Istambul: un pezzetto di cuore è rimasto lì
È l’alba, in treno fa freddo, il cielo è grigissimo. Sono tutto appiccicoso. Non voglio neanche immaginare di che tipo di materiale organico sono ricoperto: sicuramente di polvere. Ho assunto un colorito marrone-beige, tipo il colore delle giacche “coloniali”. Mi pulisco il viso con una salviettina profumata, mi preparo un nescafè, esco nel corridoio e mi fumo una sigaretta. Tutto intorno è silenzioso, tutti dormono; il treno passa vicino a casette cubiche di colore azzurro cielo o rosa confetto: sembrano le casette dei Lego. Poi si vedono case di legno, tutte diroccate. Vedo i primi Turchi che vanno al lavoro, che escono dalle loro baracche o case cubiche e s’incamminano. Un ferroviere entra nel corridoio della mia carrozza e strilla «Ügnagnà hahüllüllü uh Istànbul!», lo guardo un po’ interdetto e lui mi riguarda negli occhi e mi fa: «Ügnagnà hahüllüllü uh Istànbul!!!!». Ah, ora è più chiaro! Grazie! Evidentemente stavamo arrivando ad Istambul; sveglio i miei amici e ci prepariamo.
Arrivati in stazione, andiamo all’ufficio di cambio. Io do 100.000 lire al cambista e lui mi dà un milione e rotti di lire turche: che ficata, sono milionario!!! Salutiamo i ragazzi di Milano: loro vanno a dormire presso certi Salesiani che hanno un convento ad Istambul, noi tre cerchiamo un alberghetto. Appena usciamo dalla stazione abbiamo la prima vera idea della Turchia. C’è il mare, si vedono un po’ di barche, le case un po’ malconce, la gente che passa. Sono circa le 8 del mattino e il cielo è plumbeo. Ci muoviamo verso la Santa Sofia per trovare un albergo. Inizia il diluvio. Una pioggia fortissima c’investe. Percorriamo la strada in salita e vediamo un hotel. Entriamo e chiediamo il prezzo: circa 40 dollari al cambio: troppi. Fuori piove a dirotto, siamo stanchi, sporchi e puzzolenti «Non conoscete un albergo che costa un po’ meno?», il portiere non ci risponde, chiama un ragazzo «Üblablà hagörö üg!» o cose simili, il ragazzo ci fa: «Seguitemi!». Oddio! Dove ci porta? Inizia a camminare. Ha spiovuto. Gira e gira, noi con gli zainoni seguiamo il ragazzo. Entra in una viuzza, poi svolta per una via ancóra più uzza. Ci assale un fetore fastidioso, tipo di carne marcita. «Mamma mia!». Il ragazzo entra in un alberghetto. Costa 15 dollari, accettiamo. Ci dànno la stanza, ci facciamo una doccia ristoratrice che monda tutte le lordure del treno e ci addormentiamo come tre pere cotte.
Ho messo la sveglia per Mezzogiorno e lei puntualmente suona. Ci svegiamo più rinko che mai. Anche lo stomacuccio santo reclama la sua parte, orsù ragazzi, alziamo le terga e andiamo a scoprire Istambul e mettiamo qualcosa sotto i denti. Usciamo, la puzza non c’era più; percorriamo la straduccia, giriamo a sinistra e imbocchiamo la stradina, giriamo a destra sullo stradone e arriviamo davanti alla Santa Sofia. Che bello. È tutto diverso ora: il sole splende, ma non arrostisce, la pioggia ha pulito l’aria e le strade, la gente va e viene, gli uccellini cantano sugli alberi, i fiori delle aiuole sono belli e vividi. Cavolo che bella che è Istambul! Lo sguardo arriva fino alla Moschea Blu, alta, bianca, imponente. Ho ancóra l’immagine davanti agli occhi e ancóra oggi mi emoziona. Pranziamo in un ristorantino niente male. Ceci col pomodoro, timballo di verdure, bürek al formaggio (tipo involtini primavera) e baklavà, dolci di pasta sfoglia con pistacchi e miele. Caffè turco, sigaretta e iniziamo il giro turistico. Davanti alla Moschea blu ci sono parecchi venditori ambulanti di souvenir; mi compro un fez: 50.000 lire turche (5.000 lire italiane – 2,58 €). Il fez l’ho portato per tutto il resto del viaggio in un sacchetto appeso allo zaino. È tornato a Roma che sembrava un hamburger. Ora giace in coma su una mensola in camera mia, tutto masticato.
