Khartoum. Viaggio di lavoro ma non troppo
Fuori assieme ai circa quaranta gradi di temperatura attende una Terios con un autista alto e distinto, si chiama Sceik Turabi e sarà con me per tutto il tempo che sarò giù. Ci dirigiamo verso l’albergo , il traffico, non dissimile da quello del Cairo o di Damasco è altrettanto convulso e caotico, solo che la velocità media è quì ancora più bassa, spesso a passo d’uomo fatto dovuto alla circolazione nelle vie di tutti i mezzi di locomozione immaginabili . Si va dal tizio a cavallo del somaro alle ronzanti motocarrozzette taxi a tre ruote tipo Ape, dagli asmatici camions Bedford e Austin, gli uni clonazione degli altri e tutti adibiti al trasporto civile, ai minibus con le porte sempre aperte pronti a caricare passeggeri ovunque, dai carri a trazione animale o a spinta, fino ai trattori con rimorchi, senza dimenticare cicli e motocicli . La parte da leone la fanno le utilitarie Hunday Atoz, forse preferite perché sono alte all’interno. Ne avrò un a conferma quando salirò su altre vetture, i sudanesi sono notoriamente alti di statura , diversi tetti portano internamente i segni del continuo strofinio degli “imma” i tipici turbanti.Sudanesi Altro problema sono i marciapiedi che in molti casi , tentano , senza riuscirci , di assurgere a tale ruolo.
Fermo ad un semaforo leggo su un lungo muro la scritta in inglese centro culturale tedesco, il collega mi conferma che è un punto d’incontro importante per la comunità occidentale residente, praticamente il più frequentato assieme a quello francese intitolato a Frédèric Cailliaud , uno dei primi geologi ad esplorare il misterioso Khush come era anticamente chiamato il Sudan alla ricerca delle miniere d’oro dei faraoni. Chiedo se abbiamo un centro anche noi . C’era una volta, come nelle fiabe, è la laconica risposta. E dire che la promotion commerciale ha le sue prime radici in quella culturale, ne avrò una diretta conferma nel constatare più tardi in fiera lo stand di questo istituto con un ampio programma di promotion linguistica e di assistenza al settore archeologico locale quest’ultimo appena gratificato dal rilevante ritrovamento ad opera dell’archeologo Charles Bonnet di sette stupende statue di granito , fra cui il busto di Taharqa , il celebre faraone nero .In fiera, avrò modo di notare che gli occidentali non parleranno d’altro, dimenticando spesso gli affari. L’albergo è il Grand Holiday Villa sul lungo Nilo, un vecchio hotel in stile coloniale a un piano con oltre un secolo di vita completamente restaurato. E’ quasi contiguo alla residenza del primo ministro, la vecchia sede ufficiale del Governatore britannico Gordon, soprannominato il Cinese per le sue conquiste in Cina, con ampi porticati e l’imponente scalinata dove questi fu ucciso. Dalle travolgenti truppe Mehdiste . Era il 26 gennaio del 1885 due giorni prima del suo compleanno e dell’arrivo dei rinforzi. .
La stanza assegnatami si apre sul balcone principale proprio sopra l’entrata dell’hotel sulla corniche della Nile Avenue ombreggiata da imponenti alberi di tek e sotto la quale scorre l’ultimo tratto del Nilo azzurro. La stanza ha ben quattro porte su differenti uscite , previdenti gli inglesi ! Fino a sera sono libero da impegni così esco subito per le prime esplorazioni, la riva è ripida ma vi si può accedere attraverso una scalinata scavata nella terra con su una logora moquette rossa. Un pontone è ancorato davanti, Sulla riva opposta vi è l’estrema propaggine dell’isola di Tuti. Sono solo sul pontone e mi arrischio a fotografare il tramonto. Sto un po’ attento in quanto non ho ancora il permesso indispensabile per fotografare, quando dietro di me spunta una persona nera come l’ebano, eppure la scalinata la tenevo sott’occhio.Il mistero di questa improvvisa apparizione si scoglie quando alle mie spalle scorgo una botola aperta sul pavimento del pontile dalla quale spunta una scala di legno . Il tizio evidentemente sbucato da lì , mi chiede piuttosto seccato cosa stessi facendo, la mia risposta in arabo “ é voglio fotografare il pesce”, infatti una lenza fissata a una bitta del pontile dondolava sulla corrente. Interdetto dal mio arabo, risponde che è vietato fotografare poi passa ad una fila di informazioni sul mio conto che comprendo ma alle quali rispondo indicando ancora una volta la lenza e ripetendo la parola samak ,pesce in arabo. Punto nuovamente la piccola Olympus sul punto in cui questa sparisce nell’acqua senza però scattare. Non dice niente , mi lascia però passare senza altro dire sulla trave che collega la riva al pontone per rientrare in albergo. Meglio non sfidare le regole locali ,davanti all’hotel stazionano in permanenza parecchi militari annoiati ai quali è meglio non dare occasione di lavoro! La sera termina con una cena fra colleghi al ristorante interno dell’hotel , tutto in perfetto stile coloniale, siamo pochi e tutti occidentali serviti da camerieri neri con guanti bianchi, mi viene in mente il film “ La mia Africa”, l’atmosfera è quella snob del film solo che qui è ormai fuori luogo tempo come il vecchio jaz diffuso a bassissimo volume. All’alba dell’indomani una luce “ sabbiosa” illumina sia la stanza che l’orizzonte sul quale spicca il colore verde dei campi di erba medica e fave