Jamaica, l’isola delle tre R
Quando acquistammo i biglietti aerei, le impiegate dell'agenzia ci sconsigliarono vivamente di atterrare a Kingston. Recatevi a Montego Bay ci dissero, evitate Kingston, poiché non è quello l'aeroporto turistico della Jamaica. Lì gira brutta gente, circola parecchia droga, ed alla dogana vi faranno un sacco di storie. Forse quando siamo stati...
Quando acquistammo i biglietti aerei, le impiegate dell’agenzia ci sconsigliarono vivamente di atterrare a Kingston. Recatevi a Montego Bay ci dissero, evitate Kingston, poiché non è quello l’aeroporto turistico della Jamaica. Lì gira brutta gente, circola parecchia droga, ed alla dogana vi faranno un sacco di storie. Forse quando siamo stati gli unici europei a scendere a Kingston, dall’aereo che proseguiva per Montego Bay, qualche strano pensiero l’abbiamo pur avuto, ma una volta sbrigate facilmente le formalità doganali, e superato l’impatto con il caldo dei tropici (era il mese di Gennaio), siamo saliti abbastanza rassicurati su un taxi. Quando è ormai buio, attraversiamo tra mille ingorghi la capitale giamaicana, che si è guadagnata la fama di essere una delle città più violente al mondo. I nostri sensi sono continuamente sollecitati. Dai finestrini entrano le note sincopate della musica Reggae, sparata a tutto volume ad ogni angolo delle strade, le nostre narici percepiscono l’odore pungente del fumo proveniente dai bidoni sui quali cuoce il Jerk, il piatto nazionale giamaicano, mentre i nostri occhi vedono uno degli spettacoli più deprimenti ai quali si possa assistere, quello della miseria, tanta miseria. Ci piacerebbe fermarci per la notte, ma abbiamo solo una settimana e così ci lasciamo alle spalle Kingston, per addentrarci in balia del nostro sconosciuto autista nel buio di una fitta foresta, dalla quale usciamo solo dopo un paio d’ore di curve, per giungere verso le dieci di sera a Port Antonio. Questa è la località della Jamaica che consiglio vivamente a tutti. Aveva visto bene quel bellone di Errol Flyne che se ne innamorò a vista d’occhio e vi risedette per anni. Port Antonio è la vera Jamaica. Panorami mozzafiato, palme, mare cristallino, foltissima vegetazione tropicale, cascate eccezionali, coloratissimi mercati, gente simpaticissima. Decisamente meno turismo, rispetto alle più gettonate Ocho Rios, Montego Bay, Negril. Nei due giorni seguenti ci perdiamo nella magia della blue lagoon, facciamo rafting sul Rio Grande su lunghe zattere costituite da canne di bambù, rosoliamo al sole sulle spiagge di Long Bay, Boston Beach (patria del piccantissimo jerk), San San Beach, Frencheman’s Cove. In completa solitudine ci bagniamo sotto le Reach Falls, la favolose cascate dov’è stata girata la scena d’amore del film “Cocktail”con Tom Cruise. A Port Antonio abbiamo alloggiato al magnifico hotel Dragon Bay, incastonato in una meravigliosa baia lambita da calme acque cristalline e circondata da bellissima vegetazione tropicale. Colossali sbronze al bar sulla spiaggia, dove i coloratissimi cocktails nascondono ingenti dosi di Rum, il liquore nazionale che scende facilmente al ritmo perenne del Reggae, per poi risalire alla testa con effetti sconvolgenti. Per girare nel circondario ci siamo serviti di un ragazzo che, dopo estenuanti contrattazioni a tavolino, ci ha scorazzato a bordo della sua macchina sulle tortuose strade giamaicane per un paio di giorni, ad un prezzo ragionevole, nel quale abbiamo fatto rientrare anche il passaggio per Ocho Rios, che la mattina del nostro quarto giorno di permanenza in Jamaica, raggiungiamo in un paio d’ore, dopo aver attraversato rigogliose foreste tropicali e caratteristici villaggi. Ocho Rios è un’altra cosa. Qui il turismo discreto di Port Antonio lascia il posto alle comitive di vacanzieri delle numerose navi da crociera. Quindi anche la risalita delle spettacolari Dunn’s River Falls, la principale attrazione di Ochi (com’è chiamata dai giamaicani), diventa una sorta d’affollato luna park offerto dalla natura. Le cascate vanno però visitate e scalate, perché sono di una bellezza unica, ed il divertimento è assicurato. La notte dormiamo all’hotel Ibiscus Lodge, una delle poche sistemazioni decorose di Ocho Rios a buon mercato, raffrontata agli elevati prezzi giamaicani (i turisti più numerosi sull’isola sono statunitensi). Alle cinque del mattino del giorno seguente, mentre mia moglie è ancora assorta dolcemente nel sonno, mi trovo già sulla veranda della nostra stanza ad ammirare il sorgere dell’alba, mentre un’enorme nave da crociera entra lentamente nelle placide acque della baia. Ochi si prepara a un altro giorno e le Dunn’s River Falls all’ennesima invasione.
