La Cina classica

Viaggione fai da te tra le meraviglie di Pechino, Datong, Xi’an e Shanghai
la cina classica
Partenza il: 14/10/2017
Ritorno il: 29/10/2017
Viaggiatori: 4
Spesa: 3000 €
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15 OTTOBRE: ARRIVO A PECHINO

Abbiamo viaggiato con Lufthansa da Milano a Francoforte e da lì a Pechino. Non ricordo perché io e Silvana al momento della prenotazione abbiamo scartato l’idea di volare diretti con Air China ma se dovessi tornare in Cina sicuramente la sceglierei. Ad ogni modo il viaggio è stato senza imprevisti ed è atterrato in orario.

Con la metropolitana in meno di un’ora arriviamo alla fermata del nostro albergo. La metropolitana cinese è efficientissima, non si aspetta mai più di un paio di minuti tra un vagone e l’altro, le scritte sono tradotte in inglese ed il sistema è molto logico, veramente facile. Siamo stupiti dalla quantità di polizia e dai controlli di sicurezza. All’entrata-uscita di ogni fermata sono piantati due poliziotti col fucile a tracolla, giovanissimi e impettiti, prima dell’accesso ai treni bisogna far passare borse e bagagli attraverso un metal detector, poi ti fanno passare sotto un altro metal detector e ti passano addosso un altro rilevatore, e infine ci sono addetti alla sicurezza lungo le pensiline e in piedi sopra un basamento rialzato di mezzo metro per poter controllare dall’alto.

All’uscita della metro siamo totalmente spaesati, non sappiamo in che direzione andare perché la pianta che ho fotografato sul cellulare non corrisponde affatto al luogo in cui ci troviamo. Cominciamo a chiedere in giro mostrando il nome dell’hotel stampato in cinese (fondamentale): le persone che si incontrano per strada non parlano quasi mai inglese ma sono molto gentili e cercano di aiutarci. Una signora ci indica la direzione e parlando a fiume in cinese continua a fare un gesto alzando le braccia come per indicare un tetto. Nei 300 metri che separano la fermata dall’hotel cominciamo ad aver un assaggio del traffico a Pechino. Fiumane di biciclette in bike sharing di quelle che adesso sono arrivate anche a Milano (Ofo e Mobike), in pista o parcheggiate, e tanti motorini con copertine e coprimani ricavate da trapunte colorate. I motorini ci sfrecciano accanto, anche sul marciapiedi, silenziosissimi (e perciò pericolosissimi) perché sono tutti elettrici! E quasi nessuno porta il casco. Tanti SUV e belle auto, di solito con i vetri oscurati cosicché non si vede la faccia del conducente, non sappiamo il perché. Tante macchinine strane, elettriche, che sembrano scatole colorate. E il modo di guidare è incredibilmente scorretto, auto e persino autobus che passano col rosso, moto in contromano, la precedenza ai pedoni sulle strisce è un concetto assolutamente stravagante, anzi ti suonano per farti da parte, tuttavia con la più perfetta calma e indifferenza da parte sia di chi ha ragione sia di chi ha torto. Insomma, attraversare un incrocio col verde è una vera impresa. Le strade sono molto pulite, non si vedono cicche per terra e neanche gente che fuma, e nemmeno che sputacchia, perché da qualche anno il governo ha emanato un editto contro lo scatarramento. E sui muri non ci sono scritte, scarabocchi o graffiti. Non ci sembra ci sia l’inquinamento tanto paventato, ma probabilmente ottobre è un mese buono, non fa caldo e non sono ancora accesi i riscaldamenti, poi il ricorso alle moto elettriche avrà sicuramente migliorato la situazione vista la quantità in circolazione. Inoltre ci sono toilette pubbliche quasi dappertutto, molto pulite e moderne, di solito senza carta igienica ma di questo ero già stata informata.

Alla fine imbocchiamo la via del nostro hotel e lì capiamo perché la signora si sbracciava: siamo in un hutong, cioè in uno dei quartieri vecchi (non antichi), l’entrata dei quali è segnalata da un architrave dipinto di rosso, come l’ingresso nelle Chinatown negli Stati Uniti. Strada stretta, case fatiscenti, piccoli negozietti con attività non sempre comprensibili, cavi elettrici come liane nella giungla. Il nostro hotel, il Michael’s House, è ricavato da una casa tradizionale, in pietra grigia, con una corte interna che è stata coperta di vetro e funge da hall dove affacciano tutte le camera, come un chiostro. Ci sono molte piante e mobili tradizionali cinesi, la camera è grande e il letto grandissimo. Da qualche tempo in Cina non è più possibile usare Whatsapp e Google, sia come motore di ricerca che come posta, per fortuna mi aveva avvisato la pedicure cinese vicino a casa. Per sostituire Whasapp c’è WeChat, una app cinese che ha insieme le funzioni di Whatsapp e Facebook, e anche di carta di credito perché legge i QR Code e paga automaticamente.

Così possiamo mandare messaggi e telefonare anche in videochiamata in Italia ai contatti stretti a cui ho fatto scaricare Wechat, e le mie pazienti finalmente non possono raggiungermi né con la mail né con Whatsapp. Il signore alla reception (forse Michael) parla bene inglese, ci mettiamo d’accordo per la gita di domani alla Grande Muraglia.

Ci fermiamo a mangiare in una specie di fast food cinese, dove prendiamo dei ravioli a palla con tanta pasta poco cotta e pochissimo ripieno. Delusione!

Piazza Tienanmen è tutta transennata, per andare al Museo Nazionale Cinese si segue un percorso obbligato, bisogna passare attraverso altri metal detector e mostrare un documento valido. In Cina bisogna sempre girare con il passaporto, non basta una fotocopia. Il Museo è sul lato est della vastissima piazza, da lontano vediamo la stele del monumento degli eroi, la Grande Casa del Popolo e un pacchianissimo enorme vaso color terracotta con fiori finti piazzato lì dal I Ottobre, festa della Repubblica Popolare Cinese istituita nel 1949. In questi giorni nella Grande Casa del Popolo c’è il Congresso del partito per la nomina del presidente (Xi Jinping, già lo si sa), probabilmente per questo motivo la piazza è chiusa e le eccezionali misure di sicurezza sono accentuate dall’avvenimento.

Il Museo Nazionale Cinese è imponente ma siamo troppo stanchi, ci trasciniamo come automi da una sala all’altra. Mi ricordo veramente bene solo dell’abito funerario di tessere di giada fabbricato nel II secolo a.C. per un re di uno stato feudale, scoperto nella sua grandiosa tomba scavata nella roccia a 200 chilometri da Pechino. L’abito è costruito con più di 1400 tessere quadrate di giada con dei fori ai quattro angoli per essere legate insieme da filo d’oro. Dura da 45 secoli la fascinazione dei cinesi per la giada, che non è la serpentina lavorata oggi né la giadeite importata dalla Birmania dal XVIII secolo. La vera giada, yu, è una pietra con un coefficiente di durezza molto più alto, la nefrite, il cui colore, allo stato puro bianco, varia a seconda delle scorie di altri minerali in essa presenti. La nefrite veniva importata da territori 3000 chilometri a ovest della Cina classica, quindi la difficoltà nel suo reperimento e la difficoltà della lavorazione la rendevano la vera pietra dei re, carica di qualità magiche e simboliche.

Nel nostro hutong c’è un negozietto di pochi metri quadrati dove una donna minuta frigge gli spiedini, ma preferiamo rifornirci di frutta nel pittoresco negozietto più avanti. Per stasera la nostra cena è questa.

