La buena suerte in Argentina, Bolivia e Cile

La buena suerte del viaggio in ARGENTINA, BOLIVIA E CILE Seconda parte: Bolivia 150 chilometri ci separano dal confine Boliviano. Il primo tratto è boscoso, alcuni alberi hanno fiammeggianti fiori rossi, altri sono drappeggiati da liane con solari fiori gialli. Spesso i tronchi ospitano altre piante, felci o orchidee che si esibiscono in grandi...
Scritto da: Maria_Grazia
la buena suerte in argentina, bolivia e cile
Partenza il: 12/10/2002
Ritorno il: 09/11/2002
Viaggiatori: fino a 6
Spesa: 2000 €
La buena suerte del viaggio in ARGENTINA, BOLIVIA E CILE Seconda parte: Bolivia 150 chilometri ci separano dal confine Boliviano. Il primo tratto è boscoso, alcuni alberi hanno fiammeggianti fiori rossi, altri sono drappeggiati da liane con solari fiori gialli. Spesso i tronchi ospitano altre piante, felci o orchidee che si esibiscono in grandi ciuffi di foglie e fiori paglierini.

La ruta de la Cornisa sale stretta e tortuosa fino alla Quebrada di HUMAHUACA scavata dal Rio Grande. Il paesaggio ora si apre, ora si chiude nelle strettoie della valle. La vegetazione si dirada gradatamente, poi resta solo una stretta fascia verde lungo il fiume su cui svettano filari di pioppi cipressini e monumentali salici piangenti. I campi, piccoli e ben curati, sono circondati da canali di irrigazione e da siepi. E’ primavera ed è già tutto verde ma la vera ripresa vegetativa ci sarà all’arrivo della tanto attesa stagione delle piogge. Per il resto solo bassi arbusti, erbe giallastre e cactus. Terra e roccia sono le protagoniste, ormai siamo entrati nel vasto territorio desertico degli altipiani andini, un viaggio nel colore. La terra è ricchissima di minerali e i fianchi dei monti sono incredibilmente variopinti. Il più spettacolare di tutti il Cerro de los sietes colores. Si susseguono caratteristici villaggi con le case di adobe (mattoni di fango cotti al sole) e il tetto di paglia e fango. MAIMARA’ è uno dei più tipici, le grandi fasce orizzontali rosse gialle arancione marron viola della Paleta del pintor come sfondo e in bella vista il fantasmagorico cimitero multicolore. abra pampa. 3000 metri, aria fresca e rarefatta, quattro case e una rara e preziosa pompa di benzina. Per la notte usciamo dal tragitto principale per raggiungere YAVI con l’intenzione di montare le tende nel campeggio del paese, ma l’accogliente ostello ci fa velocemente cambiare idea. Anche YAVI, come gli altri paesi, al pomeriggio sembra deserto. Uniche presenze umane i militari del posto di polizia. Non si trova neanche la custode per visitare la chiesa di San Francesco (XVII sec.), ma intanto, poco fuori dal paese, sulla direttrice di un antico percorso, visitiamo interessanti incisioni rupestri. Il luogo è bellissimo, ampio, in lontananza alte montagne con la cima innevata. Camminiamo in mezzo alla thola, un arbusto basso, simile alla ginestra, molto resinoso dall’odore di tamerici, usato per far fuoco, c’è anche qualche fiore simile ai crochi e spinose piante grasse coperte di coloratissimi fiori. Nella valletta un laghetto e un piccolo gruppo di lama che sta placidamente pascolando. Sono gli stessi animali raffigurati nei graffiti, ma ci sono anche vipere, uomini con copricapi piumati, mappe, condor, segni rituali.

Gironzolando per il paese, capitiamo in piazza dove facciamo la conoscenza di Enrico un ragazzo che costruisce adobe. I mattoni vengono fatti e messi a seccare proprio sul pavimento della piazza, una volta secchi Enrico li trasporta con una carriola all’interno di un magazzino. Ci fermiamo a parlare, noi a chiedergli del suo lavoro, lui è curioso della nostra vita. Dice di essere così povero da non potersi permettere neanche il breve viaggio fino alla città più vicina. La sua sensibilità e la sua acutezza ci amareggiano, il suo è un futuro di miseria senza prospettive, mediato forse dalla grande fede che dice di avere. Situazioni di questo tipo sono la regola, l’area è molto povera, le risorse naturali, ad esclusione di quelle minerarie, sono scarsissime: pastorizia e stentate coltivazioni. La miseria è evidentissima a LA QUIACA-VILLAZON, frontiera tra Argentina e Bolivia, dove si svolge il comercio de hormigos (commercio delle formiche). Un numero incredibile di donne e uomini, a piedi, in fila, schiacciati da enormi e pesantissimi carichi, passano ripetutamente la frontiera. Un sistema che consente il trasferimento di merci senza grandi controlli e formalità. Quindi, superati circa 200 mt a piedi, il materiale viene prontamente caricato su camioncini. Per noi invece poca fatica ma lunghi tempi di attesa per completare intricatissime pratiche burocratiche nei vari uffici doganali. E dopo due ore ci “lanciamo” verso TUPIZA. Le case si diradano fino a sparire completamente. La strada è sterrata ma abbastanza buona e si può correre velocemente. Ogni tanto una sbarra blocca la strada, si mostrano i documenti si paga il pedaggio e poi via verso il prossimo posto di blocco o una possibile foratura. Infatti, forse a causa della veloce andatura su un fondo stradale pieno di sassi abbiamo forato. Un fatto banale, ma qui comporta un po’ di apprensione dovuta alla distanza tra i centri abitati e alla possibilità di eseguire la riparazione. Ma l’episodio si concluderà felicemente a Tupiza dove un provetto riparatore di circa 10-12 anni maneggiando la ruota come fosse un giocattolo e a fronte di una cifra di circa 1/2 dollaro nel giro di mezzora ci ha risolto il problema.

