Istanbul la bella
Buongiorno Istanbul! La strada è pulitissima e nei prati attorno squadre di giardinieri sono all’opera. Insomma…felice sorpresa. L’albergo si chiama Apex e sta a Sultanahmet: lo consiglio assolutamente perché economico, pulito, tranquillo, con personale molto amichevole e disponibile. La colazione si fa nella terrazza all’ultimo piano, con vista sul Bosforo… Poiché sono arrivata dall’Italia trafelata dopo una settimana di lavoro, ho bisogno del parrucchiere. E infatti, all’angolo dopo subito un ‘kuafor’. Veramente, l’entrata sembrerebbe quella di un barbiere, dentro ci sono solo uomini…ma ecco una porticina dà su un’altra stanza dove una ragazza molto garbata in mezz’ora mi sistema come neanche nel salone sotto casa mia. Altra piacevole sorpresa…
Prima di arrivare alla Moschea Blu si passa per l’Arasta Bazar: è meno affollato, forse un po’ più turistico, ma ha cose veramente belle; quei foularini antichi con il bordo ricamato, che a Milano ho pagato 60 euro, li trovo a 20. Le spille e le collane di feltro sono un’ottima idea per regali alle amiche. La Moschea Blu e Aya Sofya sono una di fronte all’altra, divise da un parco. Nonostante quello che dicono le guide…io preferisco la prima. C’è un’atmosfera più autentica, nonostante alcuni turisti stravaccati con le pance di fuori costituiscano una seria minaccia. Al tramonto, i raggi del sole disegnano con linee luminose l’immenso tappeto rosso sui cui i fedeli si dispongono in raccoglimento da soli o in piccoli gruppi. I muri e il soffitto sono ricoperti di mattonelle in ceramica con le stupende colorazioni blu che danno il nome alla moschea; la quale invece sarebbe dedicata al sultano Ahmet I, che la fece costruire attorno al 1600. All’uscita, ci fermiamo a rimirarla nella parte posteriore, quella che sarebbe l’abside per le chiese. I globi delle cupole, di diversa altezza, sono contornati da diritti e affusolati minareti. Mentre il sole cala sul Bosforo, la pietra diventa man mano più scura e infine…anch’essa blu.
Aya Sofya è estremamente pregevole dal punto di vista artistico, ma è un monumento, si visita con tanto di fila e biglietto. Portatevi lire turche perché non accettano né euro né dollari. La famosa cupola è incredibilmente alta e leggera ma, ahimé, in parziale restauro. Così, prevedo, resterà per un bel po’ di tempo.
Invece dall’altra parte della strada c’è un’assoluta meraviglia: la Basilica Cisterna. Si scende una scalinata di pietra e….un’amplissima sala è immersa nell’oscurità; solo suggestive luci arancione, alla base delle colonne corinzie che sostengono la volta, si riflettono nell’acqua. Sì, perché la Basilica, fatta costruire da Giustiniano, è in realtà un’immensa vasca. Un’acqua limpida e trasparente, piena di pesci, ricopre il pavimento e si cammina su passerelle sdrucciolevoli. Per favore, restate in silenzio e ascoltate magari la musica che viene diffusa, a volte suggestiva e sintonica, altre decisamente fuori luogo. L’insieme è impressionante: qualcosa tra la Grotta Azzurra e la Domus Aurea.
Gironzolando per Sultanahmet capitiamo nella moschea chiamata Piccola Aya Sofya, solitaria e circondata da un alto muro. È già buio e ci fermiamo a bere un tè nel locale di fianco, allestito praticamente tra le tombe del cimitero.
Stasera si festeggia ed andiamo a cena alla Fish Hause, in Ismail Gurkan Caddesi,14. Il taxista, come molti a Istanbul, non sa veramente la strada e dobbiamo fermarci diverse volte a domandare. Però poi restiamo contenti: meze squisite ed una spigola che non finiva più, camerieri simpatici e disponibilissimi. Prezzi modici.
