L’ultimo giorno all’Avana
E’ il mio ultimo giorno a Cuba, hermano, l’ultimo giorno all’Avana, e sto andando su e giù per Obispo cercando di capire se sono più triste, più arrabbiato, più felice o più sudato. Tutto questo e molte altre cose che non so descrivere si mescolano, e cammino con la faccia ebete sicuro solo delle contraddizioni che mi porto dentro.
Contraddizioni. E per forza. Questa è la patria delle contraddizioni. Cuba è il posto più meraviglioso del mondo epperò per molti versi invivibile, o per lo meno dannatamente complicato da viverci. Con la sua gente bella sorridente gentile intelligente e fiera, capace di guardarti dall’alto orgogliosa della sua cultura e contemporaneamente chiederti un piccolo aiuto per comprare un po’ di carne o latte per il bimbo, che senza chavitos si fa fatica a portare a casa. Con la sua modernità da paese sviluppato e i campesinos col carretto trainato dal mulo.
Coi suoi palazzi coloniali ripuliti e splendenti in colori pastello, affianco ad altri fatiscenti e decrepiti, densi di odori, di grida, di musica e di panni spasi. Con le sue scintillanti Chevy anni 50 tenute insieme col fil di ferro, che cacciano un fumo nero di benzina scadente, e le altrettanto scalcagnate e puzzolenti Lada simil-124. E poi le spiagge di borotalco e il bagno sugli scogli neri del Malecon, l’istruzione gratuita fino all’università ma senza le matite e i quaderni per scrivere, la frutta più succosa della terra e le croniche carenze vitaminiche, il clima dolce tutto l’anno e i bambini col catarro, la scienza e l’assistenza medica più avanzata del Caribe (e forse anche oltre) ma niente medicine causa l’embargo quasi cinquantennale dell’odiato nemico imperialista yankee (ma pure per i buchi del bilancio statale), gli alberghi 5 stelle dove però i cubani non sono ammessi, i sigari, il bolero, la salsa, il son, il ron, il mojito, il cuba libre e una libertà ostentata nei retorici murales rivoluzionari tanto quanto negata dai continui divieti, da un opprimente e spesso corrotto apparato burocratico, da un regime sempre presente e sempre in ascolto.
Contraddizioni, complicato, arrangiarsi, industriarsi. Parole che nei viaggi lungo l’isola ho imparato a conoscere, e che poi inevitabilmente han finito per farmi compagnia.
Ne parlavo giusto ieri con Milagros. Tornavo in macchina dalle spiagge di Playa del Este, pochi chilometri dalla capitale, e lei stava facendo “bottella” a un incrocio. Fare l’autostop è un modo normalissimo di spostarsi a Cuba, data la cronica carenza dei mezzi di trasporto. E offrire un passaggio è anche un ottimo modo per uno straniero di conoscere gente ed ottenere indicazioni stradali, praticamente inesistenti. Milagros è una signora di mezz’età bassina e rotondetta, con una faccia intelligente e simpatica. Da 30’anni insegna chimica all’università, e oggi dopo le lezioni si è concessa un paio d’ore di mare. Mi dà orgogliosa il suo biglietto da visita di professoressa mentre l’accompagno in Centro Habana, il quartiere che forse mi affascina di più per la mescolanza di stili architettonici e perché ti sbatte in faccia quasi con violenza tutte le espressioni di una metropoli da 2.200.000 abitanti. E ‘anche per questo che Cuba ti incanta e di ammalia, perché ti si stende davanti così, stancamente, languida e spudorata, e senza chiedertelo ti impone di entrarle e leggerle dentro.
Raggiunto il suo modesto palazzo, Milagros mi chiede se mi serve una casa particular, assicurandomi che conosce altre persone che affittano camere in case anche più lussuose, nei moderni quartieri del Vedado o nelle villette coloniali di Miramar. Insiste poi per accompagnarmi a vedere un paladar, un ristorante privato al primo piano di una palazzina a prima vista orribile, e che invece all’interno scopre meraviglie liberty e un patio freschissimo, come spesso accade in quest’isola, a dimostrarti che fermare le tue impressioni alla facciata vuol dire non aver capito un kaiser. Quando poi ci torno la sera a cena con gli amici la vedo arrivare e salutarmi discretamente da lontano, mentre chiede al proprietario quel che le spetta per avergli procurato dei clienti. E’ del tutto normale. Anche Milagros deve arrangiarsi (un’altra delle parole-chiave), ingoiare il suo orgoglio di docente universitario e cogliere al volo ogni occasione per arrotondare, per permettersi quei “lussi” che il suo stipendio di 15 euro al mese non le concede. Perché a Cuba nessuno muore di fame, ma vivere decentemente è, appunto, complicato. E se non arrivano rimesse dai parenti all’estero bisogna inventarsi sistemi per recuperare pesos, soprattutto dai turisti, che ne hanno in abbondanza. E poi c’è l’altra arte dei cubani, quella di industriarsi, per cui non si butta niente e si diventa maestri del riciclo e dell’accrocchio.
Quindi capisci che ti capisco, hermano, ma non ho proprio voglia di regarlarti un chavito. E’ il mio ultimo giorno all’Avana, e cammino come uno scemo su e giù per Obispo cercando di capire se sono più triste, più arrabbiato, più felice o più sudato. Cercando di capire se ho capito qualcosa.
Certo solo che non potrò fare a meno di tornare ancora. E allora hasta pronto, caballero.
(foto su http://www.Flickr.Com/photos/raggiods)