regalato a Jilds, mentre a Nasmy degli elastici colorati per capelli. Finalmente anche Jilds prende più confidenza, e cominciamo un lungo gioco a tirarci le macchinine da una parte all’altra del basso tavolo, con anche Nasmy, Shy Lo e perfino Medeth! I piccoli si divertono un mondo, basta pronunciare un semplice “bip bip” per farli ridere! Intanto, fuori, la neve scompare e il terreno è di nuovo secco e asciutto, e anche il cielo è azzurro ora e l’aria frizzante. Dopo il pranzo, monto a cavallo nel frattempo sellato da Serhake, insieme a lui, al suo cavallo e al cane Graf, il loro bel cane lupo, ce ne andiamo lentamente verso il Song Kol. E’ sempre una bella sensazione quella di andare a cavallo, in queste terre poi è un’emozione unica, in questi paesaggi sconfinati e totalmente incontaminati, soprattutto dalla presenza umana. Il cane Graf ci precede scorazzando, e quando passiamo nei paraggi di qualche altra yurta di nomadi, i cani di questi ultimi lo attaccano, si rincorrono e un pò se le danno, lui sempre da solo spesso contro 3 o 4 alla volta, ma Serhak non se ne preoccupa più di tanto, sembra una cosa normale, e infatti lo è, visto che appena ci si allontana dalle yurte, i cani se ne ritornano e Graf torna tranquillo a zampettare facendoci da capo guida. Ora c’è il sole, qualche nuvola bianca in cielo che ogni tanto lo nasconde per breve tempo. Arriviamo al Song Kol, le cui acque sono agitate dal vento. Ci fermiamo: è qui, davanti a me, vasto. Quante volte l’ho studiato da casa sulle mappe, ho cercato le sue foto…È lui, la meta maestra che mi ha spinto a venire fino a qui, in questo luogo remoto, dominato dalla natura. A seconda del passaggio delle nuvole che nascondono il sole, il suo colore cambia. Alle sue spalle l’imponente catena montuosa che porta il suo nome, con le cime appuntite ed innevate. Il tempo sta di nuovo cambiando, ormai mi è chiaro che qui nella stessa giornata si possono avere tutti i tipi di clima possibile. Graf se la prende con un toro che tranquillo pascolava ai bordi del lago, ma vista la mole di quest’ultimo desiste.. Io e Serhak montiamo in sella e cominciamo il ritorno. Comunichiamo solo tramite qualche gesto, ci provo ma il suo timido sorriso mi fa capire che non c’è verso; ma basta quello a volte. Scegliamo una strada diversa per il ritorno, Serhak mi guida su in alte colline, lontano dalle valli, tra piccoli guadi e niente altro, solo montagne, neanche yurte. Solo noi, il silenzio è surreale, ridondante, magico…Ogni tanto solo qualche cavallo che discreto pascola lontano da tutto.. Non so quanta strada abbiamo fatto, ma so che da solo non sarei potuto arrivare fino a qua, mi sarei per forza perso prima. Comincia improvvisamente a nevicare, tanto per cambiare, non siamo però lontani dalle tende, e in breve siamo arrivati. Fa freddo, mi rintano nella tenda, dove c’è Nasmy che disegna, con su ai capelli e alle dita gli elastici colorati. E’ la terza sera che giochiamo insieme e cominciamo a capirci bene a gesti anche con lei ormai. E così, a suo modo, mi fa anche un buffissimo ritratto. E’ l’ultima sera insieme alla famiglia di mamma Ba Ke; i pasti sono stati, soprattutto dopo la prima sera, il momento più difficile ed imbarazzante, anche perchè viaggiando da solo, non avevo la possibilità di dialogare mai se non a gesti, mentre ovviamente gli altri chiaccheravano nella loro incomprensibile lingua. Però è andata sempre meglio, anche se l’idea di non essere nemmeno a metà delle notti da passare nelle yurte, senza avere mai la possibilità di sedersi normalmente e non solo a gambe incrociate, senza sapere cosa mi aspetta per i pasti, un pò mi spaventa. Ma ce la farò. E poi dopo emozioni come quella della cavalcata di oggi, cancellano tutto. Medeth l’autista sembra che racconti ai ragazzi dei vari personaggi storici o famosi, localizzandoli per nazione e coinvolgendomi nel discorso: da Don Chishotte a Napoleone e poi a Gengis Khan, per passare a Raffaello e finire con Pavarotti, Celentano e Roberto Baggio. Ma quello che è più buffo è che dell’Italia conosca anche l’ispettore Cattani del film La Piovra! Che strana idea di noi che esportiamo all’estero. “Chay, chay” continua senza sosta mamma Ba Ke riempiendomi la tazza. Diventerò un pallone gonfio di thè se continuo così. Sembrerà strano, ma in tutto questo mi trovo anche a mio agio. Prima di rintanarmi nella piccola yurta, finalmente, nel cielo buio, tra le nuvole, appare per breve tempo una bellissima e luminosissima luna piena…Notte da lupi…

6 settembre Song Kol Ultima mattinata in compagnia della famiglia che mi ha ospitato. Facciamo colazione tutti insieme, poi Serhak, il figlio grande, attorciglia le sue maglie rotte attorno ai piedi, infila gli stivali di gomma e va, salutandomi con una stretta di mano. Ieri Jilds non stava tanto bene, oggi invece tocca a Nasmy, sdraiata sotto le giacche dei fratelli che la fanno da coperta. Oltre a pagare le notti e i pasti, regalo a mamma Ba Ke un mio pile, una maglia, un paio di calzettoni e altri pastelli per la lavagnetta; è felicissima, mi sorride e ringrazia portandosi il pile al petto, quasi stupita. Facciamo tutti insieme delle foto con la mitica polaroid (il regalo più utile che un viaggiatore abbia potuto ricevere per trasmettere e regalare emozioni) che dono loro. Sono stupiti nel rivedere la propria immagine stampata, divertiti ed emozionati, soprattutto mamma Ba Ke che continua a riguardarle e che per l’occasione si è messa un vestito blu elegante. Loro, per ringraziarmi, mi salutano con i loro canti tradizionali, prima Shy Lo, per le grasse risate del fratello maggiore in procinto di andarsene sul suo cavallo, poi Nasmy e Ba Ke insieme. Sono bellissimi. Nonostante sia stata davvero dura stare qui, per diversi motivi, dal freddo ai pasti, dallo scomodo saccoletto agli imbarazzi, è comunque stata un’esperienza unica ed importante, e mentre saluto dal finestrino della jeep (finalmente seduto!) un pò di magone mi prende, ma sono comunque felice di avere regalato qualche sorriso a questa semplice ed ospitale famiglia nomade. Li porterò nel cuore con me. Io e Medeth ci spostiamo verso il Song Kol, il tragitto in auto è breve, e arriviamo presto alla yurta dove pernotteremo questa notte. E’ una yurta molto più grande, e con la stufa dentro. Anche la yurta a fianco, dove abita la famiglia che mi ospita, è almeno il doppio di quella delle precedenti notti, e molto più attrezzata: a parte i soliti tappeti in terra, c’è perfino una lampadina che pende dall’alto e la tv! Luce e tv in una yurta qua al Song Kol, le sorprese non finiscono mai. La corrente viene alimentata tramite il motorino di un generatore. Ci sono padre, madre e tre bambini piccoli, e perfino un micio che si aggira al caldo della yurta. Si vede che il tenore e lo stile di vita sono diversi, sia dagli oggetti nella yurta, sia dai loro vestiti. La famiglia come sempre è ospitale, nel grande tavolo basso rotondo, mi viene offerto del thè, insieme a me al tavolo, c’è anche una coppia di giovani viaggiatori francesi, sono i primi che incontro, e mi fa piacere scambiare due parole con qualcuno. Loro si fermano solo una notte, nella yurta a fianco alla mia (in tutto ci sono tre tende) poi proseguiranno per l’Uzbekhstan. C’è vento fuori, e sole a tratti. Le yurte sono proprio a ridosso del lago, in una grande piana che ospita, molto lontani tra loro, diversi gruppetti di yurte, infatti il clima, anche se non sono molto distante rispetto ai giorni precedenti, sembra meno ostile. Lo scenario è grandioso, da lasciare senza fiato, alle spalle della vallata e del lago, le montagne. Vicino al lago c’è anche una piccola e assurda piattaforma in cemento (unica opera umana), dove, chissà per quali segreti del segnale, prende il telefonino. Ma solo qui in questi due metri quadri, un passo giù o indietro e più nulla, bizzarro. Ne approfitto per togliermi un peso che mi assillava da giorni di totale isolamento, per sapere se a casa è tutto ok e se Graziana e la piccola Anna stanno bene. Ora sono più tranquillo. Faccio due passi e mi siedo, in totale solitudine, sulle rive del Song Kol, in compagnia solo del vento e coi gabbiani che volano a breve distanza da me. Improvvisa ma ormai sempre meno inaspettata, arriva la solita tormenta di neve ghiacciata, ma dura poco e il sole torna a fare capolino tra le bianche nuvole che sembrano giganti. Una pace assoluta, un momento che sognavo da anni. Lo interrompe brevemente solo l’arrivo, dal nulla, di un gruppo di ragazzi kyrgyzy a cavallo, vestiti con uno strano mix kyrgyzo-americano, insomma, i tamarri locali. Mi chiedono qualcosa, forse incuriositi, ma vista la totale incomunicabilità, desistono e se ne vanno sparendo nel nulla al galoppo dei loro cavalli, non prima di essersi messi in posa per una foto. Il tempo scorre lento, è impressionante come il cielo cambi in continuazione e così velocemente, ora è di nuovo grigio e soffia un forte vento, e il Song Kol sembra più un mare agitato. Da lontano arriva verso di me anche un altro “puntino colorato”, è un viaggiatore coreano, anche lui in solitaria. Qui a ridosso del lago è più facile incontrare altri stranieri, viste le yurte del CBT sparse nella piana, anche se si possono contare sempre sulle dita di una mano. Scambiamo due chiacchere in inglese, poi entrambi ne approfittiamo per farci fare a vicenda delle foto, le sue pose con l’immancabile segno di vittoria e una mentre salta in alto a braccia aperte! Sono proprio strani questi orientali. Torno a passeggiare nel nulla, il sole ha preso il sopravvento, e mentre lentamente inizia la sua discesa verso il tramonto, illumina con la sua luce il Song Kol, disegnando scenari mai visti dai colori caldi sulle montagne circostanti, dal rosso al verde delle colline, e il blu, a tratti turchese, del lago che riflette sulle bianche vette innevate alle sue spalle. Basta il passaggio di una nuvola per cambiare di nuovo scenario, è bellissimo, il cielo è immenso e sembra cadere sulla testa, il mio sguardo spazia verso l’infinito nonostante tutto attorno ci siano montagne, ma sembrano davvero lontane, la sensazione che provo di spazio è totale, mi trovo a godermi uno dei più bei panorami mai visti nei miei viaggi…E l’assoluto silenzio, rotto solo dal raglio di uno dei tanti asinelli liberi che pascolano sulle rive del lago. Due asinelli si rincorrono, quello bianco davanti scalcia con le zampe posteriori il nero che lo segue; arrivano a pochi metri da me , poi si fermano e…Comincia il loro breve atto d’amore! Me la rido su, felice me ne torno lentamente verso la yurta, nel tragitto tutto in piano, incrocio e saluto un bambino kyrgyzo che in sella al suo asinello e in compagnia del cagnolino che li segue, se ne torna chissà da dove, mentre in lontananza un gruppo di cavalli corre al galoppo nell’infinito. Senso di libertà assoluto. Arrivo alla yurta, l’uomo anziano della famiglia è nella yurta dove dormirò, vestito in giacca, sta pregando Allah in direzione del mio saccoletto, quindi in direzione de La Mecca. Anche lui dormirà qua con me e Medeth, nella yurta che nel frattempo è riscaldata grazie alla stufa accesa! Io e il puffo viaggiatore ringraziamo le mucche per il loro sterco, finalmente riscopro il calore! Ovviamente anche la yurta della famiglia, dove si cena, è scaldata, e la cena perfino buona, fatta di fagottini ripieni di carne e verdure, simili ai ravioli al vapore cinesi. La “cucina” è attrezzata e la marmellata di fragole è squisita. Attorno al tavolo rotondo solo gli uomini, fatta eccezione per la ragazza francese. Stavolta non resto in silenzio ad ascoltare una lingua a me sconosciuta, ma almeno per questa sera ho l’occasione di chiaccherare un pò di viaggi con i giovani francesi, mentre tutti gli altri, Medeth e la famiglia ospitante, sembrano rapiti dalle immagini tv di un film d’amore locale, tutti tranne la piccola neonata infagottata, che passando di braccia in braccia, sembra più intenta a volersi mangiare il tavolo! La mamma, abbastanza giovane, parla un pò di inglese, e mi spiega che loro resteranno fino ad ottobre, e sono qua da giugno per fare pascolare i loro animali in questi luoghi ricchi di prati. Ad ottobre smonteranno le yurte e torneranno verso Kochkor. Fuori dalla yurta, un’impressionante cielo stellato, e una luna che sembra un faro, in quest’ultima notte al Song Kol.