dell’isola di Tuti, Sulle sue sponde si vedono contadini e pescatori con le tipiche barche mosse con la pertica. Una feluca è ormeggiata al pontile. Il lungo Nilo è deserto, rare macchine passano a pochi metri dall’acqua che a sua volta scorre cupa e silenziosa. Decido di aspettare con largo anticipo l’autista davanti all’hotel .Noto un uomo salire e scendere le scale con un secchio, riempirlo dal fiume e gettare l’acqua su alcune macchine parcheggiate, per poi asciugarle con un pezzo di stoffa . E’ il tizio del pontone. Mi osserva fra lo stupito e il torvo, Ora sono in completo blu e cravatta e non più in maglietta . Arriva l’autista , passo all’attacco e in inglese gli chiedo di domandargli che tipo di pesce prende .Ascolta sul trasecolato la traduzione di Turabi e risponde “ Bolti” (pertica) , chiedo allora all’autista, quale fosse il più grande che avesse preso , spalanca le braccia, poi, sempre sbracciandosi passa a spiegargli che questo “ Khawajda (straniero ) indicando nella fattispecie lo scrivente, è matto, vuole fotografare i pesci quando gli altri khawadja cercano invece di riprendere di nascosto le persone e le coppie che stanno sedute sul muretto , e, non ancora convinto del tutto passa a chiedere altre informazioni sul mio conto. L’autista lo informa che sono un direttore quì per la fiera. Sorride, apro la 24 ore e gli metto in mano una manciata di penne promozionali per la K.I.F., si gira attorno e nota che i ragazzi e i venditori ambulanti in permanenza parcheggiati sul muretto lo osservano con bramosità , allora spontaneamente allunga ad ognuno una penna si ferma quando gliene resta una sola, due dei presenti sono però rimasti senza. Riapro la borsa e colmo la lacuna. Grande sorriso, mi tende la mano , gli chiedo il suo nome Butros risponde e, torna a lavare macchine, anzi a rigarle visto che è più melma che acqua quella che usa, per non parlare dello straccio con il quale le asciuga. La giornata inizia andando al comprensorio fieristico ubicato sempre sul lungo Nilo e di recente costruzione. I lavori del padiglione Italia sono in ritardo, li seguo personalmente,presentazioni, sdoganamenti , pagamenti,solleciti , incontri preliminari e quando esco e tardi . Il tempo di cambiarmi e via per la prima cena ufficiale in casa del segretario commerciale dove trovo , oltre ad una ottima cena con vino , alcuni connazionali che compongono la comunità italiana , presente Padre Jim del Don Bosco ed un altro padre comboniano venuto dalle diocesi del sud. E una serata di full immersion sul Paese condensata in poche ore , che nessuna guida può compendiare. La conta dei connazionali residenti è presto fatta, incluse le due presenze femminili saltuarie che gestiscono due campi in tenda per turisti fuori Khartoum. L’indomani trovo Butros davanti al muretto del lungo Nilo, accanto a lui ancora allamato alla lenza un bolti di oltre tre chilogrammi e mi invita a fotografarlo dicendomi che sul pontile ne ha un altro più piccolo, lo ringrazio ma non ho tempo mi aspettano in ambasciata, chiedo però dove abita, per poter farlo al ritorno, al che mi indica sempre il pontile .
Il pontile in questione è un parallelepipedo galleggiante di circa 9 metri x 3 senza altro ingresso che la famosa botola. Niente oblò , niente prese d’aria. Guardo la gomena d’acciaio che lo trattiene , un vecchio cavo di ascensore direttamente legato da una parte ad una bitta dall’altro ad un palo di illuminazione stradale sulla Nile Avenue , appena sotto lo sportello per gli allacciamenti alla rete. Ogni protezione o coperchio è del tutto mancante e dal foro si vedono bene i collegamenti dei cavi elettrici ricoperti con del nastro adesivo cotto dal sole. Un pontone elettrico! Se l’acqua per qualche motivo dovesse raggiungere il livello della strada e arrivare ai cavi, appena mezzo metro dal suolo Butros farebbe la fine dei condannati alla sedia elettrica. Devo andare, la Terrios serve per un viaggio a Old Dongola, così Turabi ha portato la sua macchina personale, una vecchio taxi Toyota Cressida . Impossibile rendere l’idea della vettura, praticamente è stata ricostruita più volte, le diverse botte che ha ricevuto sono state sempre ribattute e mano e verniciata sempre a mano, la forma originale è un po’ aleatoria, in compenso la macchina sfodera quattro copri polvere fiammanti trattenuti da fascette di plastica per sicurezza tanto sono preziosi. L’interno, i sedili, il pianale sono rivestiti con coperte di lana , il cruscotto pieno di interruttori in sostituzione di quelli originali sempre al loro posto ma del tutto sfiniti dall’uso . Così per suonare il claxon ora si fa contatto con un filo direttamente su una piastra fissata vicino allo sterzo, le frecce si azionano con un devio del tipo una volta usati sulla Topolino messo al centro della plancia, dimenticavo una luce rossa fissata sotto il cruscotto che si accende ogni qual volta si tocca il freno, e segnala che tutto è ok. Segnala, non garantisce.! A volte la chiave di accensione casca fra i pedali ma il motore, il secondo installato , non si spegne e per fortuna il blocca sterzo non entra in funzione! Il problema si presenta all’ingresso della Fiera, la macchina non può entrare non è corpo diplomatico come la Terios . Risolvo il problema facendomi