Istanbul e Cappadocia 2
E ancora il palazzotto dove il sultano riceveva gli ambasciatori provenienti dai paesi stranieri e la biblioteca. Questo mondo da “mille e una notte” diventa ancora più concreto con la mostra dei gioielli, tantissimi: da un trono in oro con centinaia di pietre preziose, a diademi, anelli con il sigillo del sultano, collane e bracciali, il cranio ed il braccio di S. Giovanni Battista coperti da perle e pietre preziose fino al famoso pugnale Topkapi e ad un diamante (terzo al mondo per dimensione) che fu scambiato da un poveraccio che lo trovò in una discarica in cambio di 3 cucchiai di legno. Attraversiamo cortili con alberi che riparano dal caldo estivo, con vista sul Bosforo e Torre Galata. Visitiamo infine un edificio in cui si trovano alcune reliquie di Maometto: pelo di barba e capelli, un dente ed il suo mantello. Tutto racchiuso in appositi scrigni… Ma ci sarà davvero qualcosa dentro?? Un uomo dalla barba nera vestito di bianco recita continuamente una preghiera. Il museo si affolla di scolaresche dai grembiuli blu ed i colletti bianchi. Schiamazzano e salutano i turisti con il classico “Hallo!”. Nessuna bambina porta il velo sul capo, tutte hanno il grembiule blu, gonna e pesanti collant bianche o in tinta col grembiule..Con questo caldo! Nel complesso non sono molto diversi dai bambini italiani, anche loro parlano l’inglese “basic” imparato a scuola. Gli adolescenti delle scuole superiori hanno anche loro la divisa: gonna o pantalone, giacca e cravatta. Usciamo dal palazzo e scendiamo lungo una strada percorsa dal tram, compriamo i biglietti per la cappadocia, arriviamo al mare e, da una bancarella, compriamo due panini con pesce cotto alla brace. Una panca di legno ospita a turno cinque persone, tocca a noi, ci sediamo e gustiamo seduti i nostri panini.
Fa caldo. Lungo il ponte Galata decine di uomini di tutte le età, la maggior parte anziani, pescano in continuazione. Sotto il ponte ristoranti alla moda. Attraversiamo il ponte. Facciamo un giro nel quartiere che ospita la “Torre dei Genovesi”, ci arrampichiamo lungo una ripida via che conduce a Torre Galata. Lungo la via i negozi sono “monotematici”, tutti vendono antenne tv e apparecchi elettronici. Sembra che qui ad Istanbul ogni quartiere sia specializzato in una determinata tipologia di commercio; incontreremo più tardi il quartiere delle banche, quello della biancheria e quello delle pietre preziose. Sotto la torre beviamo un tè. Riscendiamo verso il mare, attraversiamo il mercato del pesce e ci dirigiamo al bazar delle spezie. Qui si vendono spezie di ogni genere, noi ne riconosciamo solo alcune, ormai però, oltre alle spezie, vengono venduti anche altri prodotti. Me lo aspettavo più colorato. Risaliamo le strade di Istanbul ed arriviamo al Gran Bazar. Una guardia è all’ingresso. Un po’ di timore prima di entrare, ma ormai siamo dentro, un dedalo di stradine ci avvolge e ci trascina nelle sue viscere senza una direzione, in modo casuale. Negozi di tutti i tipi, raggruppati per tipologia, locali dove mangiare e bere e uomini che, su appositi vassoi, trasportano i classici bicchierini di tè a venditori ed acquirenti. I venditori sono molto meno pressanti di quanto scritto nelle guide. Lasciamo il bazar, albergo cena e giro serale in Sulthanamet. SECONDO GIORNO 30.5.06 ISTANBUL Oggi iniziamo con la visita di Santa Sofia (Aya Sofia), immensa; un tempo, quando i mosaici erano completi doveva essere veramente spettacolare, con i tasselli dorati che ne ricoprivano le pareti, oggi molti di questi tasselli non ci sono più, sostituiti da dipinti.