16 OTTOBRE: GRANDE MURAGLIA

Alle 7 ci vengono a prendere all’hotel per andare alla grande muraglia. Abbiamo dormito quasi 12 ore, penso che abbiamo già superato il fuso orario. Impieghiamo un paio d’ore a caricare gente dai vari alberghi, e nel frattempo l’autista si becca anche una multa per essersi fermato in una via in cui non poteva. Infine ci trasbordano tutti su un bus più grande dove già ci sono altri turisti e si parte verso il nord est. Ci fa da guida un ragazzo cinese che parla un inglese talmente accentato che si fa fatica a capire quando passa da una all’altra lingua. La città è molto verde e l’autostrada circondata da alti filari di pioppi, è una bellissima giornata soleggiata. Siamo diretti alla sezione della muraglia chiamata Mutianyu, 70 chilometri a nord est di Pechino. Arriviamo alla funivia alle 11,30 e per caso saliamo proprio sulla carrozza in cui era stata Michelle Obama nel 2014. La Grande Muraglia, lunga più di 8000 chilometri, è situata nel nord della Cina dalla provincia occidentale del Gansu fino al golfo di Bohai, nella parte settentrionale del Mar Giallo. La costruzione della muraglia venne iniziata dall’imperatore Qui Shi Huang, che nel 221 a.C. conquistò tutti gli stati avversari unificando la Cina. Inizialmente era costruita con sassi, legno e terra battuta, ma nel corso dei secoli, soprattutto nel XV e XVI secolo durante la dinastia Ming per difendersi dalle invasioni mongole la fortificazione fu rinforzata e ricostruita impiegando mattoni e pietra ed erigendo fino a venticinquemila torri di guardia. Migliaia di uomini, forse fino a un milione, morirono durante la costruzione di quest’opera colossale, i lori corpi sono inglobati nella costruzione. La vegetazione è ancora verdeggiante, la muraglia si inerpica e ridiscende seguendo il profilo dei monti, come un enorme pitone addormentato, lo sguardo si perde all’orizzonte seguendone il percorso. Un’opera colossale che forse ha maggiore importanza e utilità economica e culturale per la Cina odierna di quanto sia effettivamente servita a tenere lontane le invasioni che si sono susseguite per tutta la sua storia. Camminando sui bastioni ne percorriamo un paio di chilometri fino a salire a una torre di guardia in cima a una delle colline, arrampicandoci su una scalinata ripidissima.

Il pranzo è compreso nel prezzo, ci sediamo con un decina di altri turisti attorno a un tavolo rotondo, in mezzo al quale su un supporto girevole girano vari piatti dai quali si pesca con le bacchette. Non è un sistema molto igienico perché si intingono nei piatti comuni le bacchette che si sono appena infilate in bocca. Pare anzi che sia la causa dell’alta prevalenza dell’epatite B in Cina. Sarà una delle prossime usanze che il regime vieterà, speriamo che per il momento ci vada bene.

Tornando a Pechino passiamo vicino al villaggio olimpico, riconoscibile dai cinque cerchi piuttosto che dalla spiegazione della guida. Altro obiettivo su cui dovrà concentrarsi Xi Jinping è l’insegnamento dell’inglese, anche se per loro dev’essere straordinariamente difficile visti gli scarsi risultati. Per evitare di peregrinare in autobus troppo tempo ci facciamo lasciare alla fermata precedente a quella del nostro albergo e proseguiamo a piedi seguendo un canale che fa parte del ricco sistema fluviale della città. Il sentiero pedonale lastricato segue la riva immerso in una densa vegetazione perfettamente curata, infatti vediamo alcuni giardinieri che zappettano intorno alle piante. Il rumore del traffico qui non si sente nemmeno, nel cuore della città sembra di essere in campagna, il corso d’acqua pulitissimo è lambito dai rami dei salici che vi si specchiano, ci sono persino dei pescatori e un suonatore di sassofono dilettante che si esercita sotto un ponte accanto alla sua bicicletta gialla.

E infine torniamo a galla nel traffico caotico. Nonostante tutto quello che si dice dei cinesi sui cani ci sono parecchie persone col cagnolino al guinzaglio. Due signore impegnate in un’animata conversazione ci passano accanto senza accorgersi che il loro volpino fulvo, elegantemente vestito con un cappottino blu, ha perso una delle sue scarpine di vernice azzurra. Mike la raccoglie e la consegna alla padrona che si profonde in sorrisi e ringraziamenti.

L’esperienza nel ristorante a qualche isolato dall’hotel è altrettanto curiosa, ma non in senso buono. Facciamo una gran fatica a farci capire, persino sull’acqua minerale, alla fine risolviamo (in minima parte) con il traduttore dello smart phone. L’anatra alla pechinese è piuttosto deludente, perché accompagnata da salsette e erbe piuttosto strane, e con una gran quantità di pelle grassa che una volta tolta riduce molto la superficie commestibile. Poi, dopo lungo confabulare per farci capire, ci portano quella che secondo loro è il top: una zuppa fatta con le parti di anatra scartate. All’apparenza è un brodino leggero, ma è più grassa di un brodo di cotechino. Immangiabile. Comunque spendiamo poco e decidiamo di tornare qui anche domani sera, convinti di esserci ormai addentrati nei segreti della cucina cinese e di poterci far capire con i mezzi tecnologici. Per fortuna ci sono le mele e le banane del verduraio dell’hutong.

17 OTTOBRE, PECHINO: PALAZZO D’ESTATE – TEMPIO DEL LAMA

In metropolitana capita che giovani cinesi ci cedano il posto, spero più per far bella figura con gli stranierei che per il nostro aspetto. Tutti sono attaccati al proprio cellulare, ma non se ne vede neanche uno che parla a voce alta come succede sempre in Italia dove si è costretti a subire intere conversazioni altrui anche piuttosto private e infarcite di parolacce.

Il Palazzo d’Estate è un grandissimo parco nel nord ovest della città, con un vasto lago artificiale che ne occupa la maggior parte e una serie di edifici circondati da ruscelli e giardini che riproducono i vari tipi di architetture cinesi. La sua costruzione iniziò nel 1750, fu distrutto due volte durante l’invasione anglofrancese nel 1860 e la rivolta dei boxer nel 1902, e sempre ricostruito. Era la dimora estiva dell’imperatrice Cixi, nonna dell’ultimo imperatore Pu Yi, una donna dal carattere ambizioso che aveva iniziato la sua vita a corte come concubina, divenendo poi reggente per 47 anni, essendo stata l’unica a riuscire a dare un erede maschio all’imperatore.

Anche nel Palazzo d’Estate è evidente l’amore che l’anima cinese prova per la natura, le piante, l’acqua: immagino l’imperatrice dai piccoli piedi trasportata in portantina tra i giardini, lungo le sponde del lago, sotto le pensiline dipinte. Per l’ampliamento e la manutenzione del Palazzo d’Estate Cixi spese una fortuna, dirottandovi i fondi destinati alla flotta dell’esercito imperiale.

La giornata è brumosa, una leggera nebbiolina aleggia sul lago sfumandone i contorni. Ormeggiate alla riva dondolano pigramente le barche dalle gialle teste di drago con la rossa lingua dardeggiante tra le zanne bianche.

Il tempio del Lama si trova nel nordest del centro di Pechino, è il più grande tempio del buddismo tibetano a Pechino, costruito verso la fine del XVIII secolo. Ci sono parecchi fedeli che compiono pratiche buddiste come porre dei bastoni d’incenso su un grande braciere e recitare preghiere. Nel Padiglione delle Mille Delizie troneggia una statua colossale di Maitreya, il Buddha che verrà, alta 26 metri e ricavata da un unico blocco di legno di sandalo, dono del Dalai Lama ad uno degli imperatori della dinastia Qing, che governò la Cina per oltre 350 anni fino alla dissoluzione dell’impero.

Torniamo al ristorante di ieri, ma l’esperienza è pessima, si salva solo Silvana prudentemente rifugiatasi in un banalissimo riso con verdure appena decente. Io e Ettore prendiamo un porcellino da latte con tanta cotenna e poco porcellino, mentre Mike fa l’esperienza più disastrosa scegliendo una trippa di maiale da impallidire dal disgusto. I camerieri a un certo punto si radunano tutti attorno a un tavolo, anche quelli dei ristoranti vicini, a sbafare a quattro palmenti cibi che ci sembrano molto più commestibili di quelli capitati a noi, ma è molto difficile lamentarsi potendo comunicare solo con un traduttore, neanche online oltretutto. Tra l’altro sembrano tutti abbastanza disinteressati alle nostre reazioni, ci lasciano la trippa fetida sul tavolo per tutta la cena nonostante cerchiamo più volte di fargliela portar via.