dare il permesso VIP che mi compete e lo fisso sul parabrezza. Sceik Turabi è felice, può entrare e uscire e soprattutto parcheggiare accanto alle vetture delle altre ambasciate. E così sarà per tutta la durata della fiera, al punto che pochi giorni dopo la vettura era nota a diversi posti di blocco e si passava ovunque senza problemi anche dopo le 22 quando nella capitale scatta una specie di coprifuoco con militari armati ad ogni incrocio nevralgico. Userò sempre questo taxi con il quale non sarò mai fermato, ne mai mi verrà richiesto di mostrare un documento, sia in macchia che a piedi per la vie della città o altrove.Un curioso episodio mi fa riflettere su come è ancora presente un certo influsso coloniale. Nel tentativo di passare per primo in un incrocio Turabi si incastra con una altro autista graffiando ambedue le auto.. Il vigile li manda a spiegarsi fra di loro su un marciapiede dopo aver fatto rimuovere le macchine senza indugio e senza aver chiesto nessun documento. Per un po’ li osservo gesticolare animosamente, poi indico al Turabi il mio orologio per rammentargli il mio appuntamento, al che tutti e due cessano di discutere si salutano e ognuno riparte con le macchine graffiate. Per strada chiedo cosa avessero concluso, niente risponde , solo che non si può fare attendere un khawadja ! ancora ci penso su.! La nostra sede diplomatica che è attrezzata secondo le ultime disposizioni in materia di sicurezza sembra un fortino e si riconosce da lontano per la fila di 4×4 parcheggiati davanti e protetti da una barra d’acciaio .Si trova nella via n.39. A Khartoum le vie , tranne alcune del centro non hanno nome ma numeri, reperirle è semplice, basta conoscere i numeri … in arabo!. Vi definisco nei giorni precedenti l’apertura della K.I.F gli ultimi dettagli conclusivi di un complesso lavoro iniziato a Roma diversi mesi prima. L’evento fieristico che rappresenta la più importante vetrina nonché appuntamento internazionale del Paese , è occasione di business per molti, di curiosità e divertimento per tutti, poveri e meno poveri. Una zona della fiera è riservata alla vendita al dettaglio molto simile ad una bazar, impenetrabile durante le ore di apertura. Finalmente, arriva il giorno dell’inaugurazione, passato il quale sarò più libero. La sera è tutto pronto, tutti in fila davanti allo stand, Ambasciatore, fresco di accreditamento nel Paese, la numero due appena scesa dall’aereo al suo primo incarico all’estero, i responsabili delle nostre aziende partecipanti, il sottoscritto e tutto lo staff al completo. La Cerimonia d’inaugurazione è presenziata dal presidente della repubblica sudanese Omar El Beshir che, attorniato da un codazzo di ministri , gorillas, fotografi si ferma davanti allo stand Italia, i soliti auguri di proficuo lavoro, e via verso il padiglione successivo.
L’indomani inizio con i primi incontri di lavoro programmati, con la visita ufficiale al museo nazionale che ha appena subito un furto ed è chiuso al pubblico .Visito con il direttore le varie stanze. Edificato nel 1965 sotto l’egida dell’Unesco per salvare i monumenti nubiani che altrimenti sarebbero stati sommersi , assieme a quelli di Abu Simbel in Egitto con la costruzione della diga di Assuan. La sede struttura ad due piani , stile old english ,si affaccia sul lungo Nilo quasi alla confluenza dei due Nili. Contiene i maggiori reperti delle varie civilizzazioni susseguitesi nel tempo, ceramiche risalenti alla civiltà Kerma, La testa in bronzo dell’imperatore romano Augusto rinvenuta a Meroe, e le ricostruzione dei templi di Buhen, Semna Est e Semna Ovest, gli ultimi due elevati in onore di Thutmosis III. Stupendi gli affreschi policromi dei faraoni che un ingegnoso sistema a rotaie permette di ricoverare in caso di pioggia. I gioielli e i reperti in oro di epoca faraonica sono stati temporaneamente chiusi in cassaforte. Il museo ha bisogno di tutto ma soprattutto di un restauro così passo il resto della mattinata per i contatti del caso con ditte che hanno già all’attivo analoghe esperienze nel nord Africa. Di cui una è presente nella collettiva nazionale. Il direttore ne approfitta per avanzare una richiesta per una nostra presenza istituzionale nel campo della ricerca archeologica più consistente e significativa soprattutto alla luce dei continui ritrovamenti che le sabbie del paese dei tre Nili continuano a riservare. Passo quindi al museo etnografico sito in Sciara El Giamaà , antica sede del club dei militari inglesi che vi fondarono nel 1945 il Dipartimento delle Antichità. Contiene, assieme a molta polvere storia e tradizione delle varie tribù sudanesi, lascio l’invito al direttore, assente , per la giornata d’Italia. Turabi scova un altro museo , piuttosto malridotto sulla fauna del Sudan quasi di fronte ad un chiesa che ospita a sua una collezione di preziosi reperti sul periodo coloniale inglese, fra cui i busti dei diversi governatori britannici che si sono susseguiti prima dell’indipendenza del paese. Nel parco vi sono alcune vetture d’epoca appartenute al presidente Numeiry.Una rapida visita al palazzo del popolo, nei luoghi ove consentito mi permette di vedere che è rimasto pressoché come gli inglesi lo lasciarono. Su consigli del Turabi non entrerò nella grande moschea.