Dopo circa due ore completiamo la visita e ci dirigiamo alla Cisterna Basilica: un’immensa cisterna sotterranea che serviva a rifornire d’acqua l’intera popolazione di Istanbul e nei secoli vi è stato buttato dentro di tutto, cadaveri compresi. Chiusa per lungo tempo, è stata dimenticata fino al secolo scorso. Le colonne che sorreggono il tetto provengono da diversi monumenti distrutti. Nella cisterna si sta bene, è molto fresco e nell’acqua nuotano carpe di dimensioni notevoli. Risaliamo e pranziamo in un ristornatine di una via secondaria, piuttosto “expensive” rispetto alla media. Ci portano vari piattini (melanzane, pomodori e cipolle, carote, cetrioli e una crema di yogurt e aglio) che accompagnano le “piadine” turche. Il pomeriggio è dedicato alla visita della Moschea Blu. All’esterno è immensa. 5 minareti e 1 enorme cupola centrale più altre laterali. Alla sera poi, illuminata, è veramente uno spettacolo fantastico. L’ingresso principale è solo per i fedeli, i turisti devono entrare dal retro, togliersi le scarpe e camminare scalzi solo nelle zone delimitate a loro dedicate. All’interno c’è un forte odore di piedi, del resto fuori fa molto caldo, e l’odore è probabilmente quello dei turisti visto che tutti i fedeli, prima di entrare, devono lavarsi testa e piedi; lungo la parete dell’ingresso principale una fila di rubinetti fronteggiata da bassi sgabelli permette ai fedeli di svolgere questo rito. All’interno il pavimento è coperto da tappeti, ciascuno dei quali è suddiviso in molteplici “tappetini da preghiera” rivolti verso la Mecca, uno per ogni fedele. Le donne stanno sul retro e nelle gallerie superiori; non possono entrare nell’area principale dedicata solo agli uomini. L’atmosfera è molto particolare, il silenzio e i gesti ritmici svolti dai fedeli che, più volte, ripetutamente, si inchinano, si inginocchiano, posano il capo a terra, e si rialzano per ripetere questo rituale più volte, rendono il tutto molto religioso ed “intangibile”. Una libreria contiene alcuni libri, probabilmente testi del Corano e un uomo, seduto sul davanzale di una finestra laterale, legge in tutta tranquillità. Usciamo e ci sediamo sui gradoni antistanti la moschea, giusto in tempo per vedere arrivare un gruppo di uomini vestiti con abiti neri musulmani e donne anche loro vestite di nero con il a capo ed il volto completamente coperti ed una turista in tacchi e minigonna, che dubito abbiano fatto entrare dal momento che, all’ingresso, 1 cartello in inglese diceva che per poter accedere alla moschea bisognava indossare abiti consoni alla sacralità del luogo: no canottiere, calzoni corti,..
Andiamo a recuperare i bagagli in albergo e, dopo una prolungata sosta alla pasticceria di Sultanhamet, dove ceniamo, prendiamo il tram e poi il treno che ci conduce all’Otogar di Istanbul. Un’enorme piazza è circondata da insegne luminose che pubblicizzano un centinaio di compagnie di trasporto. I bus sono il principale mezzo di trasporto del paese, i treni sono vecchi e poco sicuri. Attendiamo l’arrivo del nostro bus “METRO” e saliamo, la mia principale preoccupazione è: “il bus farà qualche sosta per poter andare in bagno – con tutto quello che ho bevuto con sto caldo!- o farà un’unica lunga tirata di 11 ore?”. In realtà il servizio è “all’avanguardia”: sedili reclinabili, stuart che serve 1 piccolo dolce e una bibita e …Più soste lungo il percorso. Dietro di noi si siede un ragazzo turco, Volkan, 28 anni e una gran voglia di parlare. Chiacchieriamo fino a mezzanotte, poi si cerca di dormire. Ci svegliamo all’alba lungo le coste del Lago Salato. Arriviamo verso le 8.30 a Neveshir, aspettiamo circa 10 minuti il minibus che ci porterà a Goreme. Siamo un po cotti, troviamo quasi subito una pensione carina con camera luminosa e vista sulla cittadina, doccia e qualche ora di riposo.