La moschea blu è bella parecchio all’interno. Bella la sensazione di camminare scalzi sui tappeti. Il resto della giornata lo passiamo in giro per il porto. Un viavai incredibile, i vaporetti che vanno e vengono, i pescatori che vendono le cozze col limone sulle banchine. Al tramonto siamo sul ponte Galata: da lì guardiamo Istambul. Il sole rosso che scompare dietro ai palazzi, alle moschee, i gabbiani che sfrecciano nel cielo rosso e blu, l’arietta fresca del tramonto: bellissimo. Mangiamo in un bar, ci prendiamo una pizza turca e facciamo amicizia col barista. È un ragazzo che ha creato tutto da solo il suo ristorantino. Sta in una via piccolina, ha i tavolini fuori sulla strada, la cucina sta al secondo piano di una casa stretta stretta; lui è simpaticissimo, ha un foglietto con le frasi scritte in tante lingue, per parlare coi turisti nella lingua loro, e ci chiede di insegnargli qualcosa in italiano. Si fa tardi, salutiamo e torniamo a dormire. Il giorno dopo visitiamo la Santa Sofia, la Cisterna Yerebatan e passeggiamo per le vie limitrofe. Vicino alla S. Sofia c’è un parco, andiamo a vederlo. Facciamo la fila per il biglietto. Il bigliettaio mi chiede se siamo cristiani. Gli dico di sì e lui mi dà il biglietto scontato. Il perché non l’ho mai saputo. Nel parco c’è un piccolo zoo e tra gli animali c’è un maiale: il maiale più fortunato del mondo, in Turchia non finirà mai cucinato! Ci sediamo ad un tavolino e ordiniamo da bere. Accanto a noi c’è una ragazza molto appariscente con due ragazzi. Scattano i commenti. Capirai, siamo in Turchia, loro parlano turco, i commenti sono in romanesco stretto, chi ci capisce? Lei ci capisce! Si gira e ringrazia dei complimenti… ha studiato belle arti a Roma! Grandioso! Gli amici suoi molto turchi e molto grossi non avevano capìto, ma noi alziamo i tacchi lo stesso! Il pomeriggio passa a zonzo per l’Urdu Caddesi, una grossa via commerciale. La sera ceniamo in uno di quei ristoranti caratteristici fatti per i turisti, dove bevo per la prima volta l’ayran, il latte rancido. Dopo cena si va al baretto dell’amico turco della sera prima e si va a dormire, lì ci passeremo tutte le sere. L’indomani tocca andare al consolato Rumeno a chiedere il visto. Dove sta il consolato rumeno? Boh, chiediamo alla polizia turistica, c’è un commissariato proprio vicino all’albergo. Come entriamo vediamo una gabbia, tipo zoo, con dentro 3 signori buttati in terra. Oh Madonna santa!!! Mi riviene in mente “Fuga di mezzanotte”, passiamo oltre ed entriamo in una stanza con 4 scrivanie, con le lingue parlate dai poliziotti che ci lavorano: mi avvicino e chiedo informazioni. Ci dicono dov’è il consolato. Prendiamo il taxi e lo raggiungiamo, dall’altra parte della città. Al consolato ci fanno fare le pratiche e ci dicono di aspettare. Mentre aspettiamo qualcuno ci fa domande sull’Italia, tra cui «Come sta il Papa?», e che ne so io come sta il Papa!!! Non è che lo vedo tutti i giorni! In Irlanda più di una persona c’ha chiesto di salutarlo, e pure i Rumeni lì a Istambul volevano sapere di lui… bah! Luoghi comuni! Al ritorno ci facciamo portare dal tassista al Gran Bazar, e lui si fa pure un paio di strade contro mano per farci arrivare il più possibile vicini: che gentile! Il pomeriggio incontriamo i tre ragazzi di Milano con la francese al séguito. Ci raccontano dei loro Salesiani, di un ragazzo che nella Moschea Blu ha fatto una “proposta indecente” ad uno di loro, di un quartiere malfamato in cui hanno cercato di comprare un po’ di fumo. Andiamo a cena e poi in una sala da tè a fumare il narghilè. Noi ce ne siamo presi uno in 7, ma i Turchi se ne fumano uno per uno… fumano davvero come Turchi! I giorni successivi li passiamo girovagando un po’ qua e un po’ là. Prendiamo il traghetto per Üsküdar, un quartiere nella parte asiatica della città. La traversata del Bosforo ha un che di magico.
Ad Istambul abbiamo avuto incontri strani, con la polizia che ci ha cacciato in malo modo da un praticello su cui ci siamo appisolati, con un lustrascarpe che ci spiegava che per capire se uno è Italiano o Turco, basta parlare in turco, se non ottiene risposta, vuol dire che la persona è Italiana (dice che è un metodo matematico, non si scappa!), con un venditore di cartoline che quando gli ho detto che sono italiano ha tirato fuori lo scudetto del Milan e ha cominciato a fare «Alé oho!», vagli a spiegare che io col Milan ho poco a che vedere.
I Turchi, gente cortese, affabile, gentile e ospitale. Tutti quelli che incontro sono così, gente semplice e di cuore.
Ma l’esperienza più bella ce l’ho alle 5 di un pomeriggio. I miei amici dormono, io salgo sulla terrazza dell’hotel a scrivere le cartoline. Ad un certo punto sento un urlo «Uààààààà!», al quale segue un altro «Uààààààà!» e poi più lontano ancóra «Uààààààà!». Sono i muezin che dai minareti delle moschee chiamano i fedeli alla preghiera. Tutta l’aria è piena delle melodie dei muezin. La cantilena dura un quarto d’ora circa. Sono rimasto completamente rapito da questo canto. Almeno per 3 volte al giorno mi càpita di sentire i muezin mentre sono sveglio, ma ora sto sul terrazzo, con la brezza del pomeriggio che mi sfiora, con la vista della Moschea blu e di S. Sofia proprio davanti agli occhi, di fianco si vede il Bosforo coi suoi traghetti: non lo so, è un’esperienza unica. Alla fine uno per uno i muezzin smettono, finché anche l’ultimo non dice «Uuuuuàm!» o quello che in realtà è, e torna tutto silenzioso, si sentono solo i gabbiani.
Ho lasciato un pezzo di cuore a Istambul.