7 settembre Song Kol – Tash Rabat 250 km E’ incredibile, ieri notte non c’era mezza nuvola in cielo, e stamattina è tutto bianco, e fa freddissimo. Sta nevicando tanto, partiamo presto, dobbiamo arrivare a Tash Rabat e di strada ce ne è tanta. La pista praticamente non si vede, intorno tutto grigio, nonostante ciò incrociamo qualche mucca che apparentemente indifferente cerca di brucare l’erba sotto il manto nevoso. Chissà al tempo di Marco Polo come facevano le carovane a procedere a piedi in queste condizioni. Procediamo molto lentamente, solo dopo 1 ora entriamo nella regione di Naryn, entrando quindi sulla strada asfaltata, che seppur malandata, almeno si vede. Strada facendo nevica sempre meno, e appare pure un pallido sole. Finalmente usciamo dall’inferno bianco, il sole ora ha la meglio e qui sembra perfino non aver nevicato. Continuiamo lungo una strada incastonata tra verdi montagne dalle quali spuntano grandi fiancate rocciose, tanti cavalli bradi, e canyon panoramici stupendi che attraversiamo in un continuo sali e scendi. Dall’alto del passo Karat Al il panorama sulla strada a serpentina scavata nel fianco della montagna è spettacolare, Medeth ne approfitta per una sosta e per farsi fare una foto ricordo con la polaroid, indossando in testa l’ak kalpac kyrgyzo. Comincia la ripida discesa, tra una fitta e ricca vegetazione di cespugli e i primi alberi, alti abeti che ricoprono i pendii di alcune montagne; evidentemente qui il vento del Song Kol non è di casa. Ormai della neve neanche l’ombra, proseguiamo lungo una stretta valle, sosteggiando il piccolo fiume Song Kol. Anche qui il paesaggio muta in continuazione, la strada, che nel frattempo è ridiventata una pista ghiaiosa, ricomincia a salire, e dall’alto del Sery Bel Pass il panorama è di quelli da lasciare senza parole: uno scenario mai visto prima, sembra un deserto visto dall’alto fatto di dune verdi, montagne che sembrano di velluto e dalle forme morbide, dietro alle quali spiccano alte vette innevate; ovunque mi volto colori e montagne completamente diversi, spettacolare. Dopo 3 ore di panorami mozzafiato, arriviamo ad incrociare la strada A365 all’altezza di Kara Unkur, ovvero la strada che porta al Passo Tourghat e quindi in Cina. Fino a qui non abbiamo incrociato nessuno, ora invece siamo su una normale strada asfaltata a doppio senso, fiancheggiata dai pali del telefono, e percorsa da lunghi tir cinesi. Attraversiamo piccoli villaggi, ad Ottuk i bambini escono da scuola, le bimbe tutte con orribili fiocchi bianchi ai capelli che le fanno sembrare delle bomboniere, i bimbi in giacca e pantaloni, tutti da soli che si dirigono ai bordi della strada verso le loro abitazioni. Breve sosta a Naryn, che invece è più una cittadina, e subito la strada risale fino al Kyzyl Bel Pass, con le sue montagne dai colori verde e rosso, e un cielo finalmente blu. In macchina, col sole che picchia, fa perfino caldo adesso. E dire che siamo partiti sotto una tormenta di neve solo qualche ora fa. Per un tratto di strada noto per terra delle cose rosse che si muovono, sono tantissime, a migliaia; chiedo a Medeth di fermarsi, sono cavallette giganti e rosse, mai viste, è impressionante quante siano, e il passaggio delle auto fa una vera ecatombe sull’asfalto. La strada ridiventa sterrata e molto più ampia e monotona, fino ad arrivare alla deviazione sulla sinistra per Tash Rabat: da qui una stradina in una stretta gola rocciosa. Porta fino ad una sbarra dove un improvvisato guardiano fa pagare 50 som rilasciando pure la ricevuta (saranno 80 cent). Altri 3 km di pista e finalmente ci sono, il caravanserraglio di Tash Rabat. Giusto il tempo di posare lo zaino nella yurta e sono qui ad esplorarlo da vicino. Non c’è nessuno, neanche Medeth, sono qui da solo, qui dove agli inizi del secolo e secondo alcune fonti anche molto prima, le carovane sostavano per riposarsi e far riposare gli animali nelle stalle. Le grandi carovane che attraversarono per secoli queste zone, per trasportare non solo la preziosa seta proveniente dall’estremo oriente ancora semi sconosciuto, ma qualsiasi altro materiale, dall’oro all’argento, dalla lana al corallo. Per mesi sudditi, commercianti e viaggiatori, attraversavano a piedi infuocati deserti e gelidi passi di montagna, in condizioni spesso ostili, in quella che si può definire una rete autostradale del commercio di quell’epoca, e i Rabat (caravanserragli) erano una sorta di autogrill. Stupido esempio a parte, attraverso queste rotte hanno cominciato a conoscersi e a commerciare due mondi così lontani e sconosciuti, si sono diffuse malattie, religioni, scoperte. E io ora sono qui, in totale solitudine, in uno di quelli che pare essere stato uno dei caravanserragli più importanti, a giudicare dalla cura della costruzione. Tash Rabat appare come un fortino pietrificato che in parte è scavato nel terreno, come se la sua parte anteriore uscisse fuori da una collina. Ha la forma quadrata, le mura laterali non superano i 20 metri ad occhio, al centro una grande cupola sempre in pietra, mentre l’ingresso è costituito da una grande porta ad arco. Lo esploro, dentro è buio, la luce filtra solo dai piccoli fori che fungevano da finestre. Sembra un labirinto di pietra, con una piccola piazza centrale, sotto la cupola, e diverse stanza di varie dimensioni. Fa impressione vedere le grosse pietre ancora perfettamente incastonate ed integre, considerando l’epoca della costruzione e e il trasporto delle stesse. Cammino e poso le mie mani qui dove secoli fa forse lo stesso Marco Polo ha sostato nel suo viaggio in Oriente, qui dove, forse, ha scritto appunti del suo celebre diario di viaggio poi diventato “il Milione”. E’ suggestivo. Ed è bello essere qui da soli, senza turisti. Esco e mi sdraio sulla salita della collina alle spalle del caravanserraglio, sull’erba: c’è anche qui un silenzio surreale e quando anche il vento cessa di soffiare, si ode solo il cinguettio degli uccelli che volano nel cielo, azzurro intenso. Tash Rabat è in una piccola valle, minuscola rispetto al Song Kol, circondata da montagne, una costruzione casa del custode, e poco distanti le yurte, saranno una dozzina, ma tutte vuote, c’è un vecchio carrozzone che funge da abitazione della famiglia che mi ospita, un cagnone dal pelo lungo che nonostante la stazza è un coccolone. Anche queste yurte hanno luce e stufa, la prima alimentata a richiesta dal chiassoso motorino del generatore, la seconda sempre a sterco di mucca. La yurta dove si pranza e cena invece stavolta non coincide con l’abitazione della famiglia, ma è più una yurta “turistica”; infatti ha al suo interno un grande tavolo a forma di ferro di cavallo, ma un vero tavolo con delle panche, e servizi di piatti e tazze in porcellana made in China. La famiglia qui serve solo i pasti agli ospiti, in quanto vive nel carrozzone, quindi i contatti sono scarsi. La yurta dove io e Medeth dormiremo è invece la classica yurta, con tappeti per terra, i due materassini colmi di coperte, e alle spalle di questi un grande telo dai colori sgargianti raffigurante due cigni, saremo mica io e Medeth? Appena il sole si nasconde dietro alle montagne, comincia a fare un bel freddo. Il cielo di questa nottata però quasi non mi fa avvertire la rigida temperatura: è impressionante il tappeto di stelle ovunque ci si volti, si vedono nitidamente anche le meno luminose, è uno dei cieli stellati più belli che ricordi, e con la mente mi riporta ad una notte stellata con Giò e Graziana nel deserto africano del Namib…

8 settembre Tash Rabat Non c’è nulla di meglio di non avere nulla da fare in un posto come questo. Passo la mattina, sempre armato di macchina fotografica, passeggiando nel verde di queste montagne, guado il piccolo ruscello che scorre a lato del campo di yurte e mi inerpico un pò in salita per vedere Tash Rabat di fronte e dall’alto. Il paesaggio è molto meno “ampio” rispetto alle vedute del Song Kol, ma lo stesso bello e rilassante. Solo un paio di volte vedo dall’alto arrivare qualche auto con qualche turista che però si ferma solo per un giro nel caravanserraglio e se ne va per fortuna. Me ne resto sdraiato a lungo a guardare il cielo e a pensare. In alto due aquile volteggiano lentamente e osservano il tutto dalla loro altezza, chissà che magnifica visuale. Torno giù per il pranzo in yurta, che mi porta l’anziana signora che addirittura parla un pò di inglese; serve solo a me in quanto anche Medeth è andato a passeggiare sui monti chissà dove. Si fa presto pomeriggio e dopo essermi seduto un pò a fianco del ruscello per farmi coccolare dal suono dell’acqua che scorre tra le pietre, me ne torno vicino al caravanserraglio, mi sdraio lungo la collina e scrivo i miei appunti nel silenzio, con un gruppetto di pecore che si arrampica sul fianco di un crinale a due passi da me; che pace! Il tempo comincia a cambiare, e il sole in breve sparisce dietro a nuvoloni grigi. A stare fermi fa troppo freddo ora, meglio rientrare in yurta, di freddo ho già fatto scorta in questi giorni. L’unico neo di questo posto è qualche rifiuto lasciato tra le yurte e il ruscello, un vero peccato perchè basterebbe davvero poco, non dico per l’educazione degli idioti, ma almeno per raccogliere quanto abbandonato, ma non mi sembra una priorità della famiglia che gestisce le yurte. Comincia a piovere, notte fredda e insonne…Troppo scomodo dormire in questi saccoletti! 9 settembre Tash Rabat – Naryn 150 km Anche a Tash Rabat la neve! Fa freddo, tempo brutto, e un sottile strato di neve ricopre le vicine montagne, proprio dove ieri ero sdraiato a contemplare il cielo. Per la prima volta da quando sono qui, una colazione all’occidentale, pastelle di pane dolce, marmellata di albicocche e l’immancabile chay. Medeth mi propone di partire oggi stesso verso nord evitando così brutte sorprese (vedi neve). Accetto, in fondo Tash Rabat me lo sono goduto a sufficienza. Prima di ripartire, la signora mi mostra nella yurta i suoi lavori fatti a mano, dagli shyrdak (i tipici tappetini di feltro) alle ciabatte, cappelli e borse, sempre in feltro. Compro giusto due cose e poi via, si riparte. E’ un pò come se finisse una parte importante del viaggio, la più importante e difficile: Song Kol e Tash Rabat erano le destinazioni a lungo sognate e progettate, e ce l’ho fatta. Ora tutto quello che viene è un di più, progettato a Bishkek. Sotto un cielo grigio autunnale, dopo pochi km siamo di nuovo sulla A365, la Bishkek-Tourgath Pass, ma questa volta in senso inverso. Medeth con la sua jeep fa lo slalom fra le buche sull’asfalto, vorrebbe farmi ospitare questa notte presse dei suoi amici lungo la strada, ci fermiamo alla loro abitazione, ma non ci sono, così gli propongo di proseguire per Naryn, dove avremmo dovuto arrivare domani. Affare fatto. Riaffrontiamo la salita del Kyzyl Bel Pass, che anche sotto una leggera pioggia è stupendo, con le sue montagne dalle forme arrotondate, la terra rossa e le chiazze verdi della vegetazione, ai lati della strada piccoli cespugli di margherite viola. Nel cielo invece tantissimi corvi, molti dei quali se ne stanno appollaiati sui fili del telefono. Prima ho visto anche due grosse civette, mentre cavalli e mucche ormai non li conto più. Ci avviciniamo alla città e scendiamo progressivamente di quota, dai 3 mila e 500 metri ai 2 mila attuali, e anche la temperatura sale, dai – 6 gradi di questa notte agli attuali + 7. Arrivo a Naryn, è primo pomeriggio. Naryn è una cittadina abbastanza grande, con case basse un pò malandate, per le strade vecchie Lada e Zigulì, perfino un filobus mezzo scassato ma con la colorata pubblicità sul fianco. Sembra un pò grigia come città, sarà anche per via della pioggia che cade sempre più forte, mentre la gente cerca di ripararsi come può: gli uomini di una certa età indossano tutti l’ak kalpac, i giovani invece sembrano vestire all’occidentale. Le scritte sono tutte in cirillico, tranne quella di una moderna sala playstation. L’impressione che mi fa Naryn è quella di una cittadina lasciata un pò andare dopo la caduta dell’Unione Sovietica. Medeth fatica non poco a trovare la guesthouse suggerita dal CBT, il cui ufficio qui è tra l’altro chiuso. Ci fermiamo a chiedere in giro un pò a tutti, ma per un’ora continuiamo a girare per le stesse vie. Alla fine non so chi, forse un collega autista visto che anche lui ha un 4×4 che ci guida precedendoci verso un gruppo di malandate case tipo popolari, lunghe ma non alte, 4 piani, tutte uguali stile anni ’70: la guesthouse è proprio qui, ricavata al piano terra di una casa! In pratica un mini appartamento con due camere (in una dalle voci, sembrano esserci due ragazze tedesche), il bagno e il locale doccia comuni. Si, finalmente la doccia! Mi ci butto subito sotto, è da una settimana che la mia pelle e la mia testa non sentivano scorrere su di esse dell’acqua corrente. E’ una sensazione bellissima, ci voleva! E finalmente anche un letto, una sedia e un tavolo. Anche il telefono da qui prende, sono tornato al mondo globalizzato, la Via della Seta è lontana…

