La Gerusalemme d’Oriente è la città sacra dove scorre il ‘fiume dei rituali’

Varanasi è la città più sacra dell'induismo, luogo che consente a chi vi muore di porre fine al samsara e raggiungere il Nirvana. La devozione dei fedeli si esprime in un turbinio di rumori e traffico, dando vita a interrogativi destinati spesso a rimanere senza risposta
Scritto da: Viviaggia
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Varanasi è l’India dei documentari, quella delle persone che si immergono nel Gange per compiere rituali sacri nonostante si tratti di uno dei fiumi più inquinati del mondo. Io stessa avevo pressoché solo questa come immagine dell’India fino a qualche tempo fa, avendola vista e rivista tante volte in televisione.

Una città come Varanasi, però, non si può certo descrivere con quest’immagine e forse non può che essere visitata perché se ne abbia una vaga idea.

Varanasi è una delle città più sacre dell’Induismo, meta di pellegrinaggio per milioni di indiani e luogo prescelto da molti per attendervi la morte: morire qui significa infatti porre fine al ciclo di rinascita e morte (samsara) e raggiungere la pace eterna. E questo mi ha portata a una prima riflessione: avere delle vite di riserva, sapere che dopo la morte ci sarà una nuova vita terrena, non solo non consola, ma è addirittura qualcosa da cui si vuole scappare. Tutti cercano non una nuova possibilità in un’altra vita, ma la pace eterna, indipendentemente dal credo e dalla strada per raggiungerla. Nessuno è disposto a parlare delle sue vite passate e di eventuali segni di ciò che si è stati.

Una città sacra, attraversata da un fiume altrettanto sacro, con i santoni (veri e presunti) a meditare e gli anziani ad attendere la fine, ce la si immagina come un luogo silenzioso e di pace. O almeno io me la immaginavo un po’ così, come Koyasan in Giappone.

Varanasi invece ti travolge, con il suo turbinio di clacson, persone, animali, polvere, sporcizia, confusione, rumori, odori. Attraversare la strada a Varanasi è un buon modo per accelerare la fine di questa vita, tanto intricata è la rete di esseri animati e non che si scagliano contro i pedoni evitandoli all’ultimo soffio.

La strada verso il Ghat principale è chiusa al traffico veicolare, ma biciclette, persone, bancarelle, cani, scimmie, famiglie allargate, sciami di religiosi, cose da mangiare sono talmente concentrati che il solo sollievo è dato dall’assenza dei clacson.

A Varanasi il caldo era soffocante, l’afa imponente e la nostra capacità di adattamento al caos indiano ha fortemente vacillato.

Eppure, Varanasi da sola vale il viaggio.

Da quando ci sono stata, non ho mai smesso di farmi domande senza trovare alcuna risposta.

La città si trova sulla riva sinistra del Gange, tra la foce fiume Varuna a nord e quella del fiume Assi a sud, da cui il nome Varanasi.

Per gli induisti il territorio che si estende tra questi due fiumi è il luogo più sacro che ci sia sulla terra.

Le antiche scritture la proclamano città eterna, la dimora del dio Shiva della quale ne sarebbe reincarnazione e anche quando il mondo cadrà e diventerà il Nulla, rimarrà dimora del dio Shiva dal quale nascerà un nuovo mondo.

Da tempi immemori, prima ancora della nascita di Roma, è un centro intellettuale.

Oggi la vediamo stesa lungo i sei km della riva sinistra del Gange, con i grandi palazzi, templi, le cupole, i ghat che scendono alle acque del fiume con uno stuolo continuo di fedeli che vengono per le abluzioni.

Per il nostro viaggio a Varanasi, abbiamo preso un tuk tuk che ci ha portati al Ghat Assi, quasi deserto di pomeriggio (vi si svolge la cerimonia dell’alba) e poi abbiamo prenotato una guida per fare il giro dei Ghat in barca e assistere alla cerimonia Aarti che si celebra al tramonto.

il tour è durato circa 3 ore ma è stato il più intenso di tutto il viaggio.

Partiamo dalla cerimonia funebre, che qui si svolge davanti agli occhi di tutti (o almeno di chi, come me, è curioso di sapere e capire), al Ghat Harischandra. Da una parte ci sono i parenti e gli amici che danno l’ultimo saluto al caro estinto e non sono consolati dall’idea che abbia finalmente raggiunto il Nirvana. Dall’altra parte ci siamo io e tutti gli altri irrispettosi spettatori che guardano la scena da una barca per simulare un minimo di rispettosa discrezione.

