Krung Thep, la Città degli Angeli
È appena l’alba quando atterriamo al nuovissimo scalo Suvarnabhumi; l’aeroporto che è stato per certi versi simbolo della corruzione dilagante dovuta all’amministrazione del primo ministro Thaksin, che ha portato al colpo di stato pacifico del settembre 2006. È tutto tecnicamente perfetto: lunghi corridoi puliti e asettici serviti da nastri trasportatori, insegne che annunciano arrivi e partenze disseminate ad ogni angolo, mentre sopra la nostra testa le grandi braccia cilindriche dell’edificio principale si allungano come tentacoli. La porta scorrevole che si apre davanti a noi ci getta però improvvisamente in un mondo avvolto da una spessa coltre di nebbia dall’odore dolciastro di smog.
Dicono che Bangkok si contenda con Città del Messico la palma di città più inquinata del mondo; non so se essere fiero di averle visitate entrambe, o abbattuto per il fatto di poter dire che la prima impressione conferma la triste statistica.
Il nuovo scalo, inaugurato solo da un paio di anni, dista circa sessanta chilometri dalla città propriamente detta. La fitta nebbia non ci permette di vedere granché fuori dai finestrini, se non ampi e vuoti parcheggi, ed è solo dopo buona parte del tragitto che iniziamo a scorgere i primi grattacieli della Venezia d’Oriente. Scopriamo ben presto che la crescita vertiginosa della città, avvenuta negli ultimi anni, ha mescolato le costruzioni nuove a vecchie e fatiscenti costruzioni di fortuna; baracche che continuano a crescere a vista d’occhio a causa della continua migrazione delle popolazioni contadine verso la città.
L’autobus ci scarica davanti alla stazione dei treni quando il sole, alzatosi in cielo, è già riuscito a farsi largo tra la foschia, ed è infine su di un rumoroso e gracchiante tuk-tuk che raggiungiamo il nostro hotel. La costruzione, pur essendo imponente, si maschera tra le tante della città.
Come molti hotel di Bangkok anche il nostro è a gestione cinese, e nella grande hall notiamo che si stanno allestendo i preparativi per il capodanno cinese ormai prossimo. Compiliamo velocemente i freddi e formali questionari per il check-in, e prendiamo possesso di un’ampia camera con moquette e arredamento occidentale. Dalle grandi finestre sigillate si intravede, parecchi metri più in basso, la piscina, e in lontananza la grande ragnatela di binari della stazione ferroviaria.
Decidiamo di aggredire la giornata nonostante il fuso orario e la stanchezza si facciano sentire, in fondo sono appena le dieci e trenta del mattino. Il sole ora è alto nel cielo e l’aria si fa sempre più infuocata.
Gennaio per la Thailandia è probabilmente il mese più freddo, questo non significa però che durante il giorno le temperature non possano raggiungere tranquillamente i 30-32°C. Oggi è domenica e fortuna vuole che sia l’unico giorno della settimana, insieme al sabato, durante il quale si svolge il mercato di Chatuchak, considerato il più grande e famoso mercato coperto dell’intera città. Decidiamo che sarà la nostra prima meta.
Scopriamo molto in fretta che camminare per la strada è un’impresa praticamente impossibile, veniamo infatti insistentemente fermati dai guidatori di tuk-tuk che ci assillano con proposte alquanto dubbie.
Sembra infatti che il loro unico scopo non sia portare i clienti a destinazione, ma coinvolgerli in un grande tour per i negozi di amici e conoscenti che, in cambio, offrono loro buoni carburante. Riusciamo ad evitarne alcuni, ma non tutti, così sacrifichiamo mezz’ora del nostro tempo con un passaggio alla fermata dello skytrain. Nella grande bolgia di una città in continua crescita, e soffocata dai gas di scarico dei veicoli a motore, sembra che la costruzione dello skytrain, entrato in servizio nel 1999, abbia diminuito di circa 300.000 unità al giorno i mezzi circolanti.
Tuttavia, ci rendiamo subito conto di quanto il paragone con la comodità e l’efficienza delle linee metropolitane di altre grandi capitali del mondo sia quanto meno fuori luogo; due sole linee non possono infatti sopperire ai bisogni di una città maledettamente grande e con oltre dieci milioni di abitanti per l’intero agglomerato urbano.
Per quanto la forma archetipica sia praticamente la stessa, sento una profonda differenza tra questi vagoni ultra moderni, che sfrecciano all’altezza dei grattacieli, e i vecchi locomotori che allo stesso modo scivolano tra i romantici palazzi parigini.
Dall’alto della fermata il mercato ci appare già in tutta la sua vastità e il suo splendore, e una distesa di bancarelle a perdita d’occhio fa da argine al fiume umano che vi scorre nel mezzo. Come in tutti i paesi in cui il clima è caldo per tutto l’arco dell’anno, anche qui la vita si svolge prevalentemente all’aperto e così bancarelle e carretti che cucinano cibo si mescolano agli altri venditori; oltre ottocento espositori si danno regolare appuntamento qui tutte le settimane. Varcata la soglia d’ingresso si viene immediatamente proiettati in quella che mi sento di definire la dimensione asiatica; è una bolgia di colori, odori e suoni, in cui poesia e orrore si mescolano facendo risultare difficile il distinguo. A fianco di colorati banchi di spezie, vestiti e altre merci, avari commercianti cinesi espongono con noncuranza esemplari di animali, alcuni dei quali morti, probabilmente a causa della canicola che si viene a creare tra gli stretti vicoli del mercato. Non è difficile perdersi nei suoi meandri, e ci rendiamo ben presto conto che la soluzione migliore è quella di lasciarsi guidare dall’istinto; sarebbe del tutto inutile pensare di visitare con una logica qualcosa che una logica non ha! Usciamo dai tentacoli del mercato nel tardo pomeriggio. La città, che al mattino sembrava tutto sommato vivibile, nel frattempo si è trasformata in un inferno, dove fiumi di automobili multicolore procedono pochi metri per volta. Ora iniziamo a sentire la stanchezza del viaggio, e non esagero se dico di essere praticamente sulle ginocchia, ma la regola è quella di tenere duro almeno fino a sera per abituarsi il prima possibile al nuovo orario. Il taxi sul quale saliamo si divincola nel traffico e in poco meno di venti minuti ci deposita a Siam Square.