18 OTTOBRE, PECHINO: CITTÀ PROIBITA – TEMPIO DEL CIELO

Oggi pioviggina. In metro andiamo a visitare la Città Proibita, sul lato nord di piazza Tienanmen, arrivando sempre attraverso un corridoio transennato dato che la piazza è ancora chiusa per il congresso del partito. Sull’imponente porta d’ingresso campeggia il ritratto di Mao, raffigurato anche su ogni banconota cinese di qualsiasi valore. A fianco vi sono due manifesti, a sinistra con la scritta “lunga vita alla Repubblica Popolare Cinese” e a destra “lunga vita alla grande unità delle popolazioni del mondo”. Dato che la frase “lunga vita” era tradizionalmente riservata all’imperatore, queste scritte hanno un enorme valore simbolico, perché sono applicate alla gente comune, similmente a quanto è successo per la Città Proibita che per 500 anni è stata riservata solo all’imperatore, ai suoi familiari e alla la sua corte mentre ora è aperta a tutti.

La Città Proibita è il complesso di palazzi più grande esistente al mondo, con 980 edifici sopravvissuti, circondata da possenti mura e da un fossato di 52 metri di larghezza. Subì pesanti danneggiamenti durante la rivoluzione culturale, ai quali pose fine l’allora primo ministro Zhou Enlai che inviò un battaglione dell’esercito a guardia della città.

Comprare i biglietti non è stata un’impresa difficile come ci era stata descritta, probabilmente perché non siamo in alta stagione. Ciononostante come in quasi tutti i luoghi turistici c’è una quantità impressionante di gente, stranieri ma soprattutto cinesi. Prendiamo delle audioguide la cui spiegazione si attiva passando davanti ai vari luoghi o edifici. Per quasi un chilometro è un susseguirsi di piazze, cortili e palazzi di mattoni rossi (la città proibita è detta anche città purpurea) con i tetti a pagoda rivestiti di tegole gialle, dai nomi quali Armonia Suprema, Purezza Celeste, Tranquillità Terrestre, Longevità Tranquilla… L’interno dei vari edifici non è visitabile, si può solo sbirciarci dentro ostacolati dalla gran folla. Tutto sommato una visita abbastanza noiosa, allietata da un pranzo simile alla cucina italo-cinese nella caffetteria all’interno della Città.

Non senza difficoltà riusciamo a guadagnare l’uscita, che non è dalla stessa parte dell’entrata, poi sbagliamo clamorosamente la strada verso la metro, confusi dalle indicazioni di una studentessa italiana. Perciò facciamo un’interminabile andata e ritorno lungo il fossato, che tuttavia è molto bello, con i salici piangenti che si rispecchiano nell’acqua dello stesso colore verde argenteo delle loro fronde.

Con un taxi dal costo ridicolmente basso andiamo al Tempio del Cielo, nella parte meridionale del centro di Pechino, immerso in un vastissimo parco e circondato da numerosi altri edifici. Il tempio del Cielo o del Paradiso era usato dall’imperatore per il culto al cielo, la principale divinità del pantheon taoista, officiando cerimonie di sacrificio per invocare che il sole, la pioggia e il vento si alternassero favorevolmente. Uno dei titoli dell’imperatore era infatti “figlio del cielo”. La costruzione del Tempio del Cielo iniziò nel 1420 sotto la dinastia Ming, il colore delle tegole di maiolica degli edifici è blu come il cielo a differenza del giallo della Città Proibita che simboleggiava la potenza imperiale.

L’ultima maratona della giornata è a un hutong ristrutturato, a nord della Città Proibita. Diversamente che nel nostro hutong qui tutte le case sono state restaurate, è pieno di negozi di artigianato, abbigliamento, articoli inutili e curiosi e cose da mangiare molto colorate. Pensando di comprare la mitica crema fritta della mia giovinezza mi ritrovo a masticare un pezzo di pan carré fritto. Si è fatto tardi ormai, siamo stanchi e affamati. Ci mettiamo alla ricerca di un ristorante e dopo vari andirivieni e tentativi infruttuosi ci sediamo a una specie di fast food con vari stand dove ognuno vende qualcosa di diverso, non è il caso di descrivere nemmeno cosa, tanto che Ettore alla fine salta la cena. Per fortuna ci rimangono sempre le mele.

19 OTTOBRE, PECHINO: PARCO BEIHAI. ARRIVO IN TRENO A DATONG

Dal nostro hotel a piedi ci dirigiamo verso sudest al parco Beihai, un’immensa zona verde che faceva parte della Città Proibita fino al 1911 quando questa venne espugnata dai rivoluzionari. La giornata è bellissima, il cielo terso, la gente si sta godendo il magnifico parco per più della metà della superficie occupato dal Lago Beihai, il lago settentrionale, collegato verso sud al lago Medio e al lago Posteriore. Ci sono pescatori, genitori o nonni coi nipotini, proprietari di cagnolini che si godono rilassati la bella giornata, non avrei mai pensato che Pechino potesse avere tante zone così romantiche. Sarebbe un posto da passarci un’intera giornata.

Alle 15 abbiamo il treno prenotato per Datong, circa 350 chilometri a ovest di Pechino. Si parte dalla stazione centrale alla quale arriviamo con la metropolitana. Bisogna andare ad uno sportello particolare a confermare la prenotazione fatta dall’Italia e ritirare i biglietti, operazione che si rivela abbastanza facile nonostante sia la prima volta che la facciamo e che l’inglese degli impiegati sia come al solito scarso o nullo. Sembra quasi un miracolo ritrovarci infine tra le mani i quattro biglietti con i nostri nomi, e un altro miracolo arrivare al binario giusto con le carrozze che riportano la scritta Beijing-Datong. Le misure di sicurezza sono anche qui quasi maniacali, oltre ai vari metal detector alla fine ci requisiscono i biglietti e li sostituiscono con una tessera di plastica, non capiamo a che scopo. Franca Viaggi (come mi ha soprannominato Ettore) ha prenotato una soft sleeper, cioè un vagone letto a quattro posti con quattro comode cuccette due sopra e due sotto. Non sono affatto soffici ma sono spaziose, e anche qui ti danno le pantofoline usa e getta. È pieno di pesanti trapunte che potrebbero servire più da mettere sotto per ammorbidire il materasso che per coprirsi, dato che fa abbastanza caldo. In Cina i treni sono molto usati perché costano poco e sono attrezzati per dormire di notte risparmiando quindi anche il costo dell’hotel. Inoltre sono puntualissimi, siamo partiti al secondo spaccato. Viene a trovarci un bimbo simpaticissimo di circa due anni, al quale hanno già messo il pigiamino con l’apertura in mezzo alle gambe, un’usanza cinese per permettere ai bambini in età da pannolino di fare pipì e pupù in strada, i genitori raccoglieranno il prodotto come si fa per i cani immagino!

Il treno non è di quelli veloci, infatti la durata del viaggio è di sei ore senza soste. Passiamo attraverso un paesaggio molto suggestivo, quasi privo di presenza umana, con colline dai fianchi in pietra scoscesa e creste aguzze, separate da strette vallate dense di vegetazione. Siamo proprio vicino alla carrozza ristorante, proviamo anche questa! Con il traduttore chiediamo se il cibo è piccante e la cameriera si affretta a negare, e quando le chiediamo la forchetta scoppia a ridere molto divertita e con un’espressione piuttosto insolita per il suo inglese smozzicato ci dice “You shovel” cioè te lo spali in bocca! Però almeno ci porta una specie di cucchiaio di quelli cinesi fatti di porcellana. Sorprendentemente il cibo non è affatto male: riso bianco, spezzatino di pollo con verdure e un delizioso brodino viscidino di cui mi spalo anche le porzioni di Ettore e Silvana. Non si sa perché Mike non ha voluto venire, nel frattempo si mangia tutta la provvista di mele.

