Islanda, il giro del mondo in 13 giorni
GENESI
Il desiderio di visitare l’Islanda è vecchio di almeno un paio di decenni.
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Gli avvincenti racconti di amici e conoscenti, le foto spettacolari, gli articoli sulle riviste, il materiale raccolto alla BIT – appuntamento immancabile – e anche la cronaca di recenti eruzioni, oltre a un genuino interesse hanno, molto spesso, risvegliato l’antica voglia, ma per varie ragioni il progetto è sempre stato accantonato e richiuso in un cassetto.
Non ricordo esattamente qual è stata l’ultima sollecitazione, sta di fatto che il 2014 è l’anno dell’Islanda.
Le fasi preliminari sono, più o meno, le stesse che precedono ogni viaggio: acquisto e lettura di una buona guida, Polaris nello specifico, ricerca nel web di racconti, definizione delle priorità relativamente all’itinerario.
Dunque, fiordi nord occidentali e interno sono imprescindibili, ma è necessario affrontare piste sterrate di diverso grado di difficoltà, inoltre lo spauracchio maggiore è costituito dai numerosi guadi.
Sandro e io ci diciamo che, no, non vogliamo guidare “off road”, no, non vogliamo preoccuparci davanti a un fiume impetuoso da attraversare e tanto meno consultare mappe piuttosto che concentrarci sul paesaggio. Decidiamo, quindi, di affidarci a un operatore specializzato, meglio se locale e con una profonda conoscenza del territorio. Tra i tanti sono Barbara e Stefano (Eskimotime) ad aggiudicarsi la nostra fiducia. Non è solamente il loro “giro del mondo in 13 giorni” convincente, bensì la loro storia, la conoscenza e la passione per una terra non facile. Uno scambio di mail con Barbara, sempre puntuale ed esauriente nelle risposte; l’acquisto dei biglietti aerei e la cosa è fatta. Siamo raggianti per la nuova avventura e per un sogno che, finalmente, si concretizza, ma all’approssimarsi della partenza, non posso nascondere qualche timore.
Il gruppo è la prima incognita. 13 sconosciuti oltre a noi due. Riusciremo a sintonizzarci e, soprattutto, a convivere pacificamente per tutto il tempo, condividendo spesso bagni e docce e a collaborare per la preparazione di alcuni pasti?
Immaginando un convoglio di grintose jeep, sono un po’ scettica anche sul mezzo di trasporto: il supertruck. Mi vedo costretta, e alle strette, in un minibus stipato di bagagli e con la visibilità ridotta. Tuttavia, nei momenti di crisi, mi impongo di concentrarmi sui tesori d’Islanda che non dubito di scovare e, per il resto, vada come deve andare. Dopo il tradizionale conto alla rovescia, si parte…
14 luglio 2014
Volo per Reykjavik alle 23,40. Arrivo alle 2,00 del giorno seguente. Solo dopo aver ritirato i bagagli, all’uscita dall’aerostazione, conosciamo parte del gruppo. Sommando il ritardo del driver ai 50 km che ci separano dalla città, varchiamo la soglia dell’hotel alle 3 di notte. E’ solamente l’orologio a confermare che è notte fonda, in realtà, in questo periodo, ci sono 24 ore di luce al giorno.
Hotel Cabin: stanze minuscole, finestrina affacciata su un corridoio interno, difficoltà a muoversi, ma non ne facciamo un dramma. E’ più urgente dormire. Mancano solo poche ore al “via” ufficiale del viaggio.
15 luglio 2014
Colazione. Alle 9,30 incontro con la guida Stefano, il resto del gruppo, Helgy e il supertruck: mezzo “spaventosamente” possente, molto accogliente che per tutto il viaggio sarà la nostra “seconda casa”.
Nonostante gli scongiuri, la pioggia si manifesta sin da subito e ci terrà compagnia per buona parte della giornata.