10 settembre Naryn – Tamga 260 km Ottima l’immancabile marmellata di fragole a colazione. Oggi c’è il sole, e Naryn sembra anche più bella, attorniata dalle montagne. Medeth, che ha dormito da amici, alle 9 puntuale è qui, facciamo colazione insieme, poi di nuovo in jeep e via. Medeth è di buon umore e canta a squarciagola, intervallando ogni tanto con l’immancabile rutto. Lungo la strada, all’altezza di Kara Unkur, una fila di vecchi carrozzoni accampati a bordo via, con gli abitanti degli stessi che vendono Kymys in bottiglie di plastica. La strada sale, attraversiamo il Passo Dolon a 3038 metri per poi riscendere verso Kochkor. Sono passate quasi due settimane quando da questo piccolo villaggio di basse casette è iniziato il mio viaggio verso il Song Kol, lungo la Via della Seta. Medeth mi porta a quello che definisce il suo ranch, e in effetti poco ci manca: una bella casetta ai margini di Kochkor, con una gigantesca parabolica, un bell’orto, stalle, tanti fiori e tanto verde intorno. Mi presenta sua moglie e uno dei suoi figli (gli altri da quanto ho capito, vivono a Bishkek). L’interno della casa è grande, anche qui tappeti ovunque, pareti comprese. Mi mostra i libri del poema Manas, eroe della mitologia kyrgyza, e subito comincia col suo vocione a cantarne i versi. Pranzo qui da lui, poi dopo l’ultima polaroid di famiglia che gli regalo ( le altre due le ha già messe in bella mostra sulla libreria), di nuovo in jeep per l’ultimo tratto di strada da fare insieme, stavolta con noi viene anche la moglie, vestita di tutto punto con indosso anche un cappello anni ’50, per tenergli compagnia nel viaggio di ritorno, visto che io mi fermerò a Tamga, sul lago Issyk Kol, e da lì proseguirò poi coi mezzi locali nei prossimi giorni. Costeggiamo la Orto Tokay Reserve, poi la strada devia verso est, e ben presto arriviamo sulle sponde del grande lago Issyk Kol. Medeth e sua moglie non smettono di parlare un attimo, la temperatura ora segna 14 gradi, il freddo è un lontano ricordo. Ci fermiamo per una breve sosta lungo le sponde del lago, Medeth si spoglia e ci si tuffa per un breve bagno! Le sue acque sono di un blu intenso, ci sono belle spiagge solitarie, e alle spalle in lontananza, le cime innevate del Kungay Alatau, che fanno parte della catena dello Thien Shian. I kyrgyzy considerano l’Issyk Kol il loro mare, in effetti il lago è davvero grande, largo 70 km e lungo ben 170, il secondo lago di montagna navigabile più grande al mondo dopo il boliviano Titicaca. La strada viaggia per lunghi tratti costeggiando le sue riva, tra la verde campagna circostante. Dopo qualche ora arriviamo al piccolo villaggio di Tamga, con un giorno di anticipo rispetto alla mia tabella di marcia. Medeth mi porta fino alla guesthouse, e, invitato dai proprietari, sia lui che la moglie si fermano a bere un thè. E’ arrivato il momento di salutare Medeth, questo omone kyrgyzo, che fra canti e rutti, mi ha fatto da autista in questa parte del viaggio, la più importante e difficile, è stato proprio in gamba e lo ringrazio. Mi fermerò tre notti qui a Tamga, alla “At the bee-master” guesthouse (Kalinin street 37 / www.Tamga-37.Narod.Ru) dove abitano Nicolai e Carolina, coppia di Bielorussi dall’aspetto e l’abbigliamento da boscaioli, insieme alla loro figlia Kseniya, una bella ragazza 28enne dagli occhi azzurro ghiaccio, insieme ai suoi due bambini, Masha e Igor, anche loro biondi e occhi chiarissimi, tipici lineamenti est europei. Dietro al cancello azzurro con verniciato su il numero 37, si nasconde proprio una piccola oasi verde, le camere, dei piccoli bungalow, sono immersi infatti in un giardino colmo di piante e fiori di ogni specie; alberi di mele un pò ovunque, ma anche viti rampicanti, piante di ribes e mirtilli, margherite viola, clematis, felci e girasoli, poi un piccolo ponticello di legno che porta ai bagni e la doccia, un dondolo, e in mezzo un patio ombreggiato da piante rampicanti. Davvero carino. Confuso nel verde, alle spalle di tutto, l’orto e le arnie, inaccessibili dagli alti cespugli, dove si sentono ronzare in continuazione le api mentre incessantemente lavorano e producono il miele. La prima cena qua, insieme a tutta la famiglia, ha ben poco di kyrgyzo, siamo seduti attorno ad un tavolo di una normale cucina di campagna, e il cibo cucinato da Carolina è squisito. Nè lei nè Nicolai parlano inglese, ma in compenso Kseniya lo parla perfettamente e fa da traduttrice. Sono ovviamente l’unico ospite. Si vede che è una famiglia molto affiatata, Nicolai e Carolina scherzano in continuazione tra loro e anche con me, e il bicchiere, anzichè di chay, continua a riempirsi degli ottimi liquori fatti in casa coi frutti del giardino.

11 settembre Tamga C’è il sole a Tamga, ho dormito benissimo, e dopo un’abbondante colazione, sono qui che passo il tempo chiaccherando e scherzando con Kseniya: per la prima volta in questo viaggio, tolta la breve parentesi con la coppia francese al Song Kol, ho qualcuno con cui dialogare, e anche per Kseniya è lo stesso. Tra una risata e l’altra mi racconta, nel suo ottimo inglese, che qui è sola, non ha amici e non parla mai con nessuno; c’è infatti molta differenza con la popolazione kyrgyza, nei modi, negli interessi, un pò in tutto, mentre con la parte di popolazione russa che vive qua c’è diffidenza, in quanto più o meno tutti gestiscono le poche guesthouse del paese. E’ quindi molto contenta di trovare qualcuno con cui parlare, sono infatti l’unico ospite qui, ma probabilmente in tutta Tamga. Lei vive qui da un paio di anni, da quando coi suoi figli ha lasciato la Bielorussia dopo il divorzio con l’ex marito che definisce letteralmente un animale. Capisco che deve essere difficile la vita di una ragazza bielorussa qua a Tamga, dove non c’è nulla. Lei ha internet, ma il mondo virtuale le va giustamente stretto. Sta lavorando al sito della guesthouse, le darò una mano facendo le foto degli ambienti. E’ tarda mattina, arriva Nicolai, così salgo sulla sua vecchia Lada bianca 4×4, e insieme andiamo a 25 km da qui per vedere le cascate di Barskoon. La strada sterrata sale fino su ad un ambiente tipicamente alpino: alte montagne ricoperte di pini e abeti, sopra le quali svettano cime innevate, in mezzo prati verdi che invitano al pic nic (e purtroppo, in alcuni punti, se ne vedono le tracce). Lasciamo l’auto e continuiamo a piedi dal punto dove c’è un piccolo monumento raffigurante il cosmonauta russo Yuri Gagarin, con tanto di casco spaziale in testa. Il sentiero, appena tracciato sull’erba, sale fino ad arrivare ai piedi di una piccola e bella cascata. Saliamo ancora, ma si fa via via più ripido e scivoloso, Nicolai vorrebbe proseguire, ma io desisto, è pure tardi per il pranzo, quindi scendiamo e torniamo in auto verso la guesthouse, portando i funghi nel frattempo raccolti dallo stesso Nicolai nel sottobosco. A pranzo Carolina e Kseniya hanno preparato la pizza! Pranzare con loro è sempre piacevole, ti fanno sentire uno di famiglia. Pomeriggio, e altra escursione, stavolta addentrandoci nel canyon di terra rossa a pochi km dal villaggio, con me e Nicolai vengono anche Kseniya e i due piccoli Masha e Igor, tornati da scuola. La strada praticamente non esiste, ma il super 4×4 Lada (visto da fuori non gli davo 4 lire) se la inventa laddove nessun altro fuoristrada riuscirebbe ad arrivare, scavalcando dune di terra e grosse pietre alte anche mezzo metro, incredibile e divertente! Il canyon è carino, lasciamo l’auto e ci incamminiamo lungo quello che anticamente era il letto di un fiume, come testimoniano le conchiglie nella terra, e dove il gioco dell’acqua e del vento, nei secoli, si è divertito a creare strane formazioni rocciose che scatenano la fantasia dell’occhio umano, e così sembra di vedere sculture di donne che pregano, ippopotami, leoni e cammelli. Masha e Igor, contentissimi per questa gita fuori programma, si arrampicano dappertutto, con una impressionante agilità. Torniamo alla Lada, e all’inizio del canyon troviamo un furgone che incautamente aveva provato a spingersi in questo luogo, rimanendo infangato con le ruote posteriori: la mitica Lada russa del 1980, con il supporto di una fune, lo tira fuori in un attimo! Torniamo lungo la strada, e facciamo un’ultima breve sosta con arrampicata, fin su ad una collina, per ammirare il tramonto sull’Issyk Kol, mentre il cielo si tinge di rosso. Mi sono concesso due classiche escursioni, d’altronde qui c’è poco da vedere, non è certo il luogo estremo ed incantato del Song Kol, inarrivabile per molti. Diciamo che il viaggio è come se fosse in discesa, ma era prevedibile. Comunque una piacevole giornata ed una ottima compagnia. A cena provo il plov, tipico piatto russo di carne bollita servita con verdure cotte, oltre alle insalate dell’orto, e l’ottimo miele autoprodotto che è sempre in tavola e che tutti mangiano a cucchiaiate (è tra i più buoni che abbia mai assaggiato). Per finire una gustosa torta di mele con su la glassa, appena sfornata, tutto con prodotti propri, sembra di vivere in un agriturismo. Passo la seconda serata qui a Tamga insegnando italiano a Nicolai, che divertito annota le parole sul suo quadernetto verde, e chiaccherando con la simpatica Ksenyia.