Verso le dieci di sera arriviamo alla stazione di Datong, una città considerata piccola in Cina ma che comunque ha i suoi 3 milioni e 300 mila abitanti. È situata a circa 1000 metri di altezza in un’importantissima zona per l’estrazione del carbone per cui si è guadagnata la reputazione di essere una delle città più inquinate della Cina. E infatti quando usciamo nel freddo del piazzale della stazione prende subito alla gola lo spesso odore di bruciato aleggiante nell’aria. Ci facciamo subito impossessare da uno scassato taxi abusivo con il quale concordiamo il prezzo (basso). L’impianto a gas occupa quasi tutto il bagagliaio, per fortuna giriamo solo con i trolley. La città è quasi deserta, sullo skyline avvolto da una sottile nebbiolina vediamo avveniristici ponti e cavalcavia illuminati e una selva di grattacieli. Il taxista ci scarica al limitare di una zona solo pedonale nella quale non può addentrarsi. Ci ritroviamo in uno scenario teatrale, una grande piazza lastricata, deserta, circondata da costruzioni in pietra grigia con il tetto a pagoda, i lampioni che diffondono una luce alonata nell’aria caliginosa, in giro nessuno, tutti gli edifici paiono disabitati. Del nostro Pippa Hotel non si intravede alcuna insegna. Tra l’altro costa pochissimo per cui i dubbi sono molti. Ci viene incontro un gruppetto di tre signore, sotto la fioca luce del lampione gli facciamo leggere il nome dell’hotel e si mettono a ridere di cuore, ripetendo “Pippa, Pippa” come se in cinese la parola avesse lo stesso significato che in italiano. Ma non sanno dov’è. Infine appare un uomo che spinge una bicicletta, dai vestiti stazzonati, le mani callose e un alito vagamente alcoolico, con l’aspetto di avere da poco finito il turno di lavoro da operaio e di essere passato da una bettola prima di tornare alle mura domestiche. E’ ansioso di aiutarci, dopo aver letto il nome dell’hotel scritto in cinese gli si illumina la faccia e ci accompagna facendoci attraversare la piazza fino a un edificio già esplorato prima dove dietro l’angolo finalmente, sul vetro della porta, trasparente su satinato, vediamo la scritta Pippa Hostel. L’operaio è tutto orgoglioso e contento del suo incontro con gli stranieri, prima di andarsene (un po’ a malincuore) si fa scattare una foto tra me e Silvana con il suo telefono. Ci ritroviamo alla reception insieme a un gruppo di tedeschi che avevamo già visto alla stazione, accompagnati da una guida tedesca parlante cinese. Ci impieghiamo un po’ a metterci d’accordo per l’indomani, ma infine ci sembra pattuito che alle 9 ci verrà a prendere un taxi che ci porterà alle grotte e al monastero sospeso. L’hotel è bellissimo, addirittura di design, tutto in legno all’interno, con molti pezzi di artigianato, e un bagno ultramoderno in cristallo e ardesia, con tanto di asse del water riscaldato con getti vari a comando per procedere al bidet anteriore o posteriore. L’unico problema è che fa molto caldo e c’è il solito piumone da alta montagna.

20 OTTOBRE: GROTTE DI YUNGANG – MONASTERO SOSPESO – PAGODA DI XINGXIAN

Non ci possiamo credere, nei circa 25 euro di costo per notte della camera è pure compresa una ricca colazione. Ci troviamo nel cuore della città, nella zona pedonale elegante, apparentemente restaurata da poco. Il taxista ci sta già aspettando, l’auto non è delle più moderne ma lui è simpatico e munito di traduttore online. Datong è una città che si sta riqualificando ma nelle cintura periferica le zone industriali legate all’estrazione del carbone sono ancora molto squallide. La giornata però è soleggiata, la temperatura mite, man mano che ci allontaniamo dalla città l’aria si fa più pulita.

Datong, anticamente chiamata Pingchen, venne fondata nel 200 a.C. Localizzata tra due rami della Grande Muraglia era strategicamente molto importante per la difesa ma anche come città carovaniera per i commerci con la Mongolia. Tra il V e il VI secolo fu capitale della dinastia Wei Settentrionale, in questo periodo vennero scavate le grotte di Yungang, uno dei migliori esempi di arte rupestre buddista in Cina, 16 chilometri a ovest della città.

Il taxista vuole farci risparmiare, tiene molto a spiegarci che sopra i 60 anni abbiamo diritto all’entrata gratis. La zona archeologica è immersa in un bellissimo parco nella valle del fiume Shi Li, le grotte sono scavate lungo circa un chilometro sul lato sud di una falesia di arenaria, ce n’erano circa 200 con circa 51.000 statue di Buddha di varie dimensioni, da colossali a piccolissime, oltre a statue di Bodhisattva (gli illuminati), imperatori e ministri. Oggi si possono visitare circa 50 grotte, un’esperienza molto suggestiva nonostante vi sia parecchia gente. Le pareti e il soffitto delle grotte sono affrescati e scolpiti ad altorilievo, sembra che un tempo vi fossero anche mobili in legno, soprammobili e drappeggi. Le statue sono danneggiate da numerosi fori, forse i proiettili sparati dalle mitragliatrici delle guardie rosse?

L’arte scultoria buddista è strettamente collegata ai traffici commerciali lungo la Via della Seta, che favorì il diffondersi di cultura, usanze e religioni tra i paesi dell’Asia Centrale, l’India e la Cina.

Con un viaggio di più di due ore il nostro taxista ci porta al Monastero Sospeso, 65 chilometri a sud-est di Datong. È un’incredibile costruzione sospesa lungo il fianco di una parete rocciosa a 50 metri d’altezza, la cui costruzione come le grotte di Yungang risale a circa 1500 anni fa. Questo miracolo architettonico ha una struttura portante nascosta, i pali di legno sono stati posti in seguito per convincere i pellegrini a salirvi, ma potrebbero essere rimossi in qualsiasi momento senza causare cedimenti. Lo si raggiunge percorrendo un ponte che conduce ad una scala intagliata lungo la parete rocciosa. I circa 40 ambienti adorni di stantue sono collegati da corridoi, scalette e balconate dalle quali lo sguardo spazia sulla valle attraversta da un fiume sbarrato a monte da una diga. Non è un posto per chi soffre di vertigini. Nell’antichità il monastero, in una località remota lontano dalla città, offriva rifugio a viaggiatori e pellegrini. Esso è l’unico in tutta la Cina dove si fondono le tre religioni: confucianesimo, buddhismo e taoismo, come testimoniano le statue dei tre fondatori poste insieme in una delle stanze. Chissà perché in Cina dove tutto è molto pulito le statue dei vari Buddha, Confuci e dei sono sempre molto impolverate, a differenza della Birmania dove i fedeli passavano il tempo a lustrarle.

Il taxista ci propone per un po’ di yuan in più di visitare un’altra delle attrazioni della zona, la pagoda di Xingxian, la più antica e più alta al mondo, costruita nel 1056, 70 chilometri a sud di Datong. È un capolavoro di ingegneria, alta 67 metri, composta di 9 piani interamente in legno, senza l’uso di un solo chiodo. Al piano terreno troneggia una statua dorata alta 11 metri di Sakyamuni, il fondatore storico del Buddhismo. Di Buddha ne abbiamo abbastanza, torniamo a Datong piuttosto confusi.

Sperimentiamo il traffico dell’ora di punta di Datong, dove ancora i motocicli non sono elettrici e si usa parecchio il clacson. Il centro pedonale nel quale si trova il nostro hotel è molto curato ed elegante, con bei negozi di abbigliamento e calzature. Finora non abbiamo mai visto farmacie, speriamo di non averne bisogno… C’è un ristorante molto bello dove troviamo la compagnia di tedeschi che avevamo visto ieri sera. C’è talmente tanta gente che dobbiamo fare una prenotazione tra un’ora, nel frattempo ci aggiriamo affamati tra le bellissime sale adorne di fontanelle, mobili laccati e bonsai. Finalmente prendiamo posto a tavola e ordiniamo i ravioli di cui abbiamo assistito alla meticolosa preparazione: sacchettini di pasta di tutti i colori sormontati da uno scenografico ciuffo. Sono più belli che buoni perché la pasta del ciuffo è piuttosto cruda e il ripieno indecifrabile. Purtroppo la mia scelta è infelice perché insieme all’abalone, un mollusco gasteropode più duro del previsto, mi ritrovo delle zampette di maialino cinese (credo) con tanto di tibia e perone avvolte da una spessa cotenna e annegate in una salsa marrone dolciastra.