Ogni sera mi attende la solita quotidiana marea umana che sfila interrotta davanti al padiglione e gli incontri con gli operatori turistici e commerciale che trovo molto più preparati e operativi di quanto mi attendessi. Avrò modo di costatarlo durante in diverse occasioni di comuni incontri di lavoro.A fine manifestazione le registrazioni di lavoro saranno oltre 600. Per evitare il gran caldo l’orario di apertura è dalle 17 alle 23. Nei 15 giorni di apertura della rassegna il Sudan sfilerà davanti al padiglione con tutti i suoi stridenti contrasti, dall’impresario con il computer portatile al contadino con tanto di spada al fianco, dalle scolaresche di bambini alle delegazioni di funzionari e militari. Seguono due giorni fitti di incontri ufficiali presso l’Hilton , in fiera , Ambasciata e vari Ministeri. Nei quali vengono esaminati le varie tematiche collegate all’evento commerciale, dal turismo alla ricerca scientifica, il tutto per un miglior radicamento del nostro “Made in Italy “. Venerdì primo giorno off, avviso tutti che non ci sono e parto con Turabi alla scoperta della città satellite di Omdurman. Già caotico centro carovaniere e roccaforte del Mehdi il predicatore musulmano simbolo della rivolta sudanese contro l’occupazione coloniale anglo egiziana è oggi sede di diversi suk fra cui quello dei dromedari più vasto in Africa. Il nome è intrigante, l’entrata un po’ meno , vi si accede traversando un vecchio ponte in ferra ad arcate curve costruito dagli inglesi proprio sulla confluenza dei due fiumi, chiedo al Turabi , che ha capito che non sono il solito turista di farmi vedere quello che ritiene possa interessare un Kawadja, così con una rapida marcia indietro verso il ponte , piglia una pista in discesa che porta verso dei resti di fortificazioni e bastioni , piuttosto malridotti che servivano per ostacolare il passaggio dei battelli inglesi diretti a Khartoum , bombardandoli . Il luogo , pieno di meandri paludosi , rende l’idea delle difficoltà affrontate per poter portare le cannoniere a difesa di Khartoum e l’asprezza dei combattimenti sostenuti poco più di un secolo fa. Era il 1899.
Da lontano vedo un assembramento di persone, chiedo cosa è , è il mercato del pesce risponde, pochi minuti dopo siamo in mezzo ad un inimmaginabile guazzabuglio di colori formata da variopinte ghalabiye, i tipici vestiti nubiani, fumosi risciò , così come vengono chiamati gli omironzzanti tricicli Ape, tavolini di tè con il braciere accesso e pesci , pesci di ogni grandezza , dal quintale ai pochi grammi stesi su delle stuoie. Alcuni vengono squamati sul posto direttamente dagli acquirenti una volta acquistati, per farlo usano spesso il Sikkin , la temibile lama portata abitualmente sotto la veste legata all’avambraccio sinistro e dall’uso antichissimo da parte di molte tribù locali. Altri pesci di una specie a me sconosciuta, vengono invece subito eviscerati e salati per il fusihk un tipico piatto fermentato , altri ancora preparati per la vendita alle friggitorie che Turabi mi dice essere pure vicine. Direttamente dal produttore, il Nilo al consumatore, tutto nello spazio di poche centinaia di metri dalla riva del fiume dove sono ormeggiate le tipiche barche dei pescatori . L’africa è qui presente con tutti suoi sgargianti colori, acuti odori, con la sua primordiale essenza fatta di quelle poche ed vitali necessità che la vita non può fare a meno, la ricerca del cibo prima di ogni altra. Grossi uccelli trampolieri che si contendono le interiora dei pesci e la sabbia che brilla per via delle squame completano un quadro veramente singolare. Proseguendo sulla riva senza prendere la strada asfaltata che la costeggia, si incontrano sparsi fra piccoli campi coltivati a erba medica sottratti alle vaste macchie di piante di papiro, i cantieri dove vengono costruite le barche con lunghe assi ricavata dal taglio longitudinale dei tronchi di tek provenienti dal sud del paese. Anche qui tutto e primitivo, sgorbie e seghe a mano sono gli unici attrezzi, gli incastri fanno la parte del leone, i chiodi ,poco usati, vengono pure fusi sul posto. Con gli scarti della lavorazione vengono costruiti ceppi per macellai e altre oggetti , quello che rimane trasformato in carbone da ardere.
Passo a vedere le friggitorie , sono degli antri affumicati dove in enormi vasche piene di olio bollente, nero come la pece vengono gettati i pesci , poi appesi a scolare ed infine pressati, legati in pacchi e portati in città. Mi chiedo quale sia il tasso medio del colesterolo nei sudanesi Iniziano le prime abitazioni ed il quartiere Abu Ruaf, con le sue fabbriche artigianali, letti metallici, cancelli e portali in ferro battuto e dipinti in varie tinte, poi mobili in legno., anch’essi coloratissimi. Attraversiamo il quartiere cosa possibile perché è venerdì altrimenti occorrerebbero delle ore, per andare a vedere la fabbrica dei mattoni crudi, una altra delle vitali necessità , il riparo. Sempre sulla riva il limo del Nilo viene estratto con pale e poi messo a seccare in invasi di legno predisposti a formare dei mattoni di uguale misura che una volta seccati, vengono cotti in forni, costruiti con gli stessi mattoni. Tutto il residuo di produzione, carbone, mattoni rotti , malriusciti o troppo cotti, viene ributtato nel Nilo e tutto torna limo.