Quest’ultima può essere considerata l’area più esclusiva della Bangkok di inizio millennio, dove si concentrano numerosi complessi commerciali e tecnologici all’avanguardia, raffinati ristoranti, e famose discoteche. Anche in questo angolo di città la strada è un brulicare incessante di vita, noi vaghiamo senza fissa meta tra le migliaia di negozi dei giganteschi e impersonali centri commerciali, e ho l’impressione che forse in fondo sia proprio quest’ultima la caratteristica che li trasforma in mete ambite. Prima di abbandonare queste cattedrali del commercio decidiamo di concederci il nostro primo massaggio Thai; un’ora in cui piacere e dolore si fondono fino quasi a perderne i confini. Il massaggio thailandese tradizionale, da non confondersi con quello che viene eseguito nei più o meno nobili postriboli seminati ad ogni angolo di Bangkok, è stato tramandato per millenni dai monaci buddhisti all’interno dei templi. La pratica ha conservato così nei secoli la sua eccezionale sequenza di manovre e stiramenti necessari a rimettere in moto le energie del corpo. La stanza è grande, in penombra, e soltanto sottili tende dividono le postazioni da una o due persone; veniamo fatti sdraiare per terra, su bassi materassi in stile giapponese, poi i massaggiatori iniziano dal basso quello che a tratti assume le sembianze di un vero e proprio rito. Mentre il massaggiatore, non tralasciando nemmeno una parte del corpo, sale fino ad arrivare alla testa, momenti di energica pressione sui punti considerati vitali si alternano a battiti, percussioni e delicati sfioramenti. Alla fine del trattamento l’impressione è quella che il massaggio ci abbia rivitalizzato, ci sentiamo stropicciati certo, ma sicuramente anche più leggeri di prima, e questo dopo quasi quarantotto ore senza dormire non è poco! Tutto questo camminare e vagare ci ha messo decisamente fame, e dopo il massaggio ci sentiamo pronti per l’ultima fatica della giornata.
All’interno di questi palazzi illuminati dalle fredde luci artificiali al neon è difficile rendersi conto del tempo che passa, ma quando mettiamo piede fuori però ci accorgiamo che il cielo si è già fatto scuro. Siam Square nel frattempo ha perso buona parte del suo movimento, taxi e tuk-tuk sono ora appostati come famelici predatori, ma non sembra abbiano troppa voglia di lavorare. Scopriamo inoltre che insieme alla luce del sole si sono spenti anche i tassametri, ed ora la regola principale è contrattare; il prezzo in realtà sono solo loro a farlo perchè il cartello dei tassisti sembra decisamente unito e compatto.
Bangkok – Thailandia – 13 gennaio 2008 “È con in faccia l’aria calda e umida della sera che ci dirigiamo verso Khaosan Road. Il tuk-tuk corre lungo la strada che, illuminata dalle luci della sera, appare come un enorme luna-park; le gigantografie del Re illuminate a giorno ci scivolano a fianco, mentre con il gracchiante rumore del motore che ci riempie le orecchie facciamo lo slalom tra le macchine.” (Tratto dal taccuino di viaggio) Khaosan Road deve la sua fama al crescente numero di alloggi low cost che nel tempo si sono sviluppati qui, è insomma diventata più che altro uno stile di vita; è per lo più frequentata da turisti di passaggio tanto che c’è chi sostiene che a Khaosan non si viva, si transiti. Gli aspetti che ne convengono non sono di certo tutti positivi: la strada è sporca, chiassosa, gonfia di bancarelle che fanno a gara per accalappiarsi i clienti, ma l’aspetto positivo principale invece è che la zona viene volutamente tenuta libera dalla prostituzione. Dopo il primo stordimento dovuto alle insegne ammiccanti, e al frenetico via vai, ci lasciamo catturare dall’atmosfera festosa. Mangiamo noodles con germogli di soia cucinati su di una rustica piastra ambulante, mentre invece ci sediamo in uno dei tanti bar a bere una birra, e a fermare lo sguardo sui tanti passanti e sul mondo che ci circonda.
Penso che sia bello ogni tanto fermarsi a guardare di quanti colori è la razza umana, certo, una giornata è un po’ poco per giudicare, ma l’impressione in questo preciso istante è quella di essere finiti al festival del kitch. L’ostentazione di simboli totalmente privi di bellezza sembra che qui sia cronica. Pensando alla Thailandia come il paese dell’Indocina che ce l’ha fatta mi ero preparato chissà perchè a trovarmi di fronte a tutt’altro mondo; non certo una Singapore dove persino masticare un chewingum per strada è vietato, ma neppure una bolgia del tutto simile alle strade di Città del Messico. È forse però nell’umanità che questa gente sprigiona, con la sua vitalità e la sua confusione, la vera ricchezza che porta con sè.
Ci addormentiamo con il rumore di fondo della metropoli che ha tutt’altre intenzioni rispetto a noi.
TRATTO DA “ORME – Sui sentieri del mondo” http://ormelibere.Blogspot.Com