21 OTTOBRE, DATONG. XI’AN

Proprio dietro il nostro Pippa hotel c’è una moschea che potrebbe essere tra le più antiche della Cina. Secondo una targa informativa si registra la presenza di musulmani in città fin dal 628, giunti attraverso la Via della Seta. Dentro la moschea c’è una classe di bambini delle elementari con le loro maestre, penso siano stati portati qui per una lezione di multiculturalismo. Non si possono vedere solo Buddha! E almeno l’Islam abborre il culto delle immagini.

Visitiamo il tempio Fahua con l’elegantissima torre bianca al centro, costruito durante la dinastia Ming (XV secolo), e il monastero Shanhua dell’VIII secolo, con le monumentali statue dei guardiani del cielo, anche queste impolverate. Secondo me i fedeli ci sono, ma il personale addetto alle pulizie è ancora ateo. Questi complessi sono stati più volte distrutti e ricostruiti, ora sono perfettamente restaurati, quieti, quasi deserti, surreali nella luce grigia che annuncia la pioggia.

Il muro dei Nove Draghi è il più antico di tutta la Cina, costruito nel 1392, rivestito di 270 piastrelle di maiolica con le immagini dei draghi in bassorilievo, lungo 45 metri e alto 8. È una struttura ricorrente in Cina, con 3, 5 o 9 draghi, che aveva lo scopo di proteggere simbolicamente il palazzo dell’imperatore. Il drago era simbolo del potere imperiale, 9 il massimo numero fortunato dopo 3 e 5. I draghi sono in posizione frontale, in ascesa o in discesa, di colore giallo, azzurro, bianco e purpureo. Anche qui ci fanno passare gratuitamente, e il guardiano, un gigione, chiede a me e Silvana il passaporto ed emette un mugolio di approvazione-sorpresa quando verifica che abbiamo veramente più di 60 anni. Molto gratificante.

La Cina è sempre stata ai nostri occhi un impero unitario per millenni, ma in realtà ha avuto una lunga storia di guerre interne ed invasioni esterne, ed ogni dinastia era il risultato di sanguinose guerre di successione. Datong inoltre era una città di frontiera, esposta alle invasioni dei bellicosi popoli del nord. La città vecchia è dunque circondata da possenti mura, costruite nel 1372 su contrafforti molto precedenti da un generale della dinastia Ming, tra le più antiche e meglio conservate della Cina, con 4 porte sormontate da una torre nel mezzo di ciascun lato, alte 14 metri, larghe 18 metri alla base e 12 alla sommità, con un perimetro di 7 chilometri.

La passeggiata sulla sommità delle mura è molto bella e rilassante, si può notare il grandissimo sforzo che sta facendo la municipalità per riqualificare questa città passata attraverso un antico splendore e poi divenuta città industriale del carbone. A ridosso delle mura sono stati realizzati bellissimi giardini con laghetti e corsi d’acqua e i vecchi quartieri fatiscenti sono in via di abbattimento e ricostruzione secondo la tipologia tradizionale di case basse in pietra grigia con il tetto a pagoda ricoperto di tegole sempre grigie. E’ impressionante vedere quartieri di macerie accanto ai quartieri nuovi ancora non abitati. Tutta la cintura periferica è una selva di grattacieli, molto indistinta nella foschia.

Torniamo all’albergo per prepararci alla partenza. Una coppia di sposi nell’abito rosso e oro tradizionale si sta facendo fare le foto con lo sfondo del muro della moschea. Comincia a piovere quando ci viene a prendere in taxi il nipote del taxista di ieri, che apparentemente non sta bene. Il ragazzo parla inglese abbastanza bene, è molto gioviale, ci racconta del suo lavoro di informatico che lo fa viaggiare in tutta la Cina e del sogno di sua moglie di visitare l’Italia. Gli chiediamo cosa sia una specie di cittadella fortificata accanto alla quale passiamo: è un centro commerciale rimasto incompiuto perchè il costruttore è scappato con i soldi del finanziamento, evidentemente questi scandali accadono anche in Cina! Quando gli chiediamo cosa pensa della Corea del Nord diventa piuttosto evasivo, o forse in Cina i media non parlano della situazione. Dice solo che è una nazione molto povera, mentre della Corea del Sud dice che i cinesi non l’amano ma che funziona molto bene economicamente. L’economia è tutto sembra.

Arriviamo in aeroporto almeno tre ore prima della partenza, ma con Silvana e Mike è così. Comunque ormai piove a dirotto, non avremmo potuto fare altro. L’aeroporto è piccolo con pochi voli, un solo bar e un solo negozio di souvenir. La bella sorpresa è che abbiamo la possibilità di imbarcare le valigie, cosa che non sembrava possibile leggendo il biglietto elettronico. Così Mike riesce a imbarcare gratis il suo trolley contenente il coltellino svizzero, mentre a me sequestrano il caricabatterie, dopo una lunga discussione con l’ufficiale che parla solo cinese e chiama in suo aiuto una dei passeggeri. Sembra che sia perchè non c’è scritto il voltaggio ma solo l’amperaggio. Bene, siamo sicuri che i bagagli li controllano minuziosamente.

Finalmente almeno in aereo si mangia cibo commestibile, anche se è il solito spezzatino di pollo con riso. Inoltre danno le forchette per evitare che la i passeggeri facciano dei disastri.

In poco più di un’ora arriviamo in perfetto orario a Xi’an, 750 chilometri a sudovest. L’aeroporto è ben più grande e frequentato, siamo in una città di 8 milioni e mezzo di abitanti. Xi’an ha più di 3100 anni di storia, è una delle quattro capitali storiche della Cina insieme a Luoyang, Nanchino e Pechino. Con il nome di Chang’an fu infatti la prima capitale, e lo rimase per 900 anni lungo 13 dinastie. In taxi arriviamo al nostro bellissimo Eastern Hotel, dentro le mura nella parte sud della città antica, moderno, con stanze comode e spaziose, e servizio gratuito di mele e succo di mango alla reception. Nell’armadio ci sono due mascere antigas, anche qui l’inquinamento dev’essere un problema.

22 OTTOBRE XI’AN: GRANDE PAGODA DELL’OCA SELVATICA – MUSEO

Le colazioni cinesi sono sempre ottime, abbondanti, a buffet, magari fosse possibile avere lo stesso trattamento a cena! A piedi andiamo fino alla piazza principale, nella quale svetta la Torre della Campana, e da qui prendiamo la metropolitana inaugurata nel 2011 fino alla Pagoda della Grande Oca Selvatica, una torre pendente alta 64 metri originariamente costruita nel 652 durante la dinastia Tang per ospitare i 1300 Sutra (libri sacri) buddhisti portati dall’India dal monaco viaggiatore Xuanzang, che per primo li tradusse. Si può salire all’interno della pagoda e ammirare il panorama nebbioso della città.

Il gran numero di pagode dedicate all’oca selvatica esistenti in Cina deriva dalla leggenda secondo la quale Buddha, sotto forma di un’oca, precipitò esanime al suolo affinché un monaco affamato potesse trovarne nutrimento. La pagoda si trova all’interno di un grande parco molto frequentato dalle famiglie cinesi in gita domenicale, in cui assistiamo anche a dei bellissimi giochi d’acqua accompagnati da musica classica che partono tutti i giorni alle 12.

Il resto della giornata lo passiamo al museo di Xi’an, anche questo molto affollato. Sono molto stupita di constatare l’interesse di cinesi per la cultura, ma conta anche il fatto che sono così tanti e che è domenica. All’entrata con il metal detector si accorgono che ho un selfie stick nella borsa e me lo fanno lasciare a un deposito di sicurezza. Probabilmente è vietato perché con così tanta gente si rischia di far male a qualcuno infilzandoglielo da qualche parte. Nei musei cinesi è possibile fare tutte le fotografie che si vuole, persino dentro le grotte di Yungang dove era vietato la regola era abbastanza disattesa.