Il tempo vola e Turabi consiglia di vedere il Souk Libia e quello dei dromedari in quanto sempre di venerdì si conducono le trattative più importanti e le merci sono abbondanti. Lasciamo la macchina alla quale Turabi ha tolto il filo della bobina , come antifurto, e usiamo i risciò per muoverci più spediti e senza problemi. Il Souk Libia prende il nome dal fatto che la merce venduta proviene dalla Libia, diversi camions hanno infatti targhe libiche e si distinguono perché sono nuovi, portano tutto quello che viene prodotto in quel Paese, riconosco i mobili, le batterie della Tajura factory , l’intera gamma degli oltre 500 articoli di plastica prodotti dalla Surman plastic Co., insomma vi è la Libia e il mercato non potevo chiamarsi altrimenti. Non è pero interessante per gli occidentali che preferiscono quello dei dromedari e quello successivo, il grande suk coperto dove reperire pelli di coccodrillo, di zebre, zanne e oggettistica d’avorio, d’argento ,rame e artigianato di ogni genere, cianfrusaglia cinese, nere statue di ebano provenienti dal sud a testimonianza che una parte del Paese si trova in Africa nera. ! IL mercato dei dromedari è veramente vasto, ma mi interesso più ai camions che li trasportano e che presentano cabine e cassoni completamente rifatti e decorati in legno come vagoni ferroviari.Di epoca antica . Segue la zona dove vengono fabbricate e vendute le selle e le pastoie per questi animali. Più avanti ancora viene il mercato della carne, una estesa struttura formata da centinaia di banconi con carni e crani ad indicarne l’appartenenza appese a giganteschi ganci , balenii di lame su consunti ceppi di tek, sabbia intrisa di sangue, il tutto fuso in una unica infernale visione e un solo forte e appiccicoso odore dolciastro spalmato ovunque da un’aria calda e sabbiosa come sempre sopra un cielo sempre sgombro di nuvole. Passiamo a vedere il Suk Amagrib dove viene prodotto tutto quello che si può fare con le fibre vegetali, dai cesti di ogni tipo e uso , alle stuoie , passando per i tipici letti sudanesi. Alcuni sono dei veri capolavori di arte moderna. Sono le quattro del pomeriggio e ripigliamo la macchina per andare a vedere le danze dei Dervisci presso la Qubba , il sepolcro di Sceik Hammadi El Nil, famoso predicatore di una Tariqua (corrente) sufista . Siamo lì prima del tramonto ora in cui ogni venerdi , diversi discepoli di questi confraternita, ancora forte in Sudan si riuniscono per eseguire una particolare forma di preghiera che reputano li avvicini alla comunicazione con Allah più della comune preghiera. Per farlo danzano in circolo e ruotando su se stessi, fino a raggiungere una stato di estasi. Avendoli già visti nella loro famoso complesso di Sama’ Khana nella Cittadella al Cairo noto che qui l’ambiente e molto differente e lontano da ogni forma di spettacolo e che il loro legame con la dottrina del Mehdi di cui all’epoca costituivano le maggiori forze combattenti resta qui molto sentito e palpabile, diversi bambini provano e riprovano le vorticose piroette. La famosa Qubba del Mehdi non è distante , ma rimandiamo la sua visita ad un altro giorno per avere più tempo. La sera si tiene presso la Residenza dell’Ambasciatore il ricevimento per la Giornata d’Italia, e un mio ritardo sarebbe da licenziamento in tronco , gli imprevisti del traffico sono sempre in agguato.
L’occasione è una nuova preziosa fonte di conoscenze ed informazioni sul Paese, sulla sua vita sociale ed economica, il Ghota di Kartoum è presente quasi al completo. Qualcuno degli ospiti occidentali esce un po’ allegro , per fortuna che vi sono gli autisti , data l’ora i posti di blocchi fermano chiunque e un controllo sarebbe il colmo dopo che le zanzare presenti ancor più insistentemente per via delle luci nel giardino nonostante i piretici e le salviette di Autan non si sono lasciate perdere l’occasione per succhiare loro un pò di alcol .
L’indomani è prevista una ricognizione degli alberghi della città , inizio subito con l’Acropole, visto che ho già preso conoscenza del Meridien , del Palace e dell’Hilton il cui direttore è un tedesco appassionato sub.Alcuni hotel come il Sudan, sono requisiti dai cinesi, fra i primissimi partners commerciali del paese. Segnalato da più parti come punto d’incontro degli occidentali in transito nel Paese questo noto hotel, gestito a conduzione famigliare da due fratelli greci, funge soprattutto come agenzia di servizio, monopolizzando lo scarso traffico turistico che finisce con l’esaurirsi in ripetitive informazioni e circuiti sempre uguali. Una cordiale ed onesta intervista rivela dati che, si supponevano migliori, le presenze , molte delle quali ripetitive, non superano le trecento unità annuali che, sommate alle altre presenze accertate non sono, al momento confortanti per condividere il previsto programma a favore dello sviluppo turistico del paese. Attorno all’albergo, che sorge in una zona non asfalta a ridosso di Suk el Frangi dove si trovano negozi di souvenirs, agenzie turistiche e una officina meccanica specializzata per i rari turisti con veicolo al seguito. In una vetrina noto un Sikkin che mi attira particolarmente, sto per acquistarlo quando Turabi mi blocca, invitandomi a salire in macchina. La direzione è un quartiere dove questi vengono fabbricati, quelli autentici e non copie per turisti.