Indossiamo giacca e pantaloni impermeabili, ignoriamo il clima infausto e facciamo una prima sosta nel Parco Nazionale di Thingvellir. Luogo storicamente famoso per aver ospitato il primo parlamento islandese, ma è l’aspetto geologico che più ci affascina: un canyon con le pareti ricoperte di muschio testimonia la frattura della crosta terrestre che allontana progressivamente la placca nordamericana da quella eurasiatica.
Un punto panoramico si affaccia su una immensa piana. Il sito è verdissimo, attraversato da ruscelli, corsi d’acqua punteggiati da piccole isole verdeggianti, decisamente bello, ma la pioggia, per il momento, scoraggia la fotografia.
Seconda fermata per ammirare due cascate: la prima, Hraunfossar, con un fronte ampio ha la particolarità di sgorgare direttamente dalle rocce scure; La seconda è la classica cascata, generata da un fiume che compie un modesto salto e va a incunearsi in diversi passaggi rocciosi più o meno stretti, con effetto spumeggiante. Nelle vicinanze del villaggio di Reykholt visitiamo il luogo dove trovò rifugio, probabilmente l’ultimo, il poeta Snorri Sturluson. Il tutto si traduce in una pozza circolare d’acqua bollente e un cunicolo scavato nella roccia che la circonda. Per noi Snorri non significa granchè, per gli islandesi è invece una sorta di eroe, molto amato e celebrato.
I nomi in Islanda sono impronunciabili e impossibili da memorizzare, escogitiamo pertanto di fotografare i vari cartelli che segnalano le diverse attrazioni.
E’ la volta di Deildartunguhver, zona geotermale con vapore, bolle che esplodono in spruzzi di acqua bollente e fumarole, il cui calore viene convogliato in grosse tubature e utilizzato per la produzione di ortaggi in serra.
Curioso il banchetto che espone sacchetti di pomodori, il prezzo scritto in evidenza e una cassetta per la riscossione del denaro. Nessuno a sorvegliare il tutto evidenzia la fiducia degli islandesi nel prossimo.
La lunga giornata termina con una piacevole passeggiata sugli scogli scoperti dalla bassa marea. Il cielo finalmente ci regala squarci d’azzurro, le nuvole sono meno gravose e i riflessi meritano di essere fotografati. Una foca solitaria, adagiata su un masso in posizione che a noi pare innaturale, cattura l’attenzione generale. Una famiglia di anatre (edredone somateria mollissima) sfila silenziosa sull’acqua. La marea sale a vista d’occhio.
Dormiamo in cottage di legno con il tetto ricoperto d’erba, molto accoglienti, con una bella vista sulla spiaggia, circondati da prati verdissimi disseminati di balle di fieno dall’involucro bianco. Dopo pulcinella di mare, pecore e cavalli, emblema nazionale.
16 luglio 2014
Percorriamo la costa meridionale della penisola di Snaefellsnes, che si protende nel mare per un centinaio di chilometri.
Prima sosta della giornata per ammirare una casina solitaria costruita in cima ad una scogliera ricoperta di muschio che, con il clima odierno, è quasi inghiottita da nuvole basse.
Di fronte un porticciolo. Assistiamo allo scarico del pescato da colorati pescherecci. Quintali di sgombri vengono trasferiti in casse con il ghiaccio. Proprio mentre ci allontaniamo sopraggiunge un camion frigorifero per la conservazione immediata e il trasporto.
Imbocchiamo un sentiero che si sviluppa su strapiombanti falesie, archi di roccia, fiordi che si chiudono a cerchio, vertiginosi “buchi” sulle cui pareti rocciose nidificano migliaia di volatili. Luogo spettacolare dove non si sente altro che il soffiare del vento e il verso degli uccelli. La strada si snoda tra distese di pietre laviche e muschio dalle diverse colorazioni, in prevalenza giallo. Macchie di fiorellini rosa bordeggiano la carreggiata. Il vulcano Snaefellsjokull è nascosto dalla nebbia, ma riusciamo a scorgerne una porzione in un momento in cui, nelle nuvole, si apre una “finestra”. Magica visione della montagna che Jules Verne descrisse quale porta di accesso nel suo “Viaggio al centro della Terra”. Una passeggiata in discesa ci porta, con una deviazione, sulle sponde di un laghetto color smeraldo, pietra preziosa incastonata tra le rocce, e termina su una spiaggia scura, Djupalonssandur, costituita da ciottoli di basalto, delimitata da neri scogli e faraglioni.