Il museo è progettato molto bene e interessantissimo. C’è una vastissima collezione di porcellane che spazia dai primi recipienti Tang del VII secolo, di colore grigio-verde o grigio-azzurro, detta céladon, alle porcellane bianche e blu o dipinte a colori vivaci o prevalentemente verdi o rosa delle dinastie successive. I cinesi, e in seguito la Corea e il Giappone, detennero il segreto della manifattura della porcellana fino all’inizio del XVIII secolo, quando a Meissen, in Sassonia, finalmente gli europei riuscirono dopo svariati tentativi infruttuosi a produrre la porcellana dura che i Cinesi fabbricavano già da 1000 anni. È un’alchimia complicatissima, risultato della miscelazione di particolari minerali cotti a una temperatura molto elevata. La seta fu il principale articolo da esportazione della Cina, trasportata verso tutto il mondo allora conosciuto lungo la Via della Seta, di cui Xi’an era il punto di partenza. La bachicoltura iniziò in Europa solo durante l’impero Bizantino, nel VI secolo, mentre in Cina era praticata già dal 3000 a.C. E sono invenzioni cinesi che cambiarono il mondo anche la carta, la stampa, la polvere da sparo e la bussola.

A poche centinaia di metri dalla Torre della Campana c’è la Torre del Tamburo: la campana suona all’alba, i tamburi al tramonto. Purtroppo solo alla sera quando il museo è chiuso mi ricordo del mio selfie stick lasciato nel deposito. E domani è lunedì, giorno internazionale di chiusura dei musei, addio selfie stick che comprendeva anche un treppiede.

Facciamo qualche giro per vedere se attorno all’albergo ci sia qualche ristorante appetitoso ma nessuno ci ispira, aleggiano odori sospetti. Decidiamo allora di mangiare nell’elegante ristorante dell’hotel, dove l’unico fortunato è Ettore che prende il maiale in agrodolce, mentre io invece delle seppioline e dei gamberetti mi ritrovo ancora strisce di cotenna di maiale.

23 OTTOBRE: ESERCITO DI TERRACOTTA – QUARTIERE MUSULMANO E MURA DI XI’AN

Circa 40 chilometri a ovest di Xian venne fatta la scoperta archeologica del secolo: pezzi di statue di terracotta a grandezza naturale di uomini, cavalli e carri, il mitico esercito di terracotta di cui avevano parlato vari storiografi cinesi. L’esercito era stato seppellito a poca distanza dalla tomba del primo imperatore della Cina Qin Shi Huang per accompagnarlo nell’aldilà.

Ci arriviamo con un taxi prenotato ieri dall’hotel, il guidatore a nostra insaputa si è già messo d’accordo con una signora che ci farà da guida ma l’accettiamo volentieri perché parla inglese piuttosto bene. Come al solito c’è un sacco di gente, anche se la signora ci informa che siamo fortunati perché ce n’è pochissima rispetto al solito. In effetti la presenza di tutta questa folla vociante e fotografante toglie pathos allo spettacolo della sterminata armata allineata come fosse sul punto di andare in battaglia, ma focalizzandosi sulle fattezze dei soldati si riesce a provare l’emozione dell’immenso orgoglio e dispendio di energie che ha permesso a un umano di diventare imperatore del regno più vasto della terra e di tornare ad essere forse la principale attrazione turistica mondiale più di 2000 anni dopo la sua morte, finalmente soddisfacendo il suo desiderio di immortalità.

L’unificatore della Cina, vincitore dei sette stati combattenti, costruttore della Grande Muraglia, dell’Esercito di Terracotta e del canale Ligqu che collega il fiume Yangtze al nord con il fiume Li al sud, era ossessionato dal terrore della morte. Morì a soli 51 anni mentre si trovava in visita nelle provincie dell’est, a più di due mesi di marcia dalla capitale imperiale Xianyang (un distretto dell’attuale Xi’an), probabilmente per avvelenamento da mercurio spacciatogli per elisir di lunga vita dagli alchimisti di corte. Dopo un po’ il suo corpo puzzava così tanto che dovette essere trasportato alla tomba sepolto sotto una montagna di pesce.

L’esercito comprende circa 8000 soldati, 130 carri con 520 cavalli e 130 cavalli da guerra, sepolti in varie fosse di cui la più grande misura 230 per 62 metri. Le statue sono a grandezza naturale, ognuno con fattezze e abbigliamento diversi. L’imperatore aveva accuratamente pianificato la loro fabbricazione anni prima della sua morte commissionando le statue ad artigiani locali che per terminare la titanica impresa lavoravano con la tecnica della catena di montaggio: le varie botteghe artigiane erano specializzate ognuna nel fabbricare le diverse parti dei corpi che poi venivano assemblate e dipinte da altre botteghe. I soldati sono allineati nelle fosse in corridoi separati dal spessi muri di terra che sostenevano un tetto ermeticamente sigillato. Durante i secoli probabilmente a causa di terremoti il tetto è crollato sfracellando le statue di terracotta che sono state ritrovate in cocci, l’unico soldato rinvenuto intatto è un arciere inginocchiato. Per ricostruire una statua è necessario mediamente il lavoro di sei archeologi per otto mesi! Quindi l’imperatore ha impiegato 40 anni e 700.000 uomini per costruire i suo esercito e altrettanti anni e uomini ci vogliono per ricostruirlo.

Le statue sono grigiastre, color polvere, benché originariamente fossero dipinte nei colori della realtà, ma i pigmenti si sono dissolti nello spazio di breve tempo dopo che con la scoperta vennero esposti all’aria. Ci sono infatti alcune fosse non ancora scavate ma esplorate con delle sonde, in attesa di possedere la tecnologia per far sì che i colori si preservino. La tomba stessa dell’imperatore, grande quanto un campo di calcio, localizzata sotto un tumulo a forma di piramide tronca a poca distanza da qui, non è mai stata scavata né probabilmente razziata. Sarà la scoperta archeologica più importante del XXI secolo.

All’uscita la guida ci porta in un negozio di souvenir dove al primo piano incontriamo Yang Zhifa, il contadino che a 18 anni scavando un pozzo insieme ai suoi 5 fratelli e a un altro contadino nel 1974 scoprì dei cocci di terracotta e delle punte di freccia in bronzo. Oggi è un uomo famoso, vende e autografa un libro sull’esercito di terracotta in varie lingue, e si fa fotografare insieme agli acquirenti.

Lungo la strada del ritorno chiacchieriamo un po’ con la guida, una donna intelligente che ha imparato l’inglese quasi da autodidatta. Anche lei alle nostre domande impertinenti sulla Corea del Nord non ci dice nulla, come se l’argomento fosse tabù o sconosciuto. Però ci informa che da quest’anno in Cina è vietato l’uso del carbone per il riscaldamento, effettivamente sembra si stiano facendo molti passi in avanti per combattere l’inquinamento, forse le maschere antigas che abbiamo nell’armadio non dovranno essere utilizzate.

Il quartiere musulmano di Xi’an è nel cuore della città vecchia, alle spalle della Torre del Tamburo a poca distanza dal nostro hotel. A Xi’an da centinaia di anni vive una comunità musulmana appartenente all’etnia Hui, uguale per aspetto fisico, lingua e cultura all’etnia dominante Han, ciò che la differenzia è la religione e conseguentemente le abitudini alimentari, infatti non mangiano il maiale che è invece la carne più diffusa nel resto della Cina (e ne so qualcosa). È un quartiere incredibilmente vivace, la via principale è simile a un suk, dove i vari negozietti di souvenir e di oggettistica varia si alternano a bancarelle in cui si vendono i cibi più colorati e più strani: mele e banane fritte, duriam, melagrane, spiedini di seppie e gamberetti, focacce, croccante di pistacchio e di noci… Due ragazzi battono ritmicamente con delle mazze su delle masse di pasta per appiattirle e ammorbidirle, veicoli simili ad ape car si intrufolano clacsonando tra la folla di pedoni, una bicicletta che trasporta un carrello carico all’inverosinile di ingombranti profilati di acciaio riesce incredibilmente a fare un’inversione a U, una donna con il velo bianco in testa arrotola sigarette con una macchinetta a manovella, un’altra dorme appoggiata sul suo banchetto, prontissima a risvegliarsi se qualcuno si avvicina. La differenza principale rispetto ai suk musulmani è che qui non insistono per farti comprare.