Le strade di questo quartiere , grande come una città , si aprono in un caos terrificante di gente e rumori, pieno soprattutto di ferraglia e di legno , è il quartiere delle botteghe artigianali, uno dei tanti cuori dell’industria locale, dove vi si costruisce di tutto, dalle canalizzazioni per l’aria condizionata in lamiera zincata, alle caratteristiche pentole tronco coniche in alluminio e tutto il ciarpame domestico immaginabile collegato, sikkin inclusi. Esco da un fabbro con quattro tipi autentici uno più bello dell’altro, non sapendo quale scegliere li ho presi tutti al costo di poco superiore a quello chiestomi nel negozio. E poi qualcuno continua a criticare l’uso delle guide! La ventola che li ha forgiati è una turbina d’auto interrata ed azionata a mano tramite una ruota di bicicletta. . Anche qui traspare ancora una volta l’essenzialità e l’ingegnosità dell’Africa,dove tutto serve e niente va e può andare perso. Rientrando, ci imbattiamo in un ingorgo pauroso Turabi in attesa che la situazione si decongestioni un po’ mi invita a prendere un tè presso un circolo sulle sponde del Nilo. Siamo nel quartiere universitario diverse giovani coppie passeggiano fian a fianco. Nel club sono posteggiati alcuni aerei in disuso, uno di questi serve da dormitorio per il guardiano, non sa che a venderlo ad appassionati ricaverebbe una piccola fortuna. E un raro modello di Dornier da otto posti e non è cannibalizzato! Visto il mio interesse per il passato Turabi mi porta allo exYacht Club dove si trova la El Malik (il re) una delle cannoniere inglese usate dal Kirtchener che furono portate smontate a pezzi e a dorso di dromedari e successivamente rimontate , ora parcheggiata sull’erba in mezzo ad altri scafi coloniali vestigia tutti di un passato piuttosto recente e ancora imbarazzante . Una mattinata viene dedicata alla visite delle librerie della città in cerca di statistiche aggiornate, guide e testi illustrativi. Il risultato non particolarmente ricco specie per i testi in lingua inglese comunque , per quanto riguarda guide e letteratura turistica è sufficiente quella reperibile all’Acropole. Una ricerca non va comunque sconsigliata, spesso si trovano interessanti volumi o rare stampe di epoca coloniale. Vicino alla stazione noto alcune curiose abitazioni di mattoni rossi con il tetto conico che sembrano tratte da un villaggio del centro Africa. Turabi mi spiega che sono state appunto costruite per i ferrovieri, e dato che ha un parente che ci vive mi porta a fare una visita . L’interno è ancora una volta l’essenza della funzionalità e praticità, con tanto di minuscolo orto. Se ne trovano parecchie lungo e a fianco la linea ferroviaria che va ad Atbara e sembrano delle casette per gli gnomi.In mezzo al deserto.
Secondo venerdì.. Sono nuovamente a Omdurman per la visita del monumenti più significativi del posto, la tomba mausoleo del Mehdi la cui cupola argentata si vede da lontano.Caratteristica di Omdurman come di Khartoum è l’assenza di edifici a più piani.. Nella capitale a superare questo limite sono per ora pochi alberghi, l’ Hilton, un parallelepipedo in stile sovietico, il Meridien , l’Africa a forma di avveniristica torre al posto del vecchio zoo e in costruzione da parte del governo libico, più qualche altro edificio fra cui l’ex ambasciata Usa sparsi qua e là a conferma del primo impatto visto dall’aereo in fase di atterraggio .
Vengo autorizzato ad entrare, ovviamente scalzo e a fotografare la tomba. Un anziano guardiano mi fa da guida dopo aver visto il mio permesso e mi mostra alcuni oggetti appartenuti a questo importantissimo personaggio il cui carisma è ancora molto sentito, nonostante un secolo sia già trascorso. La tomba, sobria come tutti i monumenti islamici è ricoperta di legno intarsiato . L’ambiente è talmente religioso che rinuncio a scattare, gesto che appare molto apprezzato, al punto che un’altro dei guardiani presenti mi chiede la macchina e esegue due scatti, poi me la riconsegna. Apprendo poi che la Tomba del Mehdi contiene solo reliquie, il corpo del Mehdi è stato infatti ridotto in cenere nella caldaia di una nave quando il generale Horatio Kitchener, che aveva fatto parte delle truppe inviate in soccorso di Gordon, riconquistò Khartoun e distrusse il mausoleo che fu in seguito riedificato dal figlio del Khalifa nel 1947.