Decidiamo di non andare a Montego Bay, la principale meta turistica dell’isola, da dove fra tre giorni ripartiremo per l’Italia, ed optiamo invece per Negril, che dista da Ocho Rios quattro o cinque ore di macchina. Già, perché qui, considerate le pessime condizioni delle strade giamaicane, le distanze si calcolano meglio in ore che in chilometri. La spesa per un taxi privato o collettivo è però elevata, ed allora proviamo con successo a contattare telefonicamente l’Air Jamaica Express, che in poco più di un’ora ci farà atterrare comodamente a Negril, per la modica cifra di cinquanta dollari a persona. Avremmo potuto risparmiare solo prendendo almeno un paio di autobus locali, ma avremmo impiegato quasi l’intera giornata. Negril e la sua candida spiaggia lunga circa undici chilometri, denominata appunto “Long Bay”,nella quale si alternano innumerevoli bar ed hotel non più alti delle palme, a negozietti di souvenir, rappresentano la Jamaica del classico immaginario collettivo europeo. Sole, palme, sabbia fine color borotalco, mare caraibico, divertimenti a non finire, musica reggae, innumerevoli venditori di aragoste e di ganja, da noi conosciuta più comunemente come marijuana. Quando provo a dire che non fumo, il ragazzo che mi ha abbordato dice che tutti quelli che vengono in Jamaica fumano, italiani compresi, ed allora provo quasi con imbarazzo ad inventare la scusa che sono uno sportivo, e così ironicamente mi congeda con una stretta di mano dicendomi “you’re a good boy, mon”. Trascorriamo tre piacevoli giorni a Negril, dove alle costanti del reggae e del rum, si associa quella dei numerosi Rasta o pseudo tali ad uso e consumo turistico, che con le loro dreadlocks, le lunghe trecce bruciate dal sole, contribuiscono a rendere effettivamente “Jamaica” quest’immensa spiaggia, ed a far sentire felici le giovani turiste occidentali color latte in cerca d’avventure, con le quali passeggiano per mano creando un interessante binomio cromatico. Un soggiorno a Negril, non può comunque considerarsi completo senza assaggiare una squisita aragosta al ristorante Cosmo’s, servita con il sottofondo dell’immancabile musica reggae, seduti di fronte all’incomparabile vista dell’azzurro Mar dei Caraibi, ed osservando il tramonto al celeberrimo Rick’s Cafè, dove si entra prepagando la consumazione, che finisce poi quasi sempre per essere uno squisitissimo Rum Punch. Come sempre, i giorni in viaggio si esauriscono rapidamente, ed allora una volta raggiunto l’aeroporto turistico di Montego Bay, servendoci dello stesso autista che la sera prima ci aveva accompagnati al Rick’s Cafè (contrattare, sempre contrattare), lasciamo questa terra che tanto ci è piaciuta, con la sua natura rigogliosa e con la sua splendida gente che, dopo secoli di segregazione e sofferenze, ha trovato seppur vivendo in condizioni di estrema povertà, una propria identità culturale, forte delle proprie fiere radici africane. Un grazie per sempre all’isola delle tre “R” (Reggae, Rum, Rasta).