TERZO GIORNO : GOREME Dopo aver riposato alcune ore pranziamo e ci incamminiamo verso il museo aperto di Goreme. Sotto un sole cocente 1 stradone si arrampica fra i coni di tufo, la salita finale poi è ripidissima. Entriamo nel museo all’aperto e iniziamo la nostra visita alle chiese rupestri dalle pareti dipinte con storie di santi e Gesù, dai colori rosso e ocra; c’è anche il convento delle monache con tavolo e panche in pietra. Molto bello: entriamo e usciamo dalle grotte, ci arrampichiamo lungo ripide scalette per entrare in quelle dei piani superiori e sotto di noi una valle profonda e verdeggiante. Ritorniamo in albergo per la solita doccia serale ed usciamo per fare un giro nella parte vecchia del paese che si arrampica lungo stradine in salita che conducono alla sommità del paese da cui si gode 1 ottima vista. Partiamo alla ricerca di un posto dove cenare, scoviamo così quello che sarà il nostro ristorante per tutto il tempo che staremo a Goreme: guvac con pide per me, pizza turca con verdure, uova e formaggio per fabri. Da bere: io la solita Coca, Fabri il solito Ayran = yogurtda bere ed alla fine: the offerto dalla casa.
QUARTO GIORNO Alla fine abbiamo optato per un tour organizzato anziché “giro per conto nostro con moto noleggiata”. Devo dire che, seppure all’inizio fossi un po restia, (il giro in moto ti permette di andare dove vuoi, fermarti nei posti che più ti interessano, passare attraverso villaggi non frequentati abitualmente dai turisti..), la scelta del tour è stata ottima per vari motivi: – da soli, in moto non saremmo riusciti a vedere tutto quello che abbiamo visto, sia perché i chilometri percorsi erano molti, sia perché le indicazioni stradali non sono perfette per cui avremmo perso un bel po di tempo a districarci nella ragnatela di strade semi-asfaltate e spesso deserte che attraversano questa regione; – le spiegazioni della guida ci hanno permesso di capire più a fondo i posti che abbiamo visitato… nella città sotterranea poi, senza guida, ci si poteva perdere! – Infine il lato economico; abbiamo pagato l’intero tour 40 euro comprendenti: biglietto città sotterranea (10 eu), biglietto Ihlara Valley (5 eu) e pranzo (insalata, tomato soup, 1 piatto tipico a scelta e frutta, bevande escluse) …Alle 9.15, come da accordi, siamo davanti all’agenzia, ci fanno entrare e ci offrono “tè o caffè”?, rispondiamo di no ma dopo 5 secondi (a quanto pare questo è il tempo necessario per far tornare in mente, sia a me che a Fabrizio, quello che avevamo letto su qualche guida sulla Turchia “ …Se vi offrono un tè, non dubitate mai della cortesia di chi avete di fronte e accettate quello che vi viene offerto, rifiutare sarebbe scortese!”..) chiediamo: “A cup of tea!”. Ci viene portato il tè nei classici bicchierini di vetro, tipo quelli per il limoncello ma un po’ più grandi, con due mini zollette di zucchero. Sfogliamo due libri sui tappeti turchi e scopriamo che ne esistono di vari tipi: con disegni geometrici ripetuti più volte, con disegni floreali, con un disegno unico centrale oppure con “disegno unidirezionale”, in questo caso il disegno (spesso una moschea stilizzata) può essere visto solo da un verso …I tipici tappeti da preghiera che vanno sempre stesi verso la Mecca). Alle 9.30, puntualissimo, arriva il pulmino con gli altri turisti “raccolti” nei vari alberghi, già a bordo. Prima cosa le presentazioni: – la nostra guida si chiama Isa (cioè Jesus in turco), simpatico e “very fluent english”…Insomma: si capiva bene quello che diceva! – Il driver: Mustafà…Molto tipico a partire dal nome fino ai capelli e baffoni scuri! – Tre su coreane ordinatamente sedute nei primi tre sedili, dai nomi per me incomprensibili, si chiamavano tutte Chian + qualcos’altro – Paul, Catherine e Denise dall’Inghilterra – Adam australiano – Mimì, la piccola Lara di quattro anni e il suo papà dalla Turchia. Partiamo.