12 settembre Tamga Tamga, a parte le brevi escursioni che si possono fare nei luoghi circostanti, non offre granchè ad un viaggiatore, se non la piccola e graziosa spiaggia situata poco più a sud. E’ proprio lì che mi dirigo, e dopo una mezz’ora di camminata eccomi a bordi dell’Issik Kol, completamente da solo. Il sole picchia forte, mi sdraio e mi rilasso ad ammirare le acque calme e blu intense del lago, con in lontananza le vette innevate del Kunglay Alatau che appaiono quasi come un miraggio all’orizzonte. Qui si sta tranquillamente a mezze maniche, entro anche in acqua ma come temevo, è un pò fredda per un bagno. Passata qualche ora, me ne torno in direzione della guesthouse, lungo la strada affiancata da un piccolo canale di scolo, e coi pali del telefono che stanno in piedi in condizioni precarie. Passo davanti alla scuola, forse l’edificio più moderno di tutta Tamga, sul lato opposto del marciapiede una statua raffigurante un soldato, a ricordo delle vittime della II Guerra Mondiale. Pranzo, Ksenyia mi dice che in giornata arriverà a trovarli suo fratello minore, Ivan, che abita ad Almaty, in Kazakstan, insieme alla fidanzata. Chiaccheriamo un pò, poi decido di farmi un giro per il paese, vagando senza una meta per le larghe e polverose strade. Poca gente in giro, anche qui uomini col bizzarro ak kalpac in testa, e i bambini a piccoli gruppi che giocano per la strada; alcuni si intimidiscono a vedermi, così strano per loro e con questa moderna arma al collo, altri invece entusiasti, chiedono di farsi fotrografare, per puro divertimento. Faccio qualche foto e distribuisco come sempre qualche caramella o piccoli giochi. Le poche case, tutte basse come piccole villette a schiera, hanno quasi tutte una staccionata di legno davanti, spesso verniciata di azzurro chiaro, come molti dei contorni delle finestre. In giro poche auto, e datate, sono più i cani e gli asini o cavalli che trainano carretti. Non c’è ombra di negozi nei quali curiosare, se non qualche porta dove la gente del posto entra, probabilmente gli approvvigionamenti locali, segno evidente che qui di turisti non ne vedono quasi mai, infatti in molti mi guardano incuriositi. Torno in guesthouse e nel frattempo sono arrivati Ivan e la fidanzata, lei dai tratti somatici orientali, tipicamente kazaki. Lui mi sembra un tipo esuberante ma simpatico, a cena anche due amici kazaki: un ragazzino timido che non conferisce parola e suo padre, un uomo con la coda che insegna Tai Chi, ma che fino a qualche anno fa, era agente del KGB…

13 settembre Tamga – Jety Oguz 95 km La tappa di trasferimento tra Tamga e Jety Oguz non me l’aspettavo proprio così! Ho appena salutato Ksenyia e Nicolai con un forte abbraccio (loro vanno con la famiglia in spiaggia) e sono su un furgone scassato che fa da autobus fino alla città di Karakol (pago 70 som). Viaggiare su un mezzo locale è sempre un viaggio nel viaggio, a bordo sono l’unico occidentale, il mio zaino accatastato a fianco al cambio dell’autista, che guida con davanti un parabrezza semifrantumato. A bordo, sui sedili di pelle semisfoderati, solo locali, soprattutto donne e di una certa stazza, insomma, delle babusche kyrgyze. Il furgone arranca lungo la strada male asfaltata e piena di buche, e ad ogni villaggio tira su qualcuno, saremo una ventina, assiepati, e la capienza non supera le 14 persone; tutti in silenzio e con lo sguardo perso, la radio del mezzo trasmette musica locale. Dopo un paio di ore (grazie anche ad una signora che a gesti me lo fa capire), arrivo a destinazione, o meglio, alla fermata più vicina alla mia destinazione, perchè il furgone prosegue lungo la strada principale. Mi ritrovo così, carico dei miei zaini, ad un bivio, con un benzinaio a lato strada. Ma è un attimo, basta allungare un braccio e la prima auto già si ferma: mostro il biglietto con l’indirizzo di dove devo andare, saggiamente fattomi tradurre in cirillico da Ksenyia prima di partire, e comincia la contrattazione sul prezzo, a gesti, perchè il giovane ragazzino improvvisatosi tassista, non capisce mezza parola di inglese. L’indirizzo me lo aveva dato il tizio della guesthouse di Bishkek, senza però specificarmi che non fosse in città, ma ben oltre Jety Oguz. Infatti, il ragazzino a bordo della sua auto bianca scassata che avrà più di 40 anni (il contachilometri è rotto, cavi che penzolano, e per aprire la portiera bisogna farlo dal vetro abbassato, perchè mancano le maniglie, così come le cinture), comincia ad inerpicarsi come in un rally, lungo una pista di montagna, fra sassi, enormi pozzanghere, ponticelli di legno e perfino guadi. Sento gli urti delle pietre che battono sotto la carrozzeria, è surreale, ad ogni piccolo guado (non so come faccia) si ferma, riempie una bottiglia di acqua, e in parte ne versa nel bocchettone dell’olio e in parte la usa per bagnare il motore! Lo ripete almeno tre volte in non più di 10 km, morale, la macchina, miracolosamente arriva alla destinazione finale! Altro che guesthouse, sono yurte! Io che pensavo di essermi liberato dei saccoletti, del freddo e dello stare a gambe incrociate sotto i tavoli…Mostro l’indirizzo, si fa per dire, alla signora che mi viene incontro, ed in effetti è proprio qui che pernotterò per le prossime due notti. Sono un pò spiazzato, ma va bene così, di nuovo in una yurta, e per la prima volta completamente da solo, tutta per me. La yurta è grande anche se vuota, dentro solo il tappeto e su il saccoletto, mentre in un angolo ci sono una pila di pesanti coperte. Il paesaggio è tipicamente alpino, alte montagne rocciose, in gran parte ricoperte da foreste di pini e soprattutto alti abeti, grandi pascoli che si aprono tra i boschi, e l’ omonimo fiume Jety Oguz, dall’ampio letto e dal vorticoso fluire in un continuo di ripide che farebbero la gioia degli amanti del rafting. Un bel paesaggio montano insomma, dominato dal verde, anche se paesaggi decisamente meno estremi e spettacolari rispetto al Song Kol, ma più turistici, tanto che anche qui la famiglia vive in un carrozzone a fianco delle 7 yurte poste ai piedi di una foresta, di cui una più grande fa da yurta da pranzo, la mia è la più lontana, vicina ai bagni, le solite cabine di lamiera, ma stavolta con dentro un vero water, e fuori un piccolo lavandino con specchio, una vera area attrezzata. La signora parla un pò di inglese, e mi invita ad accomodarmi nella yurta dei pasti per il pranzo (di nuovo in posizione yoga). Al tavolo, imbandito di cibo, ci sono due coppie di russi, con una bimba piccola nel passeggino; l’unica cosa che capisco è che son qui di passaggio, una gita giornaliera, non pernotteranno nelle yurte. Una delle due coppie vive nella vicina Karakol, l’altra è sua ospite e viene dalla Siberia. Sono simpatici, e continuano a coinvolgermi nei loro continui brindisi a base di vodka che si sono portati al seguito; e giù uno, due, tre…Al quinto dico stop, già mi gira tutto intorno. Per smaltire mi faccio due passi nel verde, seguendo il letto del fiume, fra gli abeti. Sono quasi le 16.30, mi riparo nella mia yurta in quanto arriva il classico temporale di montagna. Cena e poi di nuovo qui dentro, nella mia personale casetta di questa notte.

14 settembre Jety Oguz Stanotte mi sono inventato un saccoletto tutto mio, e incastrando coperte su coperte non ho avuto così freddo! Colazione affollata, qui i turisti arrivano, infatti c’è un gruppo di inglesi di una certa età, con le loro guide kyrgyze, in totale sono in 11. Sono cordiali, scambiamo qualche parola, poi mi rimetto gli scarponcini e mi incammino verso valle, seguendo la pista battuta, tra pozzanghere, pietraie e pascoli di alta quota affollati da pecore, mucche e qualche cavallo, che pascolano liberi. Cos’, quasi senza accorgermene, tra un tornante e l’altro, arrivo fino al Sanatorium di Jety Oguz, 12 piccole casette e un grande edificio di cemento, il Sanatorium appunto, un complesso termale ormai un pò fatiscente. Più a valle si vedono le “sette torri”, ovvero sette sporgenze rocciose di colore rosso che formano la massiccia parete di Jety Oguz. Qui c’è anche un debole segnale del telefonino, visto che anche ieri ero isolato, sono sceso fin qui per chiamare, ma ahimè invano, giusto il tempo di uno scambio di sms e ricomincio la salita, faticosamente; il suono dello scorrere del fiume mi accompagna, incrocio un paio di pastori kyrgyzy a cavallo, e due furgoncini per turisti che salgono a fatica lungo la strada. Finalmente, dopo l’ennesima salita, si apre la ampia vallata poco oltre la quale c’è l’accampamento di yurte. Ho camminato oltre 4 ore e sento le gambe che accusano non poco la fatica. Per questo, dopo pranzo, me ne resto nella yurta a scrivere e leggere mentre fuori si alza un forte vento. Gli inglesi sono andati via, è arrivata una giovane coppia di tedeschi, con guida e autista, che però a cena tardano perchè in giro, e ne approfitto per l’ultima abbondante abbuffata solitaria in una yurta: insalate, tortelli in brodo con verdure, riso e carote con pezzi di carne magrissima, torta di cipolle, frutta secca e marmellate a volontà. Non sono al Song Kol, e anche da questo si capisce. Mi occorre fare quattro passi con la mia mini torcia, sotto un bel cielo stellato, per smaltire un pò la cena. Ora, dopo avere infilato un altro materassino sul freddo terreno sotto al mio saccoletto, sono pronto per la mia ultima e silenziosa notte in una yurta.