Tornando verso sud oltrepassiamo il nostro albergo e ci dirigiamo verso le mura della città vecchia, molto simili come struttura alla cinta muraria di Datong ma con un perimetro molto più lungo, 14 chilometri. Io e Mike affittiamo le biciclette con le quali percorriamo tutti i bastioni pavimentati di pietra e larghi 12 metri, con una torre della campana ad ogni angolo. Anche qui lo skyline verso i quartieri più periferici è irto di grattacieli, immersi nella nebbiolina dorata del tramonto. Nel frattempo Silvana e Ettore si perdono cercando di raggiungere da soli l’hotel, perchè il detentore delle mappe è Mike che ha scaricato maps.me sull’iphone, dato che google maps in Cina non c’è.

Stasera andiamo sul sicuro, mangiamo tutti il maiale in agrodolce nel ristorante dell’hotel.

24-25 OTTOBRE: GUILIN – CROCIERA SUL FIUME LI

Anche l’aereo per Guilin è puntuale. Arrivati in aeroporto ci viene a prendere un taxi mandato dall’hotel, Aroma Tea House, una struttura carina proprio davanti al lago. La dirigono dei giovani molto simpatici che fanno il massimo per propagandare l’hotel. Siamo parecchio a sud, la temperatura è calda, anche la vegetazione è diversa, subtropicale. Attorno al lago non ci sono salici ma piante sempreverdi di osmanto, dai piccoli fiori gialli profumati: Guilin infatti significa “foresta di osmanto odoroso”. La città è situata sulla riva occidentale del fiume Li che qui si slarga formando dei laghi sui quali sono stati costruiti ponticelli e pagode. È una delle città più turistiche della Cina, si respira un’aria festiva e rilassata, vari gruppi di persone si ritrovano a ballare al suono della musica, soprattutto latino-americano (!). Di notte il lago è fantastico, illuminato di mille luci, con le pagode del Sole e della Luna che si specchiano nell’acqua color inchiostro e il Ponte di Cristallo che cambia sette colori.

L’offerta culinaria è molto ampia, ma non riusciamo a trovare niente che ci ispiri. Infine capitiamo in un posto dove non spiccicano un parola d’inglese e ci portano delle cose stranissime: una cupola vuota di riso bella dura, uno spezzatino di manzo con un’intera testa d’aglio spezzettata dentro, involtini di riso viscidi. E come de profundis insieme ai piatti ci mettono sul tavolo una clessidra rosa, di cui ovviamente non riusciamo a capire il significato. Guardiamo sconsolati la sabbia che scorre, forse marca il tempo necessario a eliminare i pezzi d’aglio tra i pezzetti di cibo.

Al mattino alle 9 ci viene a prendere un taxi per portarci alla crociera sul fiume Li, per la quale ci siamo messi d’accordo ieri all’hotel. Non comincia bene, c’è un pandemonio di gente che dai bus si riversa sull’imbarcadero, anche qui prevalentemente cinesi con trolley al seguito che si accatastano all’uscita dei metal detector insieme alla borse. I battelli ancorati nel fiume sono decine, in varie file, come nella crociera sul Nilo in altissima stagione, siamo piuttosto preoccupati. Ma una volta saliti sul battello ci sistemano in quattro posti spaziosi e tranquilli, con un tavolino in mezzo a fianco della vetrata, e quando le barche partono si sparpagliano nel fiume e si allontanano molto una dall’altra. Il fiume Li scorre dai monti a nord di Guilin verso sud per poi confluire in un sistema di tributari raggiungendo infine il fiume delle Perle che sfocia con un enorme delta nei pressi di Hong Kong.

Il fiume si snoda placidamente lungo un incredibile paesaggio di cocuzzoli e pinnacoli coperti di densa vegetazione che si specchiano nell’acqua limpidissima. La temperatura è mite, la giornata soleggiata, con quella leggera nebbiolina che rende il paesaggio simile a un sogno o a un ricordo lontano. Le rive sono quasi deserte, a volte appaiono dei pescatori sulle giunche o dei bufali d’acqua. Quella che in un primo momento sembra una densa foresta di palme è in realtà una distesa di bambù con le fronde a ciuffo, carnose e vellutate.

Dei nostri amici ci avevano detto di non mangiare assolutamente sulla barca perché lavano i piatti nel fiume. In qualche anno si devono essere evoluti perché portano dei vassoietti preconfezionati come in aereo, con tanto di forchette. Quasi alla fine della nostra esperienza di cucina cinese possiamo dire che i posti in cui abbiamo mangiato meglio sono gli aerei, il treno e adesso il traghetto. Non me lo sarei mai aspettato.

Dopo qualche ora di navigazione, un’ottantina di chilometri, il traghetto attracca a Yangshuo, una pittoresca cittadina lacustre incastonata tra i cocuzzoli, dove probabilmente si mangia dell’ottimo pesce a giudicare dai numerosi venditori di esemplari di ogni tipo, anche tartarughe, mantenuti vivi in catini di plastica. Qui si pratica ancora la pesca con il cormorano: questi uccelli sono addestrati a tuffarsi in acqua per acchiappare i pesci e consegnarli al padrone, anche perché non possono inghiottirli dato che quando sono al lavoro gli viene applicato un anello attorno al collo.

Abbiamo prenotato un’altra escursione in una zona chiamata molto turisticamente Shangri-la, un territorio solcato di canali adiacente al fiume, dove delle minoranze etniche con loro usi, costumi e linguaggio vivono lavorando la terra e dedicandosi all’artigianato. Ci si arriva con delle barche guidate da donne con il cappello conico, dopo aver attraversato idilliaci paesaggi di orti coltivati e alberi di pomelo alle pendici dei cocuzzoli fronzuti.

Torniamo a Guilin in pullman, attraversando un bellissimo territorio di risaie e boschi, con lunghe piste ciclabili che si snodano lungo la carreggiata. È una zona molto popolare per il cicloturismo, si sta anche svolgendo in questi giorni una gara internazionale che parte da Guilin.

Stasera Silvana e Ettore per non incorrere in altre brutte esperienze vogliono mangiare solo frutta, ci ritroviamo sul tavolino nel corridoio davanti alle camere a mangiare biscotti, mele, banane e pomelo. Un po’ triste per il nostro 34° anniversario di matrimonio, che sarebbe come al solito passato inosservato se non ce lo avesse ricordato mia mamma, divenuta esperta nell’uso di wechat.

26-29: OTTOBRE SHANGHAI

Per fortuna le colazioni sono sempre ottime, in questo albergo di Guilin attraverso la vetrata c’è anche un pittoresco panorama sul lago.

Con la solita puntualità l’aereo parte e arriva a Shanghai, la città più popolosa del mondo: 25 milioni di abitanti! Prendiamo il Maglev, il treno a levitazione magnetica che collega l’aeroporto alla città, 33 chilometri in 7 minuti e 20 secondi, alla velocità massima di 473 chilometri orari.

A Shanghai c’è una temperatura molto dolce, un leggero venticello, il cielo azzurro, apparentemente senza inquinamento. Il traffico sembra molto più ordinato che a Pechino, e non così congestionato. Siamo al Bund Hotel alle spalle del Bund, il lungofiume, sul quale andiamo subito a passeggiare. Shanghai, che significa “sul mare”, è situata sul fiume Huangpu, uno dei rami del delta del Fiume Azzurro, o Chang Jiang, o Yangtze, il fiume più lungo dell’Asia. Il Bund, fiancheggiato da maestosi edifici in stile europeo, è sulla riva occidentale del fiume, e guarda verso la riva orientale il nuovo quartiere di Pudong dagli incredibili grattacieli, sfolgoranti alla luce del sole, fantasmagorici contro il cielo della notte, illuminati di mille colori. Alle 6 della sera si odono rintocchi di campane e comincia a illuminarsi la Pearl Tower, la torre delle comunicazioni, iniziando con un tremulo sfavillio per continuare con una vulcanica e cangiante rapsodia.