Prima Tappa: “panorama view” della valle con spiegazione “tecnica” di come si sono formati i pinnacoli di tufo che caratterizzano la Cappadocia. L’origine è da ricondursi ad antichissime colate laviche nel tempo forgiate dal vento, dal vento e dall’escursione termica che in queste zone va dai –30° invernali ei 40° estivi. Ovunque si vedono piccole nicchie allineate su più file, ricovero di piccioni allevati da secoli dagli abitanti del posto (ancora oggi tutti hanno le loro piccionaie in legno molto simili ai nostri pollai…L’uomo che vendeva souvenir per turisti all’ingresso della valle dei camini delle fate ne aveva uno sul retro del suo mini-bazar). I piccioni venivano allevati come fonte di cibo (carne e uova), per il loro concime naturale ancora oggi usato per rendere ancora più fertili le vallate con verdura e vigneti, come mezzo di comunicazione tra un paese e l’altro ed infine per velleità artistiche: il giallo e il bianco dell’uovo erano un’ottima pittura per realizzare i dipinti delle centinaia di chiese rupestri disseminate ovunque in questa regione. Un tempo le nicchie, ora visibili, erano nascoste da una parete esterna (ormai scomparsa a causa dell’erosione provocata dai diversi agenti atmosferici) dipinta da colori vivaci e dai motivi arabi o da disegni geometrici.
Per renderle riconoscibili agli uccelli che vi dovevano fare ritorno è la spiegazione scientifica o forse lo sfogo della creatività frustrata di chi, cittadino di un mondo solare, è costretto a vivere nel buio di un mondo sotterraneo senza sole. Di un mondo di “uomini talpa” che nei secoli hanno scavato intere città in cavità sotterranee grazie alla malleabilità di questa terra, duttile e facile da scavare che si indurisce a contatto con l’aria creando un solido strato protettivo al mondo sottostante.
Alcune foto di rito al fantastico panorama e via, in partenza per DerinKuyu (Derin= profondo, Kuyu= pozzo). A Derinkuyu c’è una delle più grandi città sotterranee della Cappadocia, 12 piani sovrapposti (di cui 8 visitabili). Un cunicolo a gradoni è l’accesso alle viscere della terra ha così inizio la casuale disposizione di stanze l’una a fianco all’altra, senza un’apparente piano determinato, quasi per crescita autonoma dettata da esigenze contingenti.
Scendendo nel sottosuolo attraverso cunicoli talvolta incredibilmente stretti e bassi si incontrano cucine, stalle con mangiatoie dalle pareti forate per legare il bestiame, camere da letto, mense con panche, tavoli e scaffali scavati anch’essi nella roccia, la scuola con le panche di pietra per gli studenti, la piccola chiesa con pianta a croce e un cunicolo a semicerchio che fungeva da confessionale, le tombe (ma i morti sono stati probabilmente portati via perché degli scheletri non c’è traccia) ed infine le celle dei prigionieri crocefissi ai pilastri di pietra forati nella parte alta da entrambe i lati per potervi legare le mani dei nemici catturati. Tutto questo è collegato da cunicoli per l’areazione, da pozzi profondissimi (per sentire il rumore della moneta che cadeva sul fondo di un pozzo abbiamo dovuto attendere parecchi secondi), da stretti corridoi di collegamento fra le stanze e da ripide gallerie a gradoni per passare da un livello all’altro.
