Kenya, dopo niente è più come prima

In Africa per guardare il mondo da un’altra angolazione, per fermarsi e riflettere su quelle strisce di vita quotidiana che ti scorrono davanti agli occhi e ti lasciano un segno nel cuore. Perché dopo l’Africa, niente è più come prima. Siamo partiti per il Kenya in due, io e Renato. Un viaggio desiderato, cercato, scelto tra altre...
Scritto da: nadia tarantino
kenya, dopo niente è più come prima
Partenza il: 20/08/2005
Ritorno il: 04/09/2005
Viaggiatori: in coppia
Spesa: 2000 €
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In Africa per guardare il mondo da un’altra angolazione, per fermarsi e riflettere su quelle strisce di vita quotidiana che ti scorrono davanti agli occhi e ti lasciano un segno nel cuore. Perché dopo l’Africa, niente è più come prima. Siamo partiti per il Kenya in due, io e Renato. Un viaggio desiderato, cercato, scelto tra altre destinazioni. Un viaggio non scontato, lontano dalle mete più turistiche. Un viaggio alla ricerca di un altro Kenya. Abbiamo scelto la costa più a sud, quella a poche decine di chilometri dalla Tanzania. Due settimane a Diani, località con una spiaggia spettacolare, sabbia come borotalco, pochi alberghi lungo una delle poche strade asfaltate del Paese. Un sogno, ma solo a patto che ci si abbandoni alla vera vita africana. L’albergo è stata la nostra base, niente di più. L’Africa che ci ha segnato il cuore è quella che abbiamo trovato fuori, lungo la spiaggia, sulla strada per Ukunda, nei villaggi delle persone che abbiamo conosciuto, negli spostamenti che abbiamo fatto verso Tsavo Est per un safari di due giorni e verso Shimba Hills per il safari di un giorno, oppure verso l’isola di Wasini vera e propria perla affacciata sulla Tanzania, o verso Mombasa. Il contatto con la natura è stato strepitoso, quello con la gente indimenticabile. Gente vera, onesta, forse un po’ pedante in certe occasioni ma che non chiede mai niente in cambio di niente. Poche centinaia di scellini per cucire una camicia su misura (bravissimo il sarto di Diani che si fa pagare in anticipo solo per andare a Mombasa a comprare stoffa e bottoni), qualche dollaro per gli oggetti in legno, per i coloratissimi pareo, per i braccialetti e le collanine, oppure la richiesta di euro in carta – in cambio del ferro – perché le monete non vengono né cambiate dagli uffici né accettate per gli acquisti. Nessuno ha tentato di fregarci, pratica, questa, con la quale spesso invece ci imbattiamo dalle nostre parti. Quanto ai beach boys che vanno all’assalto dei turisti sulle spiagge, non si tratta di persone da tenere alla larga. Anzi. Ti chiedono il nome e se lo ricordano anche dopo due settimane, ti chiedono la promessa di un piccolo acquisto o di una breve gita in barca o a piedi con la bassa marea e aspettano che tu la mantenga. Una raccomandazione: la loro memoria è elefantesca, se promettete dove poi mantenere. I nostri spostamenti li abbiamo programmati con i beach boys: si spende molto meno e il trattamento è identico a quello proposto negli alberghi o nelle agenzie. Obbligatorio il safari di due giorni: esperienza straordinaria, 48 ore in un’altra dimensione, un tuffo tra elefanti, leoni, ghepardi, babbuini, impala, rinoceronti, giraffe, iene, struzzi. Meravigliosi i lodge, molti dei quali provvisti di pozze di acqua artificiali che hanno lo scopo di far avvicinare gli animali che possono così essere osservati con calma e fotografati. Particolare il safari a Shimba Hills, parco che ha una vegetazione molto ricca e rigogliosa e dove è possibile, scortati dai rangers armati, incamminarsi per un paio di ore lungo il sentiero che porta alle cascate.