Siamo su una strada pedonale sopraelevata traboccante di gente dalla quale si possono ammirare le architetture delle due rive e le barche illuminate che solcano il fiume. La passeggiata è molto popolare anche per le spose vestite di rosso, che con i loro abiti di chiffon si fanno fotografare contro lo sfavillante panorama.

Alla fine del Bund il fiume Suzhou si getta nel Huangpu, con un intrico di strade sopraelevate per superare i due corsi d’acqua. Ai piedi della Pearl Tower c’è una rotonda pedonale camminando lungo la quale, con il naso all’insù, si possono ammirare da vicino i grattacieli illuminati, tra cui il World Financial Center, detto il cavatappi per la forma della sua cima, il più alto di Shanghai.

Arrivati fino a qui con la metropolitana di venerdì sera, guadando un’incredibile fiumana di gente. Ai metal detector ormai hanno mollato il colpo e lasciano passare senza controlli.

La qualità della ristorazione subisce un’impennata: anche sotto l’hotel si mangia bene, piuttosto all’occidentale. Ma le colazioni in albergo sono decisamente tra le migliori della mia vita, con ogni ben di Dio della tradizione europea e cinese.

Rimaniamo parecchie ore nel museo di Shanghai, dall’architettura ultramoderna diviso in varie sezioni: bronzi, porcellana, giada, pittura, scultura, arredi, monete. Ciò che mi è rimasto più impresso è un plastico che raffigura una delle molte imprese familiari per la produzione della porcellana: la materia prima veniva scavata dal fianco di una collina, gli ingredienti miscelati usando l’acqua del fiume, infine il manufatto prodotto veniva portato ad una fornace comune, a forma di dragone, i cui primi esamplari vennero costruiti dal XVI secolo a.C. La fornace dragone era costruita in mattoni sul fianco di una collina, con un angolo da 8 a 20 gradi e una lunghezza da 30 a 80 metri, fattori che determinavano un tiraggio tale da raggiungere la temperatura molto elevata necessaria per la cottura.

Alla stessa fermata del nostro hotel c’è il giardino del Mandarino Yu, costruito alla fine del XVI secolo, il più grande e prestigioso giardino di Shanghai che per la sua realizzazione mandò in rovina la famiglia Pan. Si tratta di una serie di edifici con stagni, ruscelli e ponticelli, un po’ troppo affollati di turisti e guide vocianti per poterne apprezzare il fascino. I ricchi cinesi erano particolarmente amanti delle grosse rocce di forma irregolare e superficie porosa, di cui abbiamo visto alcuni esempi nella Città Proibita e nel Palazzo d’Estate. Qui c’è la Squisita roccia di Giada (ma non è di giada), un grande masso alto più di 3 metri destinato al palazzo dell’imperatore, recuperato e posto in questa giardino dopo il naufragio della nave che lo trasportava.

Nel nostro ultimo giorno a Shanghai saliamo sulla Perla d’Oriente, la Pearl Tower, così chiamata perché composta da 5 sfere ad altezze differenti e di diametro digradante, come le perle di una collana. Il vertice raggiunge i 468 metri, il punto più alto al quale si può salire è 350 metri, mentre a 263 metri si trova un punto di osservazione con pavimento in vetro da brividi. Dalla torre il panorama è incredibile: il fiume si snoda argenteo tra la selva di grattacieli, disegnando un’ansa per cui lo si vede sia da un lato che dall’altro. Il cavalcavia circolare pedonale su cui camminavamo ieri sera con la grande aiuola fiorita al centro della rotonda stradale sottostante sembra una crostata di frutta. L’ombra della torre attraversa il verde di un parco e il grigio argenteo del fiume, puntando in mezzo a due navi da crociera e verso uno scintillante grattacielo dalle pareti convesse.

Al piano terreno della Pearl Tower c’è un interessantissimo museo sulla storia di Shangai, con ricostruzioni di ambienti e fotografie dell’epoca. Shanghai riveste una posizione chiave per il commercio e lo sviluppo economico fin dal XVIII secolo sotto la dinastia Qing. Nel XIX secolo gli inglesi avevano un forte disavanzo commerciale con Cina, che esportava molto ma era praticamente autosufficiente. Per coprire questo disavanzo gli inglesi cominciarono a diffondere l’uso dell’oppio prodotto nelle loro colonia dell’Afghanistan, che rapidamente dilagò rendendo schiava una grande parte della popolazione. Quando l’imperatore cercò di regolamentarne l’importazione si scatenò la guerra dell’oppio, in cui gli inglesi vinsero a man bassa, stipulando trattati commerciali a netto svantaggio della Cina. Gran Bretagna, Francia e Stati Uniti ottennero concessioni territoriali al di fuori della città murata di Shanghai ancora in mano ai cinesi. Nei primi decenni del ‘900 una gran quantità di stranieri cominciò a stabilirsi nella città, tra cui molti ebrei in fuga dai paesi dell’est Europa, creando la seconda comunità straniera più grande. Con le guerre sino-giapponesi anche il Giappone diventò un’altra potenza straniera presente a Shanghai, che si trasformò nel più grande centro finanziario del l’Estremo Oriente. I Giapponesi si impadronirono della parte cinese di Shanghai nel 1937 e l’occuparono completamente dal 1941 al 1945. Anche sotto la repubblica Democratica cinese Shanghai mantenne un’elevata produttività economica e una relativa stabilità sociale, fino ad ottenere importanti liberalizzazioni economiche nel 1978 e ad avviarle estensivamente dal 1991, consentendo il massiccio sviluppo economico e demografico cui assistiamo oggi: secondo porto al mondo come volume di traffico dopo Rotterdam avendo recentemente superato Singapore, e città più popolosa del mondo.

Testimonianza di questo passato internazionale è la concessione francese, un paio di chilometri a ovest del nostro hotel. Sembra proprio di essere a Parigi, con i viali bordati di platani e le case dallo stile inconfondibilmente francese. Questa zona negli anni ’30 era una delle più ricercate ed eleganti della città, e probabilmente lo è ancora.

Questa sera ripartiamo per Milano via Monaco. In Cina abbiamo visto il massimo che potessimo vedere in due settimane, ma ancora ci manca molto, soprattutto mi piacerebbe ritornare nella Cina del sud attorno a Shanghai, di cui abbiamo visto solo la punta dell’iceberg, anche se il paragone non è proprio calzante. Ma soprattutto abbiamo potuto sfatare molti luoghi comuni e nel contempo scoprire sorprendenti particolarità, ad esempio tornando in albergo vediamo un ragazzo che porta in spalla uno zaino felino, dal quale un bellissimo gatto d’angora bianco e rossiccio ci guarda attraverso un oblò di plastica trasparente!

Costo del viaggio tutto compreso: 2200 euro.

Il visto si ottiene a Milano in pochi giorni presentando il passaporto con validità almeno 6 mesi e le prenotazioni dei treni, degli aerei e degli hotel su cui è stato messo il timbro (chiederlo via mail all’hotel stesso).

Aerei e treni sono stati tutti prenotati dall’Italia.

Gli hotel menzionati nel diario sono tutti altamente raccomandati.

Google in Cina non funziona. Per telefonare scaricate e fate scaricare ai vostri contatti un’applicazione che si chiama WeChat e eventualmente createvi una casella di posta che non sia dipendente da Google (tipo Yahoo). Per andare in giro scaricate l’applicazione maps.me e usate le mappe offline, Skype funziona molto bene.

Per evitare sorprese noi abbiamo cambiato gli euro in yuan già in Italia prima di partire, ma penso non ci sia problema a ritirarli presso gli sportelli.

Negli hotel funzionano sempre le carte di credito ma è necessario avere del contante per taxi ecc.

Qualche volta abbiamo utilizzato un traduttore di parole su un’applicazione che si chiama Pleco.



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