L’indomani, il Topkapi. Beh, sinceramente non è che mi abbia colpito più di tanto, anche perché troppo affollato. Segnalo solo la Biblioteca di Ahmet III, una palazzina al centro dei uno dei giardini con un interno sobrio ed elegante, e il Percorso delle reliquie: mentre si visitano le varie stanze, si ascolta una voce che intona il Corano…Pensavo fosse registrata ma verso la fine si arriva alla postazione dove un imam legge senza sosta mentre sui visori scorrono la versione araba e quella inglese. Molto interessante e suggestivo.
Ora si va a Istiklal per lo shopping. Dal Topkapi bisogna attraversare il Corno d’oro, passando sul ponte di Galata, che unisce la parte antica a quella moderna della città. E’ vecchiotto, ne ha viste tante ed una quantità incredibile di pescatori lo abita ad ogni ora del giorno e della notte. Nel piano inferiore ci sono diversi ristorantini…tutti poco convincenti. Dunque arriviamo a piazza Taksim, quella con la enorme bandiera e diversi sportelli bancomat. Istiklal è una via molto lunga che dalla piazza torna praticamente al ponte di Galata. È la via dei negozi e dei caffè eleganti, sempre piena di gente, più che mai nel weekend. Passeggiando arriviamo alla piazza Galatasaray, dove c’è l’omonimo liceo, nonchè un’orribile scultura di tubi d’acciaio che vorrebbe sembrare moderna. Sulla destra si trova una libreria ben fornita, la Robinson Crusoe, e subito prima una strada dove le macchine passano in fila indiana. Girate lì e poi di nuovo a destra: c’è una serie di ‘passages’ che assomigliano quelli parigini, con negozietti di vecchi libri e dischi. In fondo, il mercato del pesce, con botteghe di ogni tipo e piccoli ristoranti all’aperto: noi abbiamo scelto il Vesta e ci siamo trovati bene. Di fianco la chiesa armena, da vedere. Torniamo su Istiklal e continuiamo lo shopping: poco dopo la Robinson Crusoe, dall’altra parte della strada, c’è un negozio di dischi piccolo ma ben fornito anche di musica turca e armena e in generale mediterranea: ho trovato perfino un CD della cantante algerina Reinette l’Oranaise, sconosciuta in Italia. A un certo punto Istiklal si biforca: se amate la musica andate a sinistra, è la strada degli strumenti. Ce ne sono di tutti i generi, ma in particolare notate gli ‘ud’, che assomigliano a grandi mandolini e fanno un suono dolce e un pò malinconico.
Subito dopo il tramonto arriviamo alla Torre e poi di nuovo al ponte di Galata. La brezza comincia a farsi fresca. I pescatori immobili si mischiano con l’animazione del sabato sera, le navi passano sul Corno d’oro e le due moschee sull’altra sponda illuminano il Bazar delle spezie. Abbiamo cercato di fermare l’attimo. Non troppo, però, perché avevamo fame. Uno dei vantaggi di avere amici nei posti che si visitano, è quello di conoscere locali che mai e poi mai… Dunque, attraversando piazza Taksim, non andate verso Istiklal ma invece prendete a destra, all’imbocco della Tarlabash. C’è un mercato di fiori e subito oltre un edificio alto con file di bandierine di un azzurro PdL. Invece è la sede del Partito Democratico! Uno scalcinato ascensore ci porta al quarto piano dove…c’è una trattoria. Alla buona, piena di famiglie con nonni e bambini. Noi invece, eravamo una compagnia eterogenea: io ho parlato tutta la sera con un ingegnere giapponese naturalizzato americano. Si è stufato dei computer ed ora insegna giapponese ai turchi. Fra gli altri commensali c’erano giovani ricercatori universitari, giornalisti e cantanti di un gruppo musicale: Bandista, li trovate su YouTube. Tutta gente di spessore, consapevole della propria storia, ben lontana da certe nostre vacuità. Parlavano con scioltezza un buon inglese. Il genocidio armeno non era un tabù. Il giorno dopo, gita sul mitico e sognato Corno d’oro. Dovete sapere che per completare l’atmosfera mi ero portata da leggere ‘Altai’, dei Wu Ming. Infatti l’ho finito in tre notti e al ritorno ero distrutta! Non è all’altezza di ‘Q’, un vero capolavoro secondo me, ma comunque notevole. Ebrei, armeni, turchi, tra Venezia e Costantinopoli.