15 settembre Jety Oguz – Cholpon Ata 180 km Questo risveglio è uno di quelli per cui vale la pena alzarsi: dopo una notte al caldo grazie al saccoletto creatomi ieri sera, appena in piedi metto fuori il naso dalla yurta proprio mentre il sole appare da dietro ad una montagna, illuminando la valle e l’erba, ancora bagnata per via dell’umidità notturna, dove posano diversi corvi che subito si alzano in volo, e uno scoiattolo subito sale su un tronco alla mia vista…Non poteva esserci risveglio migliore. Colazione con porridge, pane dolce e marmellate. Mi faccio dare un passaggio fino a Karakol dai proprietari delle yurte, marito e moglie con il loro piccolo di due anni. Facciamo la pista di montagna con una vecchia Audi bassa, non certo un 4×4, ma qui mi sembra di capire che faccia poca differenza. Da Jety Oguz la strada è asfaltata e arriviamo in breve tempo a Karakol. Qui mi lasciano alla fermata dei mini bus che partono per Cholpon Ata, ma, sorpresa, il furgone mercedes non parte finchè non è pieno, cioè bisogna aspettare un tempo indefinito, anche ore. Così il proprietario della yurta chiede ad un tassista lì nei paraggi: in realtà è un taxi collettivo, cioè tira su anche gente lungo il tragitto. 200 som, cioè poco più di 3 euro per i 180 km del tragitto, un buon affare, così salgo sulla sua Audi 80 e partiamo. La strada, stavolta ben asfaltata, costeggia dopo poco il versante nord dell’ Issyk Kol , mentre sull’altro lato della strada, campagne e alle spalle la catena del Kungay Alatau. Attraversiamo, ben distanziati tra loro, diversi paesini, dove ogni tanto, a bordo strada, spunta qualcuno che allunga un braccio, il tassista si ferma e lo carica su: così salgono 2 signore che scendono al paesino successivo, poi due uomini, poi una signora, poi ancora un’altra e così via. E’ divertente, io davanti, mentre sui sedili posteriori cambiano in continuazione i passeggeri. In fondo qua i paesi sono tutti lungo quest’ unica strada, carichiamo perfino un bambino con la divisa scolastica e la cartella, da solo, avrà avuto 8 anni. Tra un via vai e l’altro però l’inconveniente è dietro l’angolo: ci fermiamo a bordo strada in un paesino, tempo di aprire il cofano e correre in un negozio lì a fianco, che dai bocchettoni dell’aria dell’abitacolo, nel quale sono da solo in questo tratto, esce una densa fumata nera. Scendo, mi sa che siamo nei guai: il tassista torna con delle bottiglie di acqua, ma qualcosa si è rotto, tanto che si improvvisa meccanico, tira fuori dal portabagagli un tappetino sul quale sdraiarsi, la cassetta degli attrezzi (che è una borsetta con su topolino) e via sotto l’auto a maneggiare. Restiamo fermi, passano i minuti. Il tassista si allontana e torna con un tubo, ma è troppo lungo e comincia a tagliarlo con il seghetto…Alla fine, non so come, ma la macchina sembra a posto, è passata un’ora e ripartiamo, l’improvvisato meccanico è riuscito nel suo intento e torna tassista. Ricomincia anche la girandola di passeggeri, sale anche una signora con un bimbo piccolo che dopo un pò comincia a rimettere: la signora, imbarazzata, lo tampona con le mani nude, le offro almeno un pacchetto di fazzoletti. I due arrivano a destinazione, e il tassista si mette a lavare il tappetino in un vicino canale di scolo. Tra le vetture che incrociamo per strada ne noto addirittura una, vecchissima, senza il cofano anteriore, pazzesco! Arriviamo a Cholpon Ata, un pò di fatica a trovare l’Hotel Apai dove pernotterò ma alla fine ci siamo: saluto e ringrazio il tassista/meccanico e entro in quello che è un vero hotel, con piccola reception e due piani di camere. Si, in quest’ultima tappa mi voglio concedere un pò di relax, anche se il passaggio dalla yurta ad una camera con bagno privato (la prima in tutto il viaggio), 4 letti solo per me, tv e pure mini frigo, è assai brusco. In pratica ho a disposizione un bilocale, per 20 euro, che qui è uno sproposito. Cholpon Ata è una piccola cittadina, non un paesino, qui non girano asini e cavalli. Il tutto si racchiude in un paio di km, sui lati della strada che porta a Bishkek: piccoli e fornitissimi minimarket (reparto vodka in evidenza), diversi cambiavalute e locali dove mangiare, ma tutti con scritte in cirillico. Poi ancora un bel parco per i bambini e perfino una piccola sala giochi. E’ la classica località di villeggiatura, e lo si vede dalla presenza di tanti russi in giro, che sono la maggioranza, vestiti in costume e ciabatte. C’è il sole e fa caldo. Mi addentro nelle piccole viuzze che portano al lago fino ad arrivare a quella che è una vera spiaggia; non me l’aspettavo, credevo più ad una caletta un pò più grande di quella di Tamga, invece qui è proprio un ampio arenile in sabbia, con gente che prende il sole e fa il bagno, qualche ombrellone e perfino i pedalò. Com’è lontano il Song Kol…In spiaggia sono veramente quasi tutti russi, non sembra di essere in Kyrgyzstan. La spiaggia è talmente estesa che nonostante ci sia gente, non si fatica a trovare un angolo appartato. L’Issyk Kol sembra proprio un mare, l’acqua è pulita, ci entro fino alle ginocchia, invita al bagno ma non ho il costume con me, così mi accontento di ascoltare il suono della risacca oltre alle voci di sottofondo. Ci sono tanti gabbiani, e un tizio passeggia con un cammello in cerca di turisti che vogliano farsi la foto, oltre a venditori di zucchero filato rosa e pesce affumicato. Sono in spiaggia, mai mi sarei aspettato di trovarmici in Kyrgyzstan, solo stamattina ero in una valle tra montagne e foreste. Ma quanti volti ha questo Paese? Torno in hotel per godermi una lunga doccia calda e riesco in cerca di qualcosa da mangiare per cena. Zoppicando, perchè dopo due settimane di scarponcini da trakking era quasi inevitabile una bolla sotto il tallone, meno male che è arrivata solo ora che posso cambiare scarpe, non essendo più in montagna. Però sono proprio orgoglioso dei miei super scarponcini, che hanno ormai 15 anni e mi hanno accompagnato per tutto il mondo, dalla Patagonia all’Everest, dal deserto di Atacama a quello del Gobi, ovunque! Di locali in giro ce ne sono tanti, ma trovarne uno con le indicazioni nel nostro alfabeto e non in cirillico, è un’ impresa. Opto per la soluzione meno complicata e anche più economica: per 70 som (un euro e poco più) prendo, indicandolo col dito, un mega kebap in un piccolo fast food. Anche stasera, con la lingua, ce la siamo cavata. Questa a Cholpon Ata è l’ ultima tappa di questo lungo viaggio in Kyrgyzstan, prima del ritorno a Bishkek domani (devo ancora trovare il modo, o meglio il mezzo per arrivarci senza spendere troppo).

16 settembre Cholpon Ata – Bishkek 300 km Nonostante l’hotel Apai sia pieno, a giudicare dal continuo via vai di ragazzini russi, questa mattina sono l’unico a fare colazione qui. Colazione, e mentre mangio i seppur cordiali proprietari, ne approfittano per usarmi da cavia come insegnante di inglese: la moglie un pò lo parla, mi dice che sono il secondo italiano a venire nel loro hotel, stavolta non ho l’esclusiva come a Tamga! Lui invece a fatica legge e mi ripete elementari frasi prese dal frasario di inglese: “how are you”, “how old are you” “are you married”…Sembra una vera lezione di inglese elementare. Comunque lui, gentilissimo, mi da un passaggio con la sua auto fino al parcheggio dei minibus e dei taxi. Nonostante questo disti dall’hotel non più di un centinaio di metri. Un tassista per partire subito, mi chiede 2000 som, cifra esagerata! L’alternativa è aspettare che trovi altri tre passeggeri, ma da qui, non come ieri lungo la strada, in quel caso il prezzo sarebbe di 500 som per i 300 km che mi separano da Bishkek. Non ho fretta, salgo in auto e aspetto, in fondo è anche suo interesse trovare qualcuno, e poi per il minibus che ci mette il doppio del tempo, c’è ancora di più da aspettare. Mi va bene, dopo poco più di mezz’ora troviamo altri tre passeggeri, tutti kyrgyzy: una coppia anziana e una ragazza bionda ossigenata dall’aria un pò svampita. Sono le 9.15, partiamo. Il tassista, giovane, preme come un dannato sull’ accelleratore nei rettilinei con la sua Bmw Passat, stavolta discretamente recente. Rispetto al tragitto di ieri da Karakol a Cholpon Ata, la strada incontra molti meno paesi (ecco perchè il taxi sarebbe partito solo con già tutti i passeggeri a bordo), solo tanta campagna e terra dall’aspetto semi abbandonato. Arriviamo alla cittadina di Balychy, con i suoi grandi impianti industriali fatiscenti; breve sosta in un moderno distributore di benzina, con le ragazze addette al servizio in ciabatte, poi si riparte. Ai lati della strada, piccoli banchetti che vendono mele in secchielli colorati, altri miele, e ancora pesce affumicato. Lasciata Balychy e il lago Issyk Kol alle spalle, la strada prosegue più monotona verso nord, in una serie continua di curve, paesaggio arido montano, da un lato il binario unico della linea ferroviaria che porta a Tashkent, in Uzbekzstan, dall’altro il confine col vicino Kazakhstan, tanto che la strada passa a pochi metri da uno dei posti di frontiera. Ma nonostante la macchina su cui viaggio sembra in buono stato, anche oggi l’imprevisto è dietro l’angolo: in ripartenza, dopo una breve sosta, il motore gratta inserendo la prima! Siamo in mezzo alla campagna, stavolta il tassista non sembra in grado di metterci mano! due su due, sarò mica io che porto jella!? Per fortuna dopo poco si ferma un’altra auto di passaggio, il cui autista confabula col tassista, dopodichè lo stesso fa cenno a me e alla ragazza di salire sull’altra auto, che suppongo faccia anche essa da taxi visto che ha già due persone a bordo. Così riparto, non manca tanto, e in meno di mezz’ora sono a Bishkek. Vengono prima lasciate gli altri passeggeri, poi, grazie al mio foglietto con l’indirizzo tradotto in cirillico, l’autista (o meglio, il tassista) che a differenza del giovane di prima, parla un pò di inglese, mi porta verso la guesthouse. Sono di nuovo nella capitale, da dove questo viaggio ha avuto inizio. E’ strano ritrovarmi di nuovo in una città, le auto, il caotico e disordinato traffico, i cartelloni pubblicitari, i semafori, le palazzine fatiscenti e i biondi e le bionde russe che si mescolano in questo strano mix con la popolazione kyrgyza. Tutto strano dopo tanta natura e tanto silenzio. Sono alla guesthouse Ultimate Adventure, stavolta non come unico ospite: c’è uno strano tizio, francese come il proprietario, che sta girando il mondo da 10 anni col suo sidecar. Di Bishkek ho già visto tutto, così vago verso il centro, cercando persone a cui regalare qualche gioco e un pile che mi avanzano. Di “bambini di strada” non se ne vedono, abbondano invece gli anziani, tutti dai tratti somatici russi, che elemosinano in pessime condizioni lungo i marciapiedi. Chissà che passato hanno alle spalle, chissà cosa facevano quando qui era Unione Sovietica. Molte sono anziane babuske che con la caduta dell’Unione hanno visto da un giorno all’altro perdere qualsiasi sussidio statale come la pensione. Ad una di queste vecchine dallo sguardo perso, regalo il pile, spero riesca ad esserle utile durante il freddo inverno alle porte. Oggi invece fa decisamente caldo, nonostante il sole giochi a nascondino tra le nuvole. Un giro ai magazzini Tsum per qualche regalo da portare in Italia ad amici e famiglia. Il piano terra, quello del reparto telefonia, è affollato quanto i nostri centri commerciali al sabato. Sia qua, come in strada, tante belle ragazze, soprattutto russe, impossibile non notarne la bellezza. Me ne torno verso la guesthouse, che dista dal centro una ventina di minuti a piedi, passo quindi per l’immensa piazza Al Too, e costeggio la “Casa Bianca” (scarsa fantasia), ovvero il bianco edificio di puro stile sovietico che funge da residenza presidenziale. : cancelli dorati, fiori e fontane ovunque, e nuove Chrystleer dai vetri oscurati, gli eccessi di questi Paesi…Durante il tragitto, ad una bancarella, mi fermo per acquistare due grandi mele rosse e una forma di pane, che saranno la mia cena. Sono stanco di camminare, e ho poca voglia di riuscire e rifare tutta questa strada, tanto più che la bolla sotto il tallone ancora non è guarita. P.S.: le mele kyrgyze sono squisite! 17 settembre Bishkek Cielo grigio e pioggia questa mattina su Bishkek. Volevo andare al bazaar di Osh, di frutta e verdura, per qualche scatto fotografico, ma con questo tempo…E’ l’ultimo giorno in Kyrgyzstan. Sistemo lo zaino aspettando che smetta di piovere, ma invano. Sono le 12 e mi decido ad uscire, sotto l’acqua, facendo slalom tra le pozzanghere dei malmessi marciapiedi. Passo davanti a quella che sembra essere l’Università, piena di giovani che chiaccherano sulla scalinata. Visto che è l’ultimo pranzo qui, mi tratto bene, e decido di pranzare in un vero ristorante, l’Adriatico Paradise, ristorante italiano consigliato dalla Loonely Planet, in Chuy prospektisi, l’arteria principale di Bishkek, che ormai conosco a memoria. Nella sala, a parte una coppia di turisti forse italiani a giudicare dalla guida sul tavolo, solo uomini in giacca e cravatta e signore eleganti; mi sento un pesce fuor d’acqua. Però mangio bene, e in fondo, anzichè spendere un’euro, ne spendo 5, ci può stare! Ottimi i tortelli spinaci e panna. La giovane cameriera kyrgyza mi apre perfino la porta per uscire, trattato come un signore! E’ lunga passare la giornata con questa pioggia, per fortuna ora concede una tregua, curioso nel Beta Store, classsico centro commerciale, poi, dopo una lunga passeggiata dall’altra parte del viale, arrivo fino agli Tsum per un ultimo giro di acquisti. Sto cercando anche una soletta morbida per il problema al tallone, ma quelle che trovo sono tutte in pelo, e per camminare nella calda Istanbul nei prossimi giorni non mi sembra il caso. Continuo a passeggiare senza una meta, per passare un pò il tempo, anche se so già che mi mancherà anche questa strana cittadina e la sua gente. Due passi al Dubovy Park, pieno di sculture e coppiette che flirtano sulle panchine, poi ancora fino all’altro parco, il Panfilov, a poca distanza sempre in Chuy prospektisi, in una specie di luna park, con ruota panoramica e vecchie giostre malinconicamente vuote, ma anche per via della brutta giornata. Infatti ricomincia a piovigginare, cambio gli ultimi som rimasti in uno dei tanti piccoli uffici cambia valute, e lentamente me ne torno verso la guesthouse. Non ho più nulla da fare, se non aspettare l’una di questa notte, quando il taxi, già prenotato, mi porterà all’ aereoporto Manas. Un pò di malinconia, nella mia mente scorrono come impresse sul nastro della memoria, le tante emozioni che questo viaggio, questo Paese, mi hanno regalato. Ripenso al primo giorno a Bishkek nel mezzo dei festeggiamenti per l’anniversario dell’indipendenza, e poi ai silenzi, alla maestosità dei paesaggi, alle tormente di neve, agli animali liberi,alla semplicità e alla accoglienza nella yurta avuta in uno dei luoghi più ostili, difficili, ma allo stesso tempo unico e da lasciare senza parole: il Song Kol. Non potrò mai dimenticare quei cieli, quell’immensità. E poi ancora il fascino e il mistero di Tash Rabat, quel cielo infinito pieno di stelle, e infine i giorni all’ Issyk Kol. Davvero un Paese dai mille volti il Kyrgyzstan. Sono felice di avere realizzato questo sogno, ho regalato qualche sorriso, in cambio ho ricevuto tante emozioni che porterò sempre con me. E’ stata senza dubbio un’esperienza di vita importante, una sorta di prova, più impegnativa del previsto, ma straordinaria. Rahamat Kyrgyzstan…