Macine pesantissime, forate al centro, permettevano agli uomini-talpa (da 1.500 a 20.000 persone) di barricarsi nelle città sotterranee per mesi (3-6 mesi) e resistere così agli attacchi degli invasori che nei secoli hanno percorso questa valle. All’arrivo dei nemici le macine venivano spostate mediante leve o fatte rotolare da cunicoli laterali; il foro centrale serviva per scagliare le frecce contro i nemici. Le città (probabilmente collegate fra loro) diventavano così inespugnabili. Erano dunque “città rifugio”, di difesa dagli attacchi dei nemici ma anche “città di vita quotidiana” che permettevano di vivere ad una temperatura costante (15° C) e di non doversi sottoporre alla forte escursione termica tipica di questi posti.
Si attraversano, con lo stesso tipo di architettura, secoli di storia: dall’età della pietra, all’impero ittita, ai satrapi persiani, ai governatori romani, ai conquistatori turchi…E, oggi, dai camini delle fate, sbucano le antenne televisive.
I conquistatori di tutti i tempi ricercano il potere, il dominio dei traffici e delle comunicazioni, ciò che cambia è il “visibile”, le città dell’altopiano: cadono le chiese bizantine e i templi romani su cui si costruiscono moschee e minareti ma il mondo del sottosuolo rimane immutato nei secoli: semplicemente si espande nel tempo accompagnato dal lento e lineare scorrere della storia. Le grandi guerre ed invasioni che spassano paesi a metà, che interrompono il flusso della storia e il naturale scorrere di vite umane sembrano non aver intaccato questi luoghi di ombra e di buio, di questi sotterranei magici dove, forse, l’evolversi della storia e delle religioni è avvenuto con naturalezza e continuità, senza traumi e spargimenti di sangue; tutto questo in cambio della luce del sole. In questa terra, eccetto le chiese bizantine e le tombe rupestri di origine romana, poco è databile perché poco appartiene a una sola epoca; è questa un’antichità misteriosa ed inquietante perché poco rivelatrice di se stessa. Questa fetta di mondo sembra opporsi ad una società, la nostra, dove tutto è e deve essere spiegato e razionalizzato, qui non sempre si può capire con gli occhi della mente ma bisogna lasciarsi cullare ed avvolgere dalla magia del mistero, dal fascino di un mondo che si può solo immaginare con gli occhi della fantasia, senza certezze e spiegazioni storico-scientifiche.
In questa regione si trovano città sotterranee a difesa dalle invasioni (persecuzioni romane contro i cristiani e quelle dei conquistatori turchi), ma è anche una natura che sembra partecipare alle esigenze di spiritualità, solitudine e mistico raccoglimento sentite da asceti ed eremiti che hanno qui fatto sede di monasteri, chiese e templi. Questa è la Turchia, terra di diversità e di contrasti nati secoli or sono e tuttora esistenti, sotto forme ed aspetti diversi, nella Istanbul del 2006. Risaliamo dai freschi cunicoli e torniamo alla luce. Ripartiamo per Ihlara Valley, 4° canion del mondo. E’ una lunga valle, dalle alte pareti scoscese lungo la quale scorre un tranquillo fiume; la percorriamo per 3 Km, l’intera valle è più lunga, ma 3 Km sono più che sufficienti, il caldo è afoso e la guida cammina a passo spedito, forse siamo in ritardo sulla tabella di marcia. Un turco fa il bagno nel fiume, noi siamo invidiosi ma dobbiamo proseguire. Arriviamo a un ristorantino sulle sponde del fiume. Pranziamo e ripartiamo per il monastero di Selime scavato nei pinnacoli di tufo, ci arrampichiamo, entriamo e usciamo da stanze ricavate all’interno della roccia, un bimbo turco dagli occhi blu si attacca a Paul e lo segue ovunque. Scendiamo, risaliamo sul pulmino. Una sosta ad un negozio-bar sulla strada per comprare un gelato: 70 lire (circa 80 cent) per 2 cornetti alla crema… 1 è gratis!! Ci rimettiamo in viaggio, 45 minuti sul pulmino ci permettono una breve siesta.