La vista di un cadavere normalmente mi crea una serie di sensazioni negative e di pensieri tristi, ma qui è diverso: la scena si svolge davanti a me ma sembra distante, come se fossi davanti all’ennesimo documentario. Eppure, la sensazione che non dovrei essere lì a fare foto mi conferma che è una scena che dovrebbe restare privata. Probabilmente i parenti la vivono in questo modo: in India non esiste solitudine e se anche l’estremo saluto ai propri cari è un fenomeno collettivo, non ci si può certo aspettare che non ci siano sguardi indiscreti.

Il cadavere viene bagnato con l’acqua del fiume sacro e poi lo si offre a un fuoco acceso usando legna che si trova accatastata ai margini del Ghat. Le caste superiori bruciano con legno di sandalo, quelle inferiori con legno comune. La riservatezza del corpo è garantita da un telo arancione adorno di fiori veri, fino al momento in cui non inizia la cremazione. Tutto questo davanti a me che guardo con interesse da studente al primo anno e che cerco di capire se in qualche modo questa cura del congiunto possa consolare chi la esegue. Le donne non sono ammesse: potrebbero piangere, lanciarsi nel fuoco, provare a interrompere la procedura di purificazione dell’anima che raggiunge il Nirvana. Le donne sono considerate più emotive, come se il dolore potesse avere un sesso.

Al termine, le ceneri sono sparse nel Gange, quello stesso Gange in cui qualche metro più in là fedeli compiono riti di purificazione e bambini giocano in acqua come fossero al mare.

Questa convivenza di vita e morte, di dolore e allegria, di sacralità e profanità, mi prende a schiaffi: non riesco a comprendere la serenità con cui la mia guida ritiene che tutto sia non solo normale, ma addirittura indiscutibile e immodificabile.

Finito il giro in barca, la guida ci posiziona su un marciapiede lurido che puzza di fogna, soddisfattissimo per averci trovato un posto libero da cui assistere alla cerimonia Aarti al Ghat Desaswamedh. La mia capacità di adattamento si consola all’idea di un bucato (che in realtà non riusciremo a fare) e di una mentina che metto sotto il naso per mimetizzare l’odore.

Al tramonto, cinque monaci vestiti in arancione, posizionati su altrettanti altari arancioni, con il volto al Gange e alla miriade di fedeli che sono sulle barche, iniziano a cantare. Dietro, migliaia di persone assistono alla scena come fossero a un concerto in uno stadio. Seguono suoni di campanelli, incensi, conchiglie usate come strumento musicale, ancora campanelli, battiti di mani e canti dei fedeli: le divinità sono chiamate a proteggere i fedeli e con questa cerimonia ci si garantisce la protezione richiesta.

La cerimonia è straordinaria: la spiritualità collettiva di canto e musica è travolgente e, nonostante la puzza e l’afa, trasporta in un mondo parallelo. L’induismo è una religione incredibile, con il numero straordinario di divinità, il volto sereno degli dèi principali, il canto, la meditazione, la capacità di isolamento dell’individuo in mezzo a migliaia di persone.

Varanasi è popolata da santoni veri e finti, da gente che si veste per spillare qualche rupia in cambio di una foto e da fedeli che vivono intimamente il credo. Per me, la cosa più incredibile è andare lì ad aspettare la morte per porre fine al ciclo di reincarnazioni, aspettandola a volte per anni vivendo nella miseria. Vale davvero la pena di vivere in modo così brutto la propria ultima vita terrena? Questo è uno dei tanti interrogativi a cui non riesco a dare una risposta.

Finita la cerimonia, scappiamo dalla folla e ci rifugiamo in hotel. Mangiamo nella cosa più simile a un ristorante vista finora: uno street food con 5 tavolini che ha addirittura tovaglioli e posate (qui una vera rarità). Nessuno nella zona ha birre o alcolici e la sola chicca è una bottiglia blu di coca cola da 25 ml (mai vista altrove).

Stremati dal caldo e dalle troppe emozioni del giorno, ci corichiamo nel nostro letto. I rumori incessanti del clacson arrivano fino al terzo piano, ma i tappi (provvidenziali) e la stanchezza estrema ci garantiscono il riposo dei giusti.

Per tutta la notte, come nei giorni a venire, continuerò a farmi domande sullo straordinario spettacolo di ritualità e sacralità cui ho assistito a Varanasi. Ancora oggi penso che il segreto dell’India, il giusto bilanciamento delle sue infinite contraddizioni, il fascino di questa civiltà sia racchiuso tutto lì, nella vita (e nella morte) che si svolgono sulle rive del Gange.

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