18 settembre Istanbul Notte come sempre insonne sul volo della Turkish Airlines che stanotte mi ha portato da Bishkek a Istanbul. Atterraggio puntuale, ma poi mi tocca un’infinita coda per il controllo passaporti. Passa oltre un’ora prima di recuperare il bagaglio, per fortuna, un omino dell’Hotel Esen dove ho prenotato, mi aspetta col mio nome scritto a penna su un foglio di carta: è buffo, piccolino, non parla mezza parola di inglese se non “Turkyie good”, e fatica pure a trovare la macchina parcheggiata nei sotterranei dell’aereoporto. Appena risaliti con l’auto in superficie, Istanbul mi accoglie con una bellissima alba che si riflette sul mare, e sfuma all’orizzonte i profili dei tanti minareti della città. Non c’è ancora molto traffico a quest’ora, sono le 7.30 del mattino, e in una ventina di minuti sono all’Esen (www.Esenhotel.Com), situato appena dietro alla stazione ferroviaria di Sirkeci, a pochi passi dal quartiere Sultanameth. La mia camerà è la 401 (chissà poi perchè questo numero, visto che ci saranno una decina di camere in tutto), al quarto piano, niente ascensore ma scale a chiocciola buie, illuminate solo alla base da piccole luci colorate, che fanno luce solo sui gradini di moquette rossa, sembra di essere in un night club! Piccola stanza col bagno, dalla finestra, sporgendosi un pò, oltre alla stretta via sottostante, si vede il quartiere di Beyoglu, con la Torre di galata in evidenza. Sono stanco dalla nottata passata in volo, provo a dormire un pò, ma senza risultati. Ormai si è fatta tarda mattina, decido così di farmi un giro in direzione Sultanameth, C’è tantissima gente, talmente tanti turisti che mai mi era capitato di vederne così tanti concentrati in un’unica città, sento parlare in qualsiasi lingua, la maggiorparte sono spagnoli (così come mi era capitato in India), tanto che in alcuni locali le scritte per turisti sono appunto spagnolo e inglese. Mi sento un pò disorientato, non ero più abituato alla gente, alle voci, alle auto…Tre settimane di Kyrgyzstan mi avevano proiettato in un’altra dimensione. Tanto per riambientarmi al caos, mi reco in uno dei luoghi più affollati e caotici d’Europa: il quartiere dei Bazar, uno dei mercati più grandi al mondo. Un labirinto infinito di bancarelle che vendono di tutto, una addosso all’altra, un fiume di gente, locali e turisti, che come tanti piccoli pesci vengono attratti nelle reti dei venditori! Sono finito in quello che sembra un inferno dantesco, aiuto! Le botteghe vendono di tutto: jeans, scarpe, articoli per la casa, costumi per la danza del ventre, argenteria, narghilè, oro, ceramiche dai colori vivaci, e soprattutto thè e dolci turchi. La parte più interessante e pittoresca del bazar è indubbiamente il Gran Bazar, il più famoso suk del mondo, un grande mercato al coperto che esiste da oltre 500 anni. Rinuncio ad orientarmi con la mappa, è praticamente impossibile, l’unica e più pratica soluzione è quella di girare tra i mille vicoli lasciandosi guidare dalla curiosità, e nonostante sia stanco e disorientato, devo dire che questo luogo ha un fascino particolare. Anche io mi faccio attirare in una delle piccole botteghe, e dopo l’obbligatoria e divertente contrattazione, compro diversi pacchetti di thè turco. Non so come, ma riesco ad uscire dal Gran Bazar, ritrovandomi a percorrere stradine tutte in salita e discesa, occupate spesso dai furgoni di carico e scarico merci, che intasano e bloccano la viabilità, mentre la gente fa acquisti o trasporta con carrellini ma anche a spalla, enormi sacchi pieni di merce appena scaricata. E’ un vero delirio, in più fa pure caldo! Sempre a piedi, torno lungo la via tramviaria a Sultanameth. Anche qui i negozietti per turisti abbondano, così come i ristoranti, e i pub. Trovare dove mangiare ad Istanbul non rappresenta per nulla un problema, e si spende anche poco! Sono di nuovo a Sultanameth, il cuore storico della città, che nonostante l’invasione di turisti, appare come una delle poche città viste fino ad ora che non ha perso la propria identità, dove moderno e antico si fondono e convivono perfettamente; è proprio questo forse il fascino di Istanbul. Scendo fino al molo Eminonu, che all’ora di punta diventa un frenetico via vai di gente che corre per non perdere il traghetto: sono i pendolari che vivono dall’altra parte del Corno d’Oro o anche nella parte asiatica della città. E’ un pò come vedere la gente da noi in metropolitana, ma il fascino è tutta un’altra cosa qua. Dieci minuti di passeggiata e sono al Ponte di Galata: bello camminare su questo grande ponte a due piani, sotto i piccoli ristoranti di pesce e i caffè, sopra la strada e i due grandi marciapiedi dove posso ammirare da vicino i numerosi cittadini di Istanbul, giovani e anziani, che vengono qui a pescare con le loro lunghe canne, i venditori di simit (i tipici anelli di pane) coi loro piccoli carretti, e qualche venditore di banane e noccioline, mentre in cielo volavo i gabbiani. Ai vari attracchi del molo è un continuo traffico di imbarcazioni e traghetti; sulla sponda occidentale il profilo della città vecchia con le grandi moschee e i loro minareti, dall’altro lato il promontorio pieno di case che sembrano incastrarsi l’una sull’altra, dominate dalla tozza e antica Torre di Galata. Si fa sera, e la stanchezza si fa sempre più sentire: torno al molo, anche qui diversi chioschi con venditori di kebap e di cozze fresche, nel solito frenetico via vai di persone. Mentre regalo le ultime cose avanzatemi a delle donne che elemosinano per la strada, ad un certo punto la polizia blocca il traffico creando un notevole ingorgo e un conseguente concerto di clacson, perfino qualche agente controlla dall’alto dei ponti il tutto…Mah, io so solo che ho fame e scelgo un piccolo chiosco dove con 3,5 lire turche (meno di due euro, mentre una bottiglietta d’acqua costa solo 25 cent) mangio un ottimo panino con pesce. Ecco cos’era tutto quel bordello di qualche minuto fa: proprio nella strada adiacente a dove sto mangiando, passa, scortata da auto della polizia e perfino da body guard a piedi, un corteo di auto dai vetri oscurati, chissà chi era…