Passo a visitare l’abitazione trasformata in museo del califfo Khalifa successore del Mehdi qui meglio noto col nome di El Ta’aischi. La casa, posta proprio di fronte alla Khubba è interessante sia per gli oggetti d’epoca esposti sia per la particolare architettura articolata su diversi livelli, corridoi, stanze riservate in cui il califfo riceva gli ospiti secondo la gerarchia loro attribuita inclusa una particolare per le spie e una grande terrazza con l’entrata vigilata da due mitragliatrici d’epoca, quelle che spararono nel mucchio urlante delle truppe mehdiste fino all’inceppamento per surriscaldamento. Un massacro di undicimila sudanesi che eleverà il Mehdi al rango di messia liberatore del Sudan, a fronte una perdita di soli 47 sudditi britannici che , di contro consegneranno all’impero una delle sue più cocenti e umiliante sconfitte . La casa ospita una delle prime rare vetture coloniali costruite in legno appartenuta al Kitchener.
Il rientro in albergo mi riserva una sorpresa un vetusto battello fluviale a due ponti tipico dei fiumi amazzonici è ancorato al pontone. Non porta nome sulla fiancata ne altrove, ricorda molto quello di Fitcarraldo nel film di Werner Hezog , poco importa, se qui i passeggeri sono etiopi, somali, ugandesi ognuno con colli e fardelli di mercanzia sulle spalle stipati sul ponte in attesa dello sbarco. Butros assicura la gomena, è già tramonto inoltrato è lo spettacolo di questa variopinta folla che si staglia in una ombra sempre più scura, e mista all’odore del Nilo e delle spezie contenute nelle mercanzie mi riporta alle pagine di Heart of Darkness di Conrad .
Rimango fino a che tutti sono andati via, il battello ha acceso i due fanali di via e le luci nella cabina di comando. Butros esce dalla sua botola e mi chiede se voglio salire, accetto e filo sul ponte superiore nella cabina e guardo il Nilo a fianco alla ruota del timone. A bordo il comandante della Malika en’ Nil in arabo Regina del Nilo , questo il nome della scafo costruito a Stavanger, Norvegia a nel lontano 1928 ha già avviato il motore, è in partenza per andare a fare il pieno di gasolio, Butros mi dice di restare a bordo, tanto lui scende di fronte all’imbarco per l’isola di Tuti che si trova davanti all’Hilton, un chilometro circa dal pontone. Il comandante mi cede il timone e sposta la manetta del telegrafo di macchina su Ahead Slow il ponte vibra mentre il vecchio Lister prende giri, ruoto la ruota del timone verso l’altra sponda, senta la Malika rispondere pian piano al timone, una sensazione forte, poi barra al centro e il battello scivola nell’oscurità, mi sento al centro dell’Africa. L’incanto dura poco, ma mi sembra una eternità , la regina rallenta per farmi scendere e mi trovo a salire l’imbarcardero di fronte all’Hilton avvolto in una luce offuscata dalla polvere, la stessa che di giorno al cielo conferisce un grigiore senza sole avvolge anche una notte senza stelle in una atmosfera di particolar fascino e mistero. Solitari ritorniamo a piedi al Grand Villa Butros scende di corsa la riva e corre ad infilarsi nel ventre del pontone, il tutto nel buio più pesto, neppure una candela!.. L’indomani rimedio al problema acquistando una novità della Darm Engineering che avevo visto esposta nel padiglione coreano, una torcia a ricarica solare senza bisogno di batterie che qui costano una cifra..Mettendola a caricare sul muretto Boutros diventa oggetto di mille spiegazioni, io il Kawadja più noto del Lungo Nilo, tanto più che il mio volto è apparso sui quotidiani accanto alle notizie ed interviste sull’evento fieristico in corso. Boutros è fiero della sua amicizia con il khawadja, ma di quella dignitosa e straordinaria fierezza in virtù della quale non accetterà mai i miei ripetuti inviti a pranzo nell’hotel, neanche assieme al Turabi, così altro non mi resta che accettare il loro. Chiedo e ottengo un ristorante comune dove non vi sono bibite , neppure la tipica “Pasquinos” sudanese . Si beve solo acqua, per il resto tutto era squisito, dalla Njira uno speziato impasto di vegetali e carne che si mangia attingendo con la Kisra il pane locale al posto delle posate fino alla sciorba ades una densa ministra di lenticchie. Poche ore di una mattinata sono state sufficienti per fare il giro dell’isola di Tuti. Ci siamo imbarcati al solito pontile di fronte all’Hilton , il posto di giorno sembra quasi immaginario tratto dalla tela del Watteau L’embarquement pour Cythère . Solo che qui i personaggi non sono di fantasia, e l’isola non lontana né brumosa.Ognuno è assorto nei suoi pensieri , mentre chiatte cariche di cemento, feluche piene di pomodori e altri ortaggi, draghe, veloci imbarcazioni di lamiera con lunghe panche sui fianchi continuano l’eterno trasbordo .Gli attracchi sulle due sponde sono in lamiera sagomata ad incastro come la prua di queste barche così non vi è bisogno di ormeggiare, si infila la prua e tutti scendono da questa. A Tuti anche Turabi diventa passeggero, infatti non vi sono taxi ma solo risciò. Noto che hanno una colorazione diversa, Turabi mi spiega che il fatto non è casuale , infatti non possono girare altrove, d’altronde anche a Khartoum il diverso colore indica il quartiere dove questi sono autorizzati a circolare. Sono degli aggeggi infernali che portano tre persone, incluso il driver e che per sopperire alla scarsa velocità , camminano sempre intrufolandosi ovunque , senza mai fermarsi.. Speso se ne incontrano alcuni rovesciati ai lati della strada, o in mezzo alle rotonde apparentemente a seguito di incidenti..Non è sempre così spiega il Turabi, spesso vengono poggiati sul fianco perché il conducente è andato a farsi riparare un pneumatico o altra riparazione al motore facilmente accessibile in quella posizione. Il martinetto non serve per i risciò sentenzia il Turabi , un peso inutile da trasportare .