Sulla smisurata distesa nera giacciono sparsi e arrugginiti i resti di un peschereccio naufragato. Osserviamo, inoltre, 4 massi di grandezza crescente: 23 kg (scarso), 54 kg (sufficiente), 100 kg (forte) e 154 kg (molto forte). Prova di forza per quei rematori che, in un lontano passato, aspiravano a ottenere un lavoro su una delle tante imbarcazioni che partivano esattamente da questa baia.
Giunti a Stykkisholmur, borgo di pescatori adagiato sulla costa settentrionale della penisola, ci concediamo una pausa. In attesa del traghetto, ci addentriamo nelle viuzze con belle case colorate, ci rifugiamo in una pasticceria con linde tendine alle finestre e biondissime ragazze in abito nero e grembiulino inamidato a servire ai tavoli. Ci inerpichiamo infine sulla collina che, con il faro, domina il porto.
La traversata fino ai West Fjords meridionali dura all’incirca 3 ore. Spendiamo del tempo all’aperto, nella speranza di vedere delfini o balene. Ammiriamo l’isoletta di Flatey con una manciata di casette colorate e una chiesina bianca, fermandoci giusto il tempo per scaricare passeggeri e imbarcarne di nuovi. Per il resto della traversata ci accomodiamo nell’accogliente salone interno, dove facciamo scorta di cartine e brochure distribuite gratuitamente, sorseggiando cioccolata calda.
Trascorriamo la notte in una fattoria isolata che la pioggia battente fa sembrare la perfetta location per un film di Hitchcock.
17 luglio 2014
Inizia la nostra esplorazione di un paesaggio “drammaticamente” bello: fiordi delimitati da montagne dai fianchi vellutati di muschio e dalla cima piatta, sottili penisole che si protendono nell’oceano, un susseguirsi di spiagge di roccia, di ghiaia, di sabbia dai diversi colori: nere, dorate, rosa, bianche.
Territorio selvaggio, disabitato ad eccezione di piccoli villaggi e fattorie isolate.
Clima capriccioso e rapidamente mutevole che ci dispensa di tutto: soffici nuvoloni bassi, scuri, fotogenici, pioggia nebulizzata, occhiate di sole che modificano colori e profondità.
Risalita l’alta scogliera di Latrabjarg, con la sommità erbosa, lo spettacolo di migliaia di uccelli ci tiene impegnati a lungo.
Assistiamo alla difficile cattura, inanellamento e schedatura di un gabbiano, operata da un gruppo di ricercatori.
Le simpatiche pulcinelle di mare sono le mie preferite, mi siedo sul bordo della scogliera, ne osservo incantata i buffi atterraggi e ogni movimento. Vanno e vengono abbastanza rapidamente, ma c’è sempre qualche soggetto, anche più di uno, da fotografare e ammirare.
Un verso stridulo attira la mia attenzione, poco sotto la mia postazione, su una stretta cornice rocciosa, ci sono due bellissimi esemplari di gazza marina (alca torda) con il becco nero rigato di bianco e l’aspetto da “cattivo”. Mi sento in colpa nel trascurare le pulcinelle, ma le gazze si accoppiano rapide e ho la fortuna di aver puntato l’obiettivo proprio nel punto giusto al momento giusto. La coppia si separa, ma si riunisce poco dopo e si esibisce in quelle che a me sembrano effusioni; accostano le testoline, si “stropicciano” un po’ e, insomma, mi permettono di scattare una serie di foto a distanza tanto ravvicinata che mai avrei immaginato.
Per “par condicio”, dopo l’ennesimo scatto alle gazze marine, mi concentro nuovamente sulle pulcinelle di mare. Mi piace osservare gli uccelli, al punto che mi estraneo da tutto e non mi rendo conto che si è fatta l’ora di ripartire.