19 settembre Istanbul Ci ha pensato il richiamo del muezin alle 5 di questa mattina a svegliarmi, mentre dagli altoparlanti dei minareti diffondeva forte il richiamo alla preghiera dei fedeli. Fuori è un pò nuvoloso, si sentono già anche le sirene dei primi traghetti che attraccano al vicino molo. Ho deciso che dedicherò questa giornata alla scoperta dei luoghi storici di maggiore interesse di Istanbul. Veloce (e poco soddisfacente) colazione in hotel e mi dirigo verso Aya Sofya: non sono ancora le 9, orario di apertura al pubblico, e sono tra i primi a bazzicare davanti all’entrata della basilica. Alle 9 puntuale l’apertura, mentre intanto si è formata una bella coda di turisti, molti dei quali scesi in gruppo e con guida dai pullman turistici. Si, ahimè oggi mi toccherà “convivere” coi turisti, nonostante la mia nota allergia a questa categoria. Infatti, per alcuni di loro, già fare una normale coda per il biglietto, pare un’impresa ardua…Vabbè, mi estraneo, pago le mie 20 lire turche ed entro in quello che è considerato l’edificio storico più celebre della città. La chiesa, infatti, fatta costruire dall’imperatore Giustiniano nel 537, al suo interno mostra tutta la sua grandiosità: è impressionante, da fuori non sembra! La cupola centrale, di 30 metri di diametro, è un qualcosa che ti fa rimanere col naso all’insù per un bel pò, così come le semi cupole e gli affreschi; ci si sente piccoli piccoli, le dimensioni sono proprio grandiose, dall’alto pendono fino quasi a terra, cavi che sorreggono enormi lampadari circolari di epoca ottomana, mentre la luce è soffusa, e penetra appena dalle vetrate colorate, creando un’atmosfera calda e allo stesso tempo quella tiepida oscurità che sa di passato. Le colonne di marmo, il trono dorato, le due grandi urne di alabastro all’entrata, e i grandi medaglioni neri posti in alto ai quattro angoli con incise in oro le scritte arabe dei nomi di Allah, Maometto e i califfi Ali e Abu Bakr, fatti mettere dopo che Mehmet il conquistatore trasformò la chiesa in moschea nel 1453, anno della presa di Costantinopoli…Tutto affascinante e grandioso, non pensavo di rimanere così piacevolmente stupito dall’interno di una basilica. Il piano superiore è meno interessante, anche se la salita semi buia sul pavimento acciottolato è suggestiva. Esco soddisfatto, nel frattempo la folla di turisti aumenta e il vociare si fa fastidioso. A pochi passi da qui c’è l’ingresso della Cisterna Basilica, biglietto 10 lire turche, seconda tappa del mio giro culturale. La Cisterna Basilica è una struttura sotterranea dove nel 500 veniva raccolta l’acqua ricevuta dal Mar Nero tramite lunghi acquedotti. Il sito è particolare, sono sottoterra, al buio, su delle passerelle poste sopra ad uno specchio d’acqua, con file di colonne che sorreggono il tetto, illuminate solo alla base in modo da creare una suggestiva luce. Nell’acqua vedo le sagome di grandi carpe che nuotano, mentre dall’alto piovono grandi gocce che rendono la passerella scivolosa. Arrivo fino in fondo dove ci sono le colonne più interessanti, una con decorazioni a forma di gocce, e due con alla base una testa di medusa rovesciata. La cisterna non è grandissima, in una ventina di minuti sono già fuori. Mi rilasso un pò nei bei giardini tra Aya Sofya e la Moschea Blu, e ora sono pronto per l’ultima mia meta giornaliera, la grande Moschea Blu, altro simbolo di Istanbul, edificata tra il 1606 e il 1616, oltre mille anni dopo Aya Sofya, per volere del sultano Ahmet I. Da fuori è imponente, una grande cupola centrale e tante altre piccole che la circondano, con ai lati i 4 alti minareti. Entro dall’ampio cortile laterale, al cui interno piccoli banchi vendono testi religiosi, mi metto poi pazientemente in coda per entrare (ingresso gratuito). Lentamente arrivo, mi tolgo le scarpe che metto negli appositi sacchetti di plastica che un rullo a strappo continua ad elargire senza soste, ed entro: come per Aya Sofya il primo impatto è grandioso, anche se qui, a differenza di prima, la luminosità è totale, dovuta sia alla luce che filtra, sia soprattutto ai colori chiari degli arabeschi con cui tutto è decorato all’interno, sembra nuovo. Enormi colonne bianche in marmo sorreggono le volte su cui poggiano le cupole, anche qui dall’alto “piovono” verso il basso una miriade di cavi che sorreggono i lampadari circolari, fasce azzurre con scritte arabe in oro e tantissime finestre a volta che illuminano il grande atrio di preghiera su tappeti rossi, transennato al pubblico. Bellissima, luminosa, enorme, completamente diversa da Aya sofya dove si avverte di più il peso e il fascino della storia, però difficile scegliere la più bella da quanto sono diverse. Esco, e passeggio dal lato della moschea dove ci sono, a poca distanza l’uno dall’altro, l’ Obelisco di Teodosio, scolpito in Egitto nel 1450 a.C. E portato a Costantinopoli nel 390 d.C., poi ancora l’ Obelisco di pietra grezza e quel che resta di un’antica colonna serpentina del 478 a.C. Per oggi il mio tour culturale finisce qua, per una volta ho fatto seppure a modo mio, anche io il turista. E’ quasi pomeriggio e ancora non ho pranzato, così torno in zona hotel e mi fermo in un piccolo ristorante a mangiare qualcosa, prima di rientrare in camera per una sosta. Per poco però: mi riarmo di sana voglia di camminare e mi dirigo verso il molo Eminonu, percorro il Ponte di Galata, tra gli improvvisati pescatori, fino alla sponda opposta, al quartiere di Beyoglu. Seguo l’itinerario a piedi consigliato dalla Loonely Planet, partendo così dalla più famosa pasticceria della città, la Karakoy Gulluoglu, dove addirittura c’è la fila da fuori per entrare! Poi su, lungo una ripida salita fino ad arrivare alla Torre di Galata, costruita dai genovesi nel 1348, che coi suoi 67 metri di altezza domina dall’alto del colle immersa tra le case, il quartiere a nord del Corno d’Oro. Il quartiere in sè però è un pò deludente, qualche stretto vicolo e poi strade con architetture e negozi occidentali, nulla di particolarmente interessante, così ripercorro il Ponte di Galata in senso inverso fino a tornare al molo di attracco dei traghetti, sormontato dall’imponente Yeni Camii, la Moschea Nuova, anche se per nuova, si intende fine XVI secolo! Intanto si fa buio, torno nel cuore storico dell’antica Bisanzio, poi Costantinopoli…A Sultanameth, per qualche foto notturna: l’illuminazione di Aya Sofya è molto suggestiva, calda. Alle 19.30 puntuali, anche la Moschea Blu si illumina, e tramite dei fili collegati tra i due minareti frontali, appare la scritta come se fosse sospesa in cielo ” Lailahe Illallah”, e la voce del muezin comincia a riecheggiare nella città. Passeggio tra i giardini di piazza Sultanameth, pieni di famiglie locali che improvvisano pic nic notturni anche attorno alla grande fontana centrale, anch’essa illuminata. All’improvviso il fuggi fuggi generale: si abbatte un improvviso temporale, proprio mentre cerco di fotografare il profilo illuminato di Aya Sofya. Mi riparo, stretto fra altra gente, sotto una cabina telefonica, e come per magia si materializzano subito i venditori di ombrelli. Dura poco per fortuna, giusto il tempo di rovinare la cena dei tanti turisti che affollavano i tavoli all’aperto. Riprendo a passeggiare nei pressi della moschea, in un attimo i chioschi di kebap, di gelati, di venditori di pannocchie abbrustolite e castagne, sono di nuovo presi d’assalto: ceno e me ne torno verso l’Esen Night Club (ormai l’ho ribattezzato così!) lungo la via piena di ristoranti, alcuni dei quali con musica di suonatori turchi dal vivo, altri coi cuscini e i tappeti fuori dove turisti fumano i narghilè, tutti con intraprendenti camerieri che in ogni modo cercano di portare nei loro locali i passanti, in maniera garbata e simpatica, menù alla mano, e guarda caso nel dubbio, il loro primo approccio è quasi sempre un “hola, buenas tarde”.

20 settembre Istanbul – Anadolu Kavagi – Istanbul E’ domenica mattina, sono da poco passate le 9 e qui al molo Eminonu si nota l’assenza del frenetico via vai dei pendolari. Faccio il biglietto di andata e ritorno (20 lire turche) per il traghetto che attraversa tutto il Bosforo fino al suo sfociare nel Mare Nero, alla cittadina di Anadolu Kavagi. Per fortuna che sono arrivato così preso, il traghetto parte alle 10.35, ma già alle 9.45 si forma una disordinata coda di turisti in attesa dell’imbarco. Il cielo è in parte nuvoloso, ma quando il sole si fa largo è davvero uno spettacolo, con le nuvole bianche all’orizzonte e tantissimi gabbiani che si gettano a pelo d’acqua per pescare e poi risalire in volo. Sul vicino Ponte di Galata già i primi pescatori hanno gettato i loro ami nelle acque sottostanti. Si sale, alle 10 il traghetto a due piani è già pieno: la maggiorparte della gente fa a gara per occupare i posti sul ponte, io invece preferisco le panche laterali più a bordo acqua, l’ideale per fotografare, in fondo all’imbarcazione. Si salpa, gente addirittura rimane in piedi, siamo ben oltre la capienza dei posti a bordo. Tira un bel vento durante la navigazione e ogni tanto arriva anche qualche spruzzo d’acqua. Sto viaggiando lungo il Bosforo, da una parte l’Europa, dall’altra l’Asia…La prima breve fermata è al quartiere Besiktas, sponda europea, e sale altra gente. Navigando, mi rendo conto di quanto estesa sia Istanbul, le cui case, tutte più che dignitose, si arrampicano sui promontori a ridosso del mare. Si passa sotto enormi e moderni ponti che collegano le due sponde, quindi i due continenti; sul versante europeo passiamo davanti al bianco neoclassico Palazzo Ciragon, poi promontori completamente ricoperti di vegetazione dalla quale spunta l’onnipresente bandiera turca. Dopo un paio di ore scarse e 6 fermate, il traghetto attracca al piccolo molo di Anadolu Kavagi: si tratta di un minuscolo villaggio, qualche imbarcazione da pesca, graziose casette colorate che si affacciano sul molo di legno scuro, e un numero consistente di ristoranti, coi camerieri che appena attracca il traghetto, fanno a gara, menu alla mano, per attirare a gran voce i turisti appena sbarcati. Aggiro la folla affamata e mi dirigo subito verso la cima della collina per ammirare il panorama dall’alto. La salita è ripidissima, faticosa…C’è un simpatico negozietto di pinocchi e altre bambole in legno, qualche altro piccolo ristorante panoramico, e finalmente, dopo 20 minuti e con la lingua a penzoloni, arrivo alla cima dove ci sono i resti di un antico castello medioevale. Da qui il panorama è fantastico! Ammiro dall’alto la parte terminale del Bosforo che sfocia nel Mare Nero, le acque di un blu intenso che sembra appena mossa da un leggero vento, con lente navi merci che si dirigono verso nord, e la bandiera rossa con la stella e la mezza luna bianche che sventola dal promontorio. Da una parte l’Europa, dall’altra, dove sono adesso, l’Asia. Sto qualche minuto quassù a godermi lo spettacolo, poi, alla spicciolata, comincia, arrancando, a salire un pò di gente, così me ne scendo verso il molo e mangio, ora che la ressa è finita, in uno dei ristoranti, mentre i gatti girano tra i tavolini all’aperto. Il traghetto riparte alle 15, comincia a formarsi la coda per i posti migliori, mi ci infilo anche io dopo essermi concesso un buon gelato turco, cremoso, da provare, molto diverso dal nostro. Si sale, mentre un gruppo di gabbiani prende d’assalto uno dei pescherecci ormeggiati. Come all’andata, tutti su, e io comodamente giù sulla panca che si riempie per ultima. Il traghetto parte puntuale e ricomincia a percorre il Bosforo a ritroso. Per un tratto di navigazione siamo affiancati ad una enorme nave merci, mai vista così lunga, sarà più di 400 metri, probabilmente trasporta gas dal Mare Nero a giudicare dai lunghi tubi, e batte bandiera di Singapore, chissà quanto ci metterà a tornare in patria. Intanto il personale di bordo passa a vendere thè, caffè e yougurt. Il cielo si fa sempre più minaccioso, ripassiamo sotto i grandi ponti di collegamento fra i due continenti, e proprio poco prima di arrivare al molo Eminonu, comincia a piovere forte. Scendo in fretta dal traghetto, nel fuggi fuggi generale; mi butto giù per le scale di un sottopasso pedonale, pessima scelta: c’è un mare di gente, sembra l’uscita da San Siro dopo un derby, con i venditori dei negozi di abbigliamento che urlano per attirare i clienti, aiuto! Trascinato dalla corrente umana e con mano ben stretta sul marsupio, esco in superficie, nonostante i tuoni la pioggia sta calando di intensità, e riesco a tornarmene in hotel. Si è fatta sera, ha smesso di piovere, ora l’aria è fresca. Scendo di nuovo giù verso il molo per vederlo in versione notturna e, sorpresa: i suoi marciapiedi si sono trasformati in un suk all’aperto! Piccoli carretti improvvisati che vendono kebap di pesce, ai loro lati dei tavolini che noi useremmo negli asili (saranno alti 15 cm!) e sgabelli in miniatura. Poi un’infinità di venditori che che sui loro teli di plastica espongono di tutto: jeans e magliette contraffatte, giocattoli, copri cuscini in pelle, perfino cellulari e orologi. Non mancano ovviamente anche venditori di pannocchie e castagne, tutto attorno è un gran vociare come in un mercato. Incredibile l’arte del commercio dei turchi. Caotico ma bello, con le luci della città che danno qual tocco in più, il Ponte e la Torre di Galata illuminati così come la Moschea Nuova. Ormai ho imparato ad attraversare la strada alla turca, i semafori sono qui solo un abbellimento coreografico, e occorrono sempre mille occhi. Cena veloce all’aperto, e ora qua, nella mia piccola camera, mentre sotto un gruppo di inglesi fa baldoria in un pub. Accendo la tv e copro le voci guardandomi un programma di giovani promesse canore locali, più o meno il loro zecchino d’oro. Fuori ricomincia a piovere, tempo infame in questo viaggio…