Arriviamo all’hotel dei cammelli. Una costruzione squadrata con porta d’ingresso in stile arabo permette di accedere ad un cortile interno al cui centro si trova una piccola moschea, sui lati ci sono dei porticati e l’accesso ad una parte coperta dai soffitti altissimi. Le carovane che percorrevano la “via della seta” potevano sostare in questi luoghi gratis per 3 giorni, oltre bisognava pagare. In estate i cammelli potevano stare fuori, per l’inverno era stata costruita la parte adiacente, coperta. Ripartiamo per andare alla fabbrica di ceramiche, dove ci mostrano come vengono fatte e dipinte, “Chiang-qualcosa” prova a creare un vaso e…Ci riesce molto bene! Ripartiamo per l’ultimo giro nella valle dei camini delle fate, alle 7 siamo in albergo: doccia, chiacchierata con il gruppo di 4 canadesi (Giuly, Marie, Rich e Adama) e la “cinese-svizzera”, cena al solito ristorante e dormita.
Solo oggi, cioè Giovedì, io e Vale abbiamo scoperto che la Cappadocia è una parte dell’Anatolia Centrale e non una regione separata. Torniamo a noi; questa valle è davvero splendida, formazioni rocciose incredibili, dalle forme più curiose. Comunque sia, il turismo, che è probabilmente la principale fonte di reddito, è ancora gestito in maniera piuttosto semplice. Tutti gli alberghi sono a conduzione familiare, le bancarelle ed i negozi espongono la loro merce senza essere assolutamente insistenti, la vita in paese scorre molto pigra. E’ come andare in Trentino e scoprire che i paesani fanno ancora i pastori e non gli skiliffari o i maestri di sci. Per quanto riguarda le città sotterranee, un solo aggettivo: incredibili! Nove livelli sotterranei costruiti e modificati in epoche diverse a partire dal 2000 a.C., collegati da una miriade di gallerie e cunicoli. E ad ogni livello una “rolling sotone” che, una volta fatta rotolare davanti all’accesso impediva ai nemici di entrare. Comunque il paragone è ovvio: un enorme formicaio in scala 1:1.000.000 dove tutti lavoravano per il bene comune.
Quando faccio questi viaggi porto sempre qualcosa da leggere, possibilmente attinente al luogo che sto visitando; ho scelto due libri di Ohran Pamuk, uno dei più importanti scrittori turchi: Il mio nome è rosso e La nuova vita. Il mio nome è rosso è un romanzo d’amore, una storia di intrighi e misteri ambientato in una Istanbul del 1591, in una città scossa da antiche inquietudini e nuovissime tentazioni, nel contrasto tra i due vecchi miniaturisti, Zio Effendi e Maestro Osman, Pamuk riassume una discussione che continua ancora oggi nel mondo islamico, diviso tra modernità e tradizione. La nuova vita racconta la promessa di un mondo nuovo che si trasforma in un viaggio labirintico che porta due giovani studenti di Istanbul nelle regioni più remote della Turchia, alle radici dello scontro tra modernità occidentale senza anima e un’identità orientale sfumata ed ambigua. “..Senza aspettare risposta disse: – Schachmatt, scacco matto -. Poi mi spiegò che questa parola era un ibrido europeo composto dalla parola persiana shah per “re” e la parola araba mate per “morto”. Avevamo insegnato noi il gioco degli scacchi agli occidentali. Nell’arena terrena della guerra, i bianchi e ineri si combattono come il bene e il male nella nostra anima. E cosa avevano fatto loro? Avevano ricavato una regina dal nostro visir e un alfiere dal nostro elefante, ma questo non era poi così importante. L’importante è che ci avevano rimesso sul tavolo il gioco degli scacchi come una vittoria della loro intelligenza e del loro razionalismo. Noi, oggi, con il razionalismo cerchiamo di comprendere la nostra sensibilità e pensiamo che questo voglia dire essere civili.