Ci fermiamo alla stazione di Fener. Da lì, complice un taxista che non conosce la strada, ci troviamo in un quartiere assai poco turistico, anzi, molto ‘vero’. I palazzi sono fatiscenti ma di fattura elegante. Abitati un tempo da minoranze ebree, greche, armene, che emigrate o sparite per vicissitudini storiche, sono state sostituite da immigrati della Turchia profonda. Perciò donne completamente velate su una sponda, gonne corte e scollature sull’altra. Troviamo un rigattiere che ci guarda stupefatto: vogliamo una statuetta di terracotta sepolta fra la paccottiglia. Un lavoro industriale, made in Austria 1878. Però carino ed economico, circa 15 euro. Sarà l’incubo del viaggio di ritorno!
Faticando per trovare un taxi che sappia come arrivarci, eccoci alla chiesa di Chora. Valeva la pena. Stupendi mosaici ed affreschi del 1300, benissimo conservati, in un ambiente di grande spiritualità. A cena siamo con un ragazzo di colore, anche lui musicista. Non dirò molto per precauzione. Fatto sta che, liberato dalla galera di un paese africano con un permesso umanitario per Parigi, il suo aereo ha fatto scalo a Istanbul. E lui non aveva il visto di transito! Così è bloccato lì da quasi un anno. Cerchiamo di aiutarlo, speriamo di rivederlo tra poco in Francia. E qui, Turchia, mi deludi! L’ultimo giorno facciamo compere nel Gran Bazar e in quello delle spezie e poi…l’hammam. Ci avevamo provato anche la sera precedente, ma era domenica: la fila si allungava davanti alla porta! La mattina dopo, invece, è praticamente deserto. Nelle guide non è specificato quale tenuta si deve avere; così ho optato per un costume nero, castigatissimo: casomai anche lì fossero fondamentalisti! Invece no, si può stare in libertà e rilassarsi. Veramente io non ci sono riuscita molto, perché il caldo umido mi opprimeva. Così scrub e mega saponata veloce, accompagnati da energiche secchiate d’acqua. Uscita boccheggiando, mi sono però goduta la maschera facciale e il massaggio in un profluvio di oli e essenze. Nel pomeriggio, uscita a Tarlabash, il quartiere dove per qualche tempo ha abitato mio figlio. Anzitutto, pranzo in un caffeuccio carino, anch’esso di aria vagamente parigina, gestito da due signore che cucinano benissimo qualche piatto casalingo. Si può bere un bicchiere di vino e concludere con l’immancabile tè. Tarlabash è un quartiere multietnico che si estende dall’omonimo viale verso la periferia. Subirà probabilmente una drastica ristrutturazione edilizia, che farà salire vertiginosamente i prezzi e caccerà gli attuali abitanti: un mix di virtuosi musulmani, prostitute e travestiti, di zingari stanziali e operosi che suonano nelle numerose orchestre della città e piccoli commercianti armeni. La casa dove abita mio figlio è sviluppata solo in altezza: un ingresso di sei metri quadri scarsi, una scala a chiocciola che porta ai vari piani con le stanze direttamente affacciate e in alto una terrazza-cucina sui tetti. Lì ci sta un gatto bianchissimo con un occhio giallo e l’altro azzurro. Si chiama Parno e, sospettato di pulci, è stato rasato. Così il pelo, invece che folto e morbido, è cortissimo e ancora rastremato dalle strisce del rasoio. Il poveretto si aggira infreddolito e vergognoso. Un taxista musulmano che più musulmano non si può ci guarda meravigliato: non è una zona per turisti. Però ci carica e ci porta in albergo attraversando mezza città in un’ora di traffico, clacson e rosa del tramonto. Domani si deve ritornare e mi dispiace. Istanbul, sei davvero bella!