21 settembre Istanbul Anche oggi nuvoloso, e anche oggi sono il primo ad essere sceso giù per la colazione a buffet dell ‘Esen Hotel. Esco presto per arrivare tra i primi all’ingresso del Palazzo Topkapi. Arrivo, il grande portone ancora chiuso, è presidiato da due giovani militari. Da fuori già si può ammirare il grande arco di marmo, con le scritte dorate in caratteri arabi su sfondo nero, e a lato le antiche mura in pietra. Arrivano le 9, il portone viene aperto, una breve passeggiata nel parco tra querce secolari e arrivo alla biglietteria, pago 20 lire turche ed entro in quella che è denominata la seconda Corte, mentre alle mie spalle cominciano ad arrivare folti gruppi di turisti. Decido di entrare per prima nell’ Harem del Palazzo, che ha una biglietteria a parte, davanti al suo ingresso (15 lire turche). Il Palazzo Topkapi è enorme, non consiste in una unica struttura, ma in tanti edifici separati tra loro da giardini o piccole vie, costruiti tutti in epoche diverse. L’ edificazione del Palazzo fu voluta da Memeth in Conquistatore nel 1453, subito dopo la presa dell’allora Costantinopoli. L’ Harem era il luogo dove viveva la famiglia imperiale e le concubine, governate dalla madre del sultano regnante, tutte straniere per via del divieto islamico di ridurre in schiavitù dei musulmani. Le ragazze dell’ Harem venivano educate alla musica, alla danza, alla lingua e alla cultura turca. Loonely Planet in una mano, macchina fotografica al collo, comincio a perlustrare i vari ambienti dell’ Harem: le pareti e i soffitti sono semplicemente sontuosi, rivestiti di piastrelle e di maioliche finemente lavorate, dai colori chiari, che vanno dal bianco, al rosa, al turchese. Fontane in marmo bianco con rivestimenti dorati, enormi stanze con vetrate a volta, grandi cupole come soffitti dai quali scendono grandi lampadari, letti a baldacchino, divani…Tutto bellissimo, soprattutto le pareti con le incisioni in arabo e le bellissime piastrelle. Curioso tra le tante stanze e i lunghi corridoi per arrivarci, scattando foto a ripetizione. Passo dalla sala dei ricevimenti a quella da bagno della madre del sultano, con vasca e fontane, fino ad arrivare al corridoio delle concubine, le quali dovevano nascondersi (non era permesso loro di guardare e farsi vedere dal sultano senza prima il suo permesso) al passaggio del sultano stesso, facilmente intuibile dai passi fatti con pantofole rivestite da suole di argento. L’ Harem era anche il luogo del divertimento e della perdizione per i sultani, uno di questi, Murat III, ebbe ben 112 figli! Proprio bello e perfettamente conservato! Esco, comincia a piovere forte, così attendo un pò che smetta, seduto su una panchina al riparo dall’acqua. Leggo la guida, le mille storie successe in questo Palazzo nei suoi 500 anni di storia. La pioggia concede una tregua, così mi incammino in uno dei cortili per rientrare dalla Porta della seconda Core, detta della Felicità, e da qui nella sala delle udienze del sultano, anch’essa finemente decorata anche all’esterno. La folla è decisamente aumentata, la mia “insofferenza” aumenta soprattutto nei confronti di quei “gruppi vacanza” con guida, chissà perchè sempre italiani, che brillano in scarsa educazione e rispetto dei luoghi; vabbè, per fortuna gli ambienti sono tanti così posso optare di volta in volta per quelli meno affollati. Visito la biblioteca, con il suo enorme camino in rame, poi i vari chioschi dei pascià, il Padiglione di Baghdad, la sala delle circoncisioni, quella del capo medico, tutti con i soffitti a cupola altissimi. Poi ancora i giardini privati, con le belle fontane in marmo, il baldacchino di Iftaryie dal piccolo tetto dorato, dal quale si ammira un bel panorama del Corno d’Oro. Lascio per ultime le stanze coi cimeli, spade e mantelli, e quella dei ritratti dei sultani, decisamente stile museo, meno interessanti e per di più affollatissime. Ho fatto bene a visitare per prima l’ Harem, la parte più bella, quando ancora non c’era questa folla e si poteva addirittura girare nelle stanze; uscendo sono ancora più contento vedendo dalla biglietteria una lunga fila che arriva quasi al portone della prima Corte, oltre 300 metri in là, dove qualche ora fa ero tra i primi ad aspettare l’entrata. Ora ci vorranno almeno un paio d’ore solo per arrivare a fare il biglietto! Turisti a parte, molto bello, suggestivo, immenso (più grande di Versailles), soprattutto l’ Harem, la parte che più mi è piaciuta. E c’è da considerare anche l’adiacente (al di là delle mura) Gulhane Parki, un tempo parco del Palzzo Topkapi, nel quale ho trascorso il primo giorno di questo viaggio quasi un mese fa, immenso e ben tenuto, pieno di alberi. Uscendo assisto ad una scena bizzarra: dei piccoli gatti appollaiati, placidi, in mezzo ad un gruppo di grossi corvi! Ripasso davanti ad Aya Sofya (dista un centinaio di metri) e mi dirigo lungo una delle tante strade che salgono in direzione del Gran Bazar. Ma stranamente è chiuso, non me lo aspettavo, la Loonely non parla di giorni di chiusura. Le stradine che due giorni fa erano un inferno sono desolatamente vuote; le percorro a casaccio, e senza farlo apposta mi ritrovo proprio in un altro Bazar, quello delle spezie, decisamente più piccolo ma pieno di gente. Scatto foto tra i banchi che, oltre alle spezie, vendono anche dolci e formaggi. Il Bazar finisce nell’ampia piazza di fronte alla Yeni Camii, la Moschea Nuova. Sia la piazza che le mura della Moschea sono invase dai piccioni e dai locali che si fanno fotografare sulla scalinata. Da fuori la Moschea assomiglia alla Moschea Blu, anche se meno imponente. Entro, non ci sono code nè turisti, anche l’interno è simile, per terra grandi tappeti, in alto l’enorme cupola sorretta dalle grandi colonne di marmo, e colma, come le semi cupole, di splendide e luminose decorazioni. Nella parte centrale alcuni fedeli stanno pregando, è valsa la pena entrare. Esco, mi rimetto le scarpe e mi incammino verso l’hotel per trovare un posto dove mangiare, approfittando anche del fatto che ha smesso di piovere. Mangio, poi una sorpresa che proprio non mi aspettavo: svolto l’angolo per immettermi in Hudovendigar Caddesi, la strada in salita che porta a Sultanameth, e sono di nuovo in un mare di gente, ma stavolta non turisti, ma turchi! Intere famiglie e giovani di ogni età che passeggiano in entrambe le direzioni! Oggi è la fine del Ramadan, il periodo di digiuno dei musulmani, ecco perchè era chiuso anche il Gran Bazar. Sono tantissimi, fa impressione vedere la strada che fino a stamattina era percorsa quasi solo da turisti, completamente presa d’assalto dai locali. Scendo verso il molo di Eminonu, qui il flusso di gente fa ancora più impressione, i chioschi dei kebap e delle pannocchie abbrustolite fanno affari d’oro, si nota un pò in tutti una comprensibile euforia, come se tutti stessero festeggiando qualcosa. Mi fermo sul Ponte di Galata ad osservare questo singolare spaccato di vita, ai pochi passi dai profili delle sempre presenti canne da pesca, mentre nella parte sotto del ponte i cuochi dei ristoranti cucinano il pesce su grandi bracieri. E’ un bel momento, si sentono mille voci accavallate, il verso dei gabbiani e ogni tanto qualche sirena dei traghetti. Penso a quanti estremi ho vissuto in questo viaggio, dall’essere l’unico straniero in molti luoghi del Kyrgyzstan, alle code in mezzo a chissà quante nazionalità qui ad Istanbul, ai silenzi assoluti del Song Kol, al vociare di questo sciame di gente che festeggia la fine del Ramadan. I paradossi del viaggiatore. Certo che ultimamente, senza farlo apposta, mi ritrovo sempre in luoghi sacri dell’ Islam in queste circostanze: l’anno scorso ero al Taj Mahal, quest’anno a Sultanameth, l’anno prossimo sarò a La Mecca? Mah! E’ l’ultima sera, questo lungo ed emozionante viaggio sta per terminare; per una volta anche il cielo sembra voler concedere una tregua, illuminando il molo con la calda luce del sole che lentamente tramonta all’orizzonte. Attraverso il ponte rialzato che mi porta al di là della strada, e mi incammino ancora una volta verso Sultanameth, per vedere Aya Sofya illuminata. Ricomincia a piovere ad intermittenza, piove e smette almeno tre volte nel giro di mezz’ora, ora finalmente sembra smettere. Ultimi piccoli acquisti nei negozi lungo la strada, e ora con un pò di tristezza per un qualcosa di bello che sta finendo, l’ultimo kebap dall’alto di una terrazza, guardando il via vai delle persone e dei tram sottostanti, con a fianco a me una grande pecora di peluche. Buonanotte Istanbul.

22 settembre Istanbul Anche stanotte temporale, ora per fortuna, nonostante i minacciosi nuvoloni, sembra che il tempo regga. Scendo per l’ultima colazione, poi doccia e con mezz’ora di anticipo sul chek out previsto per le 10, lascio la piccola stanza dell’Esen Hotel, “parcheggiando” il pesante bagaglio nella hall. Mi dirigo per l’ultima volta, nel cuore dell’antica Bisanzio, vagando lentamente tra piazza Aya Sofya, i giardini di Sultanameth e la Moschea Blu; ci sono già le code di turisti in fila per entrare, alcuni ambulanti cercano di vendere loro le guide della città tradotte in tutte le lingue. In pratica non ho più nulla di specifico da fare, se non godermi le ultime ore di queste meraviglie. Foto di rito al puffo viaggiatore, mio fedele compagno anche stavolta, poi di nuovo giù in direzione molo. Sono di nuovo qui, in uno dei luoghi fulcro di questa meravigliosa città, al molo di Eminonu, il posto dove meglio si entra in contatto con la vita quotidiana della popolazione locale. Osservo i pescatori, i giovani che chiaccherano e quelli che corrono per prendere i traghetti in partenza, i venditori di kebap col loro gigantesco rullo di carne sempre in caldo, e i numerosi carretti di pannocchie e simit. Ancora poco e mi tocca ritornare in hotel, alle 13 passerà il mini shuttle per l’aereoporto (4 euro). Pranzo in un chiosco vicino al molo, panino con pesce, consumando le ultime lire turche, me ne resta giusto 1 per il carrello in aereoporto. Esce anche il sole nel frattempo: sulla poltrona della hall del piccolo hotel Esen sistemo al meglio le ultime cose nello zaino, faccio il cambio scarpe, mentre i due ragazzi dell’hotel, quasi per passare il tempo, passano l’aspirapolvere. Alle 13 puntuale ecco il furgone, con altri 4 turisti su a bordo: salgo e via verso l’aereoporto Attaturk. Sono atterrato cinque giorni fa con una splendida alba, e anche oggi, dopo tanta pioggia, Istanbul mi saluta con un bel sole che riflette sul mare che costeggio, dall’altra parte della strada le antiche mura della città, poi il faro e ancora i giardini ben tenuti con la gente che fa jogging. In 30 minuti sono all’aereoporto, aspetto l’ennesimo chek in, poi l’ennesimo decollo (ormai ho perso il conto), ma stavolta è uno di quei voli un pò tristi, di quelli che segnano la fine del viaggio, di una esperienza di vita. Si, perchè un viaggio è anche questo. Sono stato bene questi giorni ad Istanbul, città affascinante ed ospitale, ricca di luoghi da vedere, una breve vacanza che ci voleva dopo le fatiche del viaggio vero, quello nelle terre kyrgyze, le terre dell’antica Via della Seta. Ripenso a tutte le avventure e disavventure di queste settimane, alle fatiche, agli incontri, alle emozioni…Come tradizione ormai, scrivo le ultime righe di questo iario in volo, sotto di me un “mare” stupendo di nuvole bianche, sembra l’ Antartide…Mi vengono in mente i cavalli bradi che corrono mentre il sole tramonta al Song Kol, mi viene in mente il canto di ringraziamento nella yurta della piccola Nasmy, e mi sale un pò di magone…



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