Tupiza. 20.000 abitanti, capoluogo di regione, 3000 metri di quota, atmosfera serena. Ci fermiamo due giorni e alla fine ci muoviamo disinvoltamente tra i vari mercati, la piazza, i negozi e le quadre. I dintorni poi, sono davvero particolari tanto che la zona è considerata una delle più belle della Bolivia. La particolarità sono i fenomeni erosivi delle formazioni “a pinna”, nelle Quebrade Palmira, Palala, ci sono le più belle. Rossi e verticali torrioni “mallos” o sottili e alte quinte rocciose “pinne” sono formati da agglomerati di sassi di varie dimensioni. Sui loro dritti fianchi, che resisteranno in piedi fin tanto che acqua e vento lo consentiranno, fitte popolazioni di tillandsia, piccole piantine resistentissime alla siccità. Alle 7.30 partiamo, il cielo, con ancora le tracce della notte, è privo di nubi, ma fra poco il sole, superata la montagna, sarà forte e abbagliante come ieri e come domani. Appena fuori città ci si sente sperduti, unico filo conduttore la pista e lo sconcerto è grande quando si arriva ad un bivio. I cartelli sono inesistenti e si è fortunati quando dal niente sbuca qualcuno a cui chiedere la via, oppure ci si affida all’istinto magari scegliendo la pista più battuta. E la precarietà aumenta quando a San Miguel, un microscopico villaggio, incappiamo in un incidente tra una jeep e un camion. Nessuna possibilità di passare, i due automezzi sono in mezzo alla strada, il camion ha l’asse delle ruote davanti completante scardinato e la jeep è incastrata tra due alberi. C’è anche un ferito, ma i soccorsi ospedalieri non arrivano fino a li e quindi cercano un passaggio per l’infortunato. C’è molta agitazione, poi uno dei rari automezzi di passaggio carica il ferito verso l’ospedale di Tupiza. Per poter proseguire dobbiamo fare una lunga deviazione sull’ampio greto del torrente. Ripresa la pista principale cominciamo a salire, salire fin sulla cresta dei monti, straordinario il continuo cambiare dei paesaggi. In cielo i primi condor volteggiano lenti e maestosi. 3700 metri. Da questa strada nel cielo si domina un orizzonte enorme, incessantemente scorrono valli e lontane montagne. Per ore non incrociamo nessuno, poi un camion, più avanti una casa e una famiglia di pastori, ci confermano di essere sulla strada giusta. Come faranno a vivere in tali condizioni? attorno niente se non terra, sassi e qualche arbusto rinsecchito, una corriera una volta la settimana. Ad una deviazione proviamo, porta ad una miniera. Ci viene incontro un uomo, chiede notizie e giornali.

Eccoci ad ATOCHA una cittadina mineraria in un buco della valle. Per arrivarci si corre nel greto del fiume, con la stagione delle piogge qua non si arriva. Nel rigagnolo d’acqua c’è di tutto: sacchetti di nylon, bottiglie di plastica, rifiuti vari e gli scoli delle fognature, il colore e l’odore sono pessimi. Sul paese incombe anche una gigantesca piattaforma di detriti minerari. Un posto veramente infelice, anche il pranzo è stato indecente. Per finire la giornata, prima di arrivare ad UYUNI, ci siamo insabbiati in una duna che il vento aveva piazzato nel bel mezzo della pista. Dopo un buon lavoro di scavo, che a quelle quote lascia senza fiato, quasi al tramonto ripartiamo. In 9 ore abbiamo percorso circa 200 km, dovremmo esserci! Con molto anticipo la città si preannuncia con uno svolazzare di bianchi sacchetti di nylon che trasportati dal vento incessante si vanno ad impigliare nella bassa vegetazione. Il sole radente illumina questi strani fiori lucenti.

