La civiltà Khmer
Per me la Cambogia ha rappresentato l’apice emotivo del viaggio: davanti alla rilassata e sorridente popolazione, la prodigiosa natura tropicale è parsa quasi un bilanciamento naturale, il giusto sipario per raccontare una terra tormentata e meravigliosa. L’area archeologica di Angkor è di bellezza stordente: accanto agli incredibili templi costruiti dall’uomo gli archeologi, intelligentemente, hanno lasciato una parte delle costruzioni della cultura khmer cosi’ come li hanno trovati, abbracciati e soffocati dalla giungla . L’opera dell’uomo a confronto con quella della natura, che alla fine riesce a prevalere. Quasi un monito lasciato a noi contemporanei. La vista dall’alto del complesso archeologico grazie al in giro con la mongolfiera è di fascino assoluto: si comprende la vastità dell’area e la suggestione della natura. Mentre visitavo Angkor Vat nella mente prepotentemente mi risuonava l’omonimo tema ad opera di Michael Galasso, parte della colonna sonora di quel meraviglioso ed amaro film che è In the mood for love. E tali erano i sentimenti che mi pervadevano durante il percorso: stupore, malinconia, ammirazione. Nell’aria l’urlo lancinante delle cicale e variegati richiami di uccelli. Potessi tornare, tornerei ad Angkor Wat, possibilmente all’alba per evitare le orde di turisti giapponesi assatanati di fotografie ricordo. L’incontro, rimandato dalle visite ai complessi archeologici, infine avviene: Pol Pot è un nome che ancora incute timore e la nostra guida riesce a parlarne in toni quasi neutri, perfino davanti ad una enorme teca che, all’esterno di un tempio buddista, raccoglie ossa e teschi, vestigia della follia umana. Solo alla fine, visibilmente provato, il ragazzo che parla uno stentato italiano imparato con ferrea volontà in un corso serale si lascia andare per un momento e ci domanda : “dove erano i paesi occidentali allora ?” Domanda che cade nel vuoto di un silenzio imbarazzato.