L’isola è al novanta per cento agricola , ed è piena di ombrosi giardini di limoni dove di venerdì molte famiglie passano il weekend .Nei suoi meandri formati dal delta , capita non di rado che qualche capra sparisca fra le fauci dei coccodrilli che più giù non vanno.
La fiera si avvia alla conclusione e gli incontri e le cerimonie ufficiali sempre fitte, in una di queste viene allestita nell’area all’aperto una rassegna sulle principali tradizioni e costumi popolari, anche in questo caso è una carrellata di esperienze come assistere alla cottura della carne con le pietre arroventate, sistema con il quale si risparmia prezioso carbone , come caricare un dromedario da somma o come infilare le minuscole perline di argento o giada dei tipici monili locali. Percorrendo J3-12.-04iraba street una delle principali arterie periferiche ci fermiamo a vedere improvvisate bancarelle dove curiosamente si vendono articoli sanitari ei souvenirs in legno di ebano lavorato sul posto da giovani nubiani che sembrano usciti dal libro Gente di Kau della scomparsa Leni Reifenstahl . Le scarificazioni sono tutt’altro che scomparse in Sudan ! Stanno in piedi vicino alla loro mercanzia e alla rete i cui riposano , senza farsi concorrenza ne sollecitare il cliente pur sapendo che i khawadja da quelle parti sono rari. Il loro sguardo , il loro silenzio la dignità con cui ti porgono l’oggetto esprimono in pieno quella forza e quella speranza con cui affrontano una vita quotidiana che nulla regala loro. Acquisto da uno un grintia, (rinoceronte) , da un altro un hartit ippopotamo in ebano. Non posso fare a meno di pensare chissà quando qualcun altro acquisterà loro altri oggetti, come fanno a sopravivere, anche se in città stanno sempre meglio dei profughi del Darfour , il cui dramma mi viene ricordato in ogni momento per via delle varie 4×4 che riportano a caratteri vistosi la rispettiva appartenenza diverse ONG e associazioni internazionali. Spesso per evitare ingorghi paurosi dovuti alla fiera , traversiamo il quartiere denominato Mantica al uarsci ( la zona delle officine), descrivibile come un girone dell’inferno dantesco dove ad essere strippati al posto dei dannati sono le automobili e ogni altro aggeggio a motore e ruote. E’ il quartiere della eterna mutazione dove tutto muta e rinasce, incluse le centraline elettroniche delle piccole Atoz . Come all’inferno spazio e tempo non contano così veicolo cannibalizzati sostano nel bel mezzo delle vie assieme a quelli in riparazione, nelle officine ci si tiene solo gli attrezzi e ci si abita. Come se non bastasse si deve fare i conti con i profondi solchi lasciati nel fango dai camion Bedford prodotti in loco che usano ruote di grosso diametro al posto di quelle gemellate.Issati su queste ruote sembrano dei buffi trampolieri che nulla hanno da invidiare a quei mostri americani che si divertono a camminare sui tetti di vecchie auto messe in fila.
La differenza di Khartoum con altre popolose metropoli africane, come il Cairo , Lagos, o Dakar e che qui la povertà è plasmata ovunque , lo testimoniano i “ Sembil” grossi orci pieni d’acqua posti in ogni quartiere a volte riparati da semplici tettoie di paglia, altre sistemati in ripari di muratura , anche sul lungo Nilo a disposizione di quanti nella quotidiana ricerca del cibo, non abbiamo almeno a cercare anche l’acqua, come invece devono fare le miglia di profughi accampati alle porte di Omdurman . Con l’ambasciatore farò visita alla linda sede delle suore di Omdurman che assistono, una vera goccia d’acqua , questi disgraziati che a dire il vero non hanno neppure bisogno di cercare il cibo che viene loro gettato direttamente dagli aerei nei campi in cui sono raggruppati, senza paracadute tanto sicuri sono che nessun chicco di grano andrà disperso! Una città non entusiasmante, almeno nei classici concetti turistici per i rari viaggiatori per lo più in transito verso ricchi fondali del Mar Rosso o gli scavi di Meroe, molti spesso solo per poter dire al rientro agli amici qui non ci siete stati! Effettivamente Khartoum non è accattivante , una città non città che non offre attrattive che vanno oltre i pochi luoghi su descritti, però una lezione di vita indelebile riesce a lasciarla a chiunque passi da queste parti, compresi i fotografi che periodicamente vi scendono in cerca di scoop ma che ritornano con le solite immagini di una immane tragedia da pubblicare sulle riviste internazionali, le stesse che sono raccolte nell’atrio dell’Acropole, assieme ai polverosi tascabili lasciati da viaggiatori in transito ad uso di altri viaggiatori , troppo pochi per far conoscere al mondo un paese che vuole diventare a livello economico , entro cinque anni , il leone d’Africa. Ma la cui immagine è oggi tutta compendiata nella tragedia del Darfour.