A UYUNI una sorpresa, un festival di danze e musica folcloristica. Il palazzetto dello sport è straripante, famiglie intere compresi i cani. Siamo gli unici europei. Tantissimi gruppi si susseguono nello spettacolo, sono tutti molto giovani e con grande entusiasmo si esibiscono davanti ad un pubblico caloroso. Città isolate si, ma mode e novità ormai arrivano ovunque. Ecco quindi ragazze vestite all’occidentale e con capelli dai ciuffi viola o rossi e naturalmente internet dove si può cliccare per pochi soldi.

In città facciamo scorte per i 4/5 giorni che staremo nel deserto. Prima di ripartire dobbiamo farci registrare al posto di polizia che nonostante sia a 200 km dal confine funge anche da frontiera ed è qui che ci rilasceranno il visto d’uscita. A 20 km COLCHANI. Una stazione ferroviaria, mucchi di sale e un piccolo impianto per la raffinazione e finalmente il salar. 12.000 km quadrati di sale. Una enorme distesa bianca e abbagliante come un campo di neve, assolutamente piatta e priva di ostacoli per cui non c’è una vera e propria pista da seguire, unica insidia i rari “ojos del salar”, polle di acqua affioranti in superficie.

In mezzo a tanto bianco la macchia scura dell’Isla Incahuasi o Isla de Pecadores. Un mucchio di rocce vulcaniche e una selva di cactus. Dalla cima si intuisce a malapena il limite del salar, contornato da lontani monti. La gran parte di questi sono vulcani spenti ed è ad uno di questi che puntiamo, il Tunupa, dalla sommità straordinariamente colorata di rosso giallo arancio. Ci viene indicato che lungo il tragitto troveremo anche la caverna della mummia, e c’è davvero. La caverna è ampia e luminosa sul fondo vasi e oggetti di uso comune, offerte a Pachamama (la divinità della terra). Addossati alla parete alcuni corpi accovacciati con pelle, capelli e vestiti. Il clima secco e le temperature rigide consentono la conservazione di corpi per migliaia di anni. Sono frequenti ritrovamenti di questo tipo anche su cime di 6/7000 metri, monti sacri dove si compivano cerimonie rituali che prevedevano sacrifici umani. Questo particolare settore di ricerche archeologiche di alta montagna è in fase di sviluppo, tecniche e ritrovamenti sono ben esposte nel museo antropologico di Salta. La salita al Tunupa (5432 mt) è faticosa, la respirazione sempre più difficile, ma il richiamo del vulcano è forte e si va avanti. Alla base si vedono tracce umane, muretti a secco, piccole coltivazioni, lama al pascolo, erbe bruciate, ma la solitudine è totale. Fiori coloratissimi simili a gigli, saltellanti viscachas, qualche uccello e massi coperti di llareta – pianta protetta – un muschio compattissimo e duro come pietra, dal forte odore di resina. Ancora avanti. Qualcuno rinuncia. Improvvisamente la vegetazione finisce, inizia la lava, comincia anche il vento e il fianco si impenna. Salire equivale a tre passi avanti e due indietro. E’ tardi, bisogna tornare, prima di sera dobbiamo raggiungere San Juan.

Il paesaggio è sempre grandioso e suggestivo. Vento e polvere, piste che si intrecciano. Davanti a noi alcuni provvidenziali motociclisti con il loro polverone ci segnano la strada e prima di notte arriviamo a San Juan, famoso per la coltivazione della quinoa (un cereale molto proteico), microscopico paese che sta lentamente crescendo per effetto del turismo. Un piccolo negozio, una stazione radio, un ragazzo ha improvvisato un lavaggio auto per togliere la crosta di sale accumulata nella traversata del salar e da poco si trova anche carburante in bidone.

Le bellezze del paesaggio crescono ogni giorno. Questa sarà la tappa più bella: cielo e deserto, vulcani e lagune: Chiguana, Canapa, Hedionda, Char Kota, Ramadidas, Colorada, Verde ognuna con una colorazione diversa, su tutte colonie di fenicotteri in continua ricerca di cibo. E le fumarole del vulcano Ollague e l’albero di pietra del deserto Siloli e luminosi ciuffi d’erba simili a colbacchi e gruppetti di curiose vigogne che si allontanano in una nuvola di polvere. E, a 4000 metri, nella pozza calda della Laguna Verde il più fantastico bagno termale che si possa immaginare. Puna uno degli altipiani più alti del mondo, tanto bella e tanto inospitale. Un vento insistente, nuvole di sabbia e freddo intenso ci fanno rinunciare ad una notte in tenda in questo favoloso ambiente. Eccoci al confine, l’unico edificio è avvolto nella tempesta di sabbia, senza sbarre e senza difficoltà superiamo il confine, siamo in Cile… ed è già rimpianto. Per ulteriori informazioni e/o contatti Maria Grazia Brusegan mariagrazia@arcam-mirano.It per vedere alcune foto www.Arcam-mirano.It rubrica “viaggi popoli culture”



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