Imperdibile l’isola di Wasini dove la gente del posto aspetta i turisti e li accoglie con un pranzo a base di granchi (catturati nel parco delle mangrovie che si trova sull’isola e che si può visitare pagando 100 scellini, circa un euro, per il biglietto di ingresso) e di tartine condite con un saporito sugo al pomodoro. Il pranzo è una delle esperienze più belle in assoluto: il ristorante consiste in un paio di tavoloni di legno massiccio, apparecchiati con bicchieri e posate e taglieri di legno dotati di un piccolo bastone per aprire il granchio. E i camerieri sono lì, pronti ad aiutarvi se incontrate difficoltà. Altra raccomandazione: mangiate tutto, non lasciate niente nel piatto, magari fate un piccolo sforzo e bevete pure il caffè. Farete un regalo al ristorante, ai cuochi e ai camerieri che hanno lavorato per voi fin dall’alba per catturare i granchi e prepararli. Non date denaro ai bambini che vi correranno dietro durante la vostra permanenza sull’isola, altrimenti rifiuteranno di frequentare la scuola in attesa delle monetine dei turisti. Piuttosto, lasciate qualche soldo alla “cassa” dell’isola che provvederà poi a distribuirli alla scuola e al ristorante che rappresentano il punto di riferimento per la popolazione. Non fate l’errore che ho commesso io: ho aperto lo zaino e ho tirato fuori una decina di penne, troppo poche per tutti i bambini che mi stavano intorno, alcuni aggrappati alla mia maglietta. Per liberarmene, e non è stato facile, ho dovuto lanciare in aria le penne e ho subìto uno spettacolo molto forte, di quelli che fino ad allora avevo visto solo in tv con la corsa all’accaparramento e ho capito che meglio lasciare i pochi oggetti agli adulti per evitare dispiaceri a chi rimane senza. Fantastica Mombasa, a cominciare dalla parte antica e da Fort Jesus. Di grande impatto la tappa al mercato della frutta e della carne, e la passeggiata tra i banchi sistemati alla meno peggio nei budelli intorno dove si vende di tutto: spezie e divani, stoffe e verdure, oggetti in legno e ciabatte, vestiti e improbabili giocattoli per i bambini. Main Road, la strada simbolo di Mombasa, quella con la gigantesca riproduzione delle zanne di elefante, è molto bella, molto trafficata, stipata di gente e di auto all’inverosimile, ricca di negozi per turisti (ma non aspettatevi chissà cosa, non siamo a New York!!). Da non perdere la visita alla fabbrica del legno, una cooperativa nella quale lavorano solo ed esclusivamente gli uomini della tribù Kamba: ogni oggetto che acquistate è numerato e ad ogni numero corrisponde un artigiano. Nella fabbrica, una capanna dietro l’altra dove gli artigiani lavorano senza sosta, non c’è nulla di meccanico: i tronchi vengono scaricati in un grande campo e tagliati a mano, ed ogni pezzo viene trasformato in maschere, animali, scritte africane, piccoli sgabelli, oggetti per la cucina, portachiavi ed altro. Oggetti che costano una miseria.

Due settimane sono sufficienti anche per cominciare a masticare lo swhaili, la lingua ufficiale del Kenya. Per me e Renato – mama e papa – era spontaneo salutare gli amici in swhaili – jambo, qwaeri – oppure rispondere akuna matata (nessun problema) o msuri sana (tutto bene) a chi chiedeva abari ghani (come stai), e magari dire pole pole (con calma) a chi si dà da fare per cercare di non deludere le aspettative (specie gli inservienti dell’albergo). La mancia è molto gradita, cento scellini equivalgono ad un euro e risolvono il pranzo di una famiglia di 3-4 persone.

Non partite per il Kenya senza magliette (anche usate e strausate), penne, pennarelli, matite e quaderni. E non tornate a casa con i medicinali avanzati, con i vestiti che il prossimo anno non userete, con le creme da sole e i deodoranti, i saponi e quello che resta del dentifricio. Noi abbiamo regalato tutto, compresi gli infradito e i miei assorbenti (là non esistono, ma fanno comodo). Torneremo presto in Africa, il mare non è il massimo, anzi. Ma c’è tutto il resto, e c’è gente che sicuramente ci sta aspettando. Grazie Kenya, niente è più come prima.

Qwaeri!! Nadia e Renato



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