La scogliera di Latrabjarg è popolata inoltre da colonie di gabbiani e diverse altre specie di volatili. Un vero paradiso per appassionati, ma anche per osservatori occasionali.
Il viaggio prosegue tra fiordi, montagne, spiagge. Ci fermiamo a fotografarne una di sabbia dorata.
Poi dall’alto ammiriamo l’incanto di una spiaggia coperta dall’alta marea che scopre “isole” di sabbia rosa. Un acquarello dai colori sfumati che raffigura una scogliera scura, il mare azzurro e ampie chiazze di rosa.
Ci fermiamo in questo luogo spettacolare per uno spuntino rifugiandoci in una graziosa caffetteria, moderna e rustica allo stesso tempo, un locale incredibile in tanta solitudine dove si paga anche solo un caffè con la carta di credito, dove le pecore camminano sul bagnasciuga e una chiesina nera sta racchiusa in un quadrato di muretti a secco. Nulla e nessun’altro nel raggio di chilometri.
Nel frattempo la bassa marea scopre sempre più porzioni di rosa, l’effetto ottico è straordinario.
Riprendiamo la pista sterrata che segue la costa tortuosa, superando spiagge e luoghi solitari, fermandoci ancora una volta su una spiaggia di fine sabbia bianca.
Il sole compare esattamente ora, ci troviamo così a osservare un mare trasparente, con le varie sfumature che passano dal turchese al blu. Colori di Sardegna, bellezza e tepore che ci godiamo a lungo e che lasciamo a malincuore.
La strada sterrata continua a correre a tornanti o diritta come una fucilata, attraversa zone verdi oppure pietraie chiazzate di muschio giallastro o neve e ghiaccio che sciogliendosi danno origine a innumerevoli ruscelli, cascatelle, corsi d’acqua sinuosi che ci riportano con il pensiero al Delta dell’Okavango visto dall’alto di un aereino.
Ultima sosta al cospetto di una cascata, Dynjandi, che compie vari salti su gradoni muschiosi, tappezzati di fiori gialli.
Ci inerpichiamo fin sotto l’ultimo salto, il più bello, che si allarga in una sorta di drappo. L’acqua nebulizzata ci bagna, il suo scorrere continuo ci ipnotizza, mentre il fragore copre ogni altro suono.
Dormiamo in una scuola convitto, con vecchie foto di scolaresche appese alle pareti.
Sistemazione molto spartana che mette alla prova il nostro spirito di adattamento.
18 luglio 2014
L’itinerario nei West Fjords continua verso nord e anche la nostra meraviglia per un paesaggio vario e selvaggio sembra non aver fine.
Ci fermiamo in un luogo delizioso, una cartolina. La prima immagine catturata dai miei occhi è una casetta rossa (un rifugio aperto ai turisti) collocata su una piccola altura verde, alle spalle l’acqua di un fiordo, davanti l’acqua di un fiume, attorno prati verdissimi, fioriti, e su un fianco una montagna scura e innevata.
Un ponticello ci permette di attraversare il fiume e di avvicinarci alla casa. Fotografiamo così Helgy impegnato in uno dei tanti guadi. Scendiamo poi in una spiaggia di sassi, grigia, dove le sterne hanno posato i nidi e che al nostro avvicinarci volano minacciose, rasentando le nostre teste, scoraggiandoci a proseguire. Ci spostiamo a distanza di sicurezza e gli uccelli subito si tranquillizzano. Abbiamo già avuto modo di osservare l’aggressività ostentata dalle sterne per proteggere i piccoli, è quindi giusto farsi da parte rispettandone una fase delicata della riproduzione.
Dopo tanto isolamento, quasi irreale appare la cittadina di Isafjordur: lunga lingua di terra che si protende nel mare, esattamente nel mezzo di un fiordo. Graziose casette colorate sembrano sospese sull’acqua.
Imbocchiamo una serie di lunghe gallerie, la strada è stretta al punto che, per il rientro delle poche auto che giungono in senso contrario, sono state scavate nella roccia diverse nicchie laterali.
Raggiungiamo la sommità di una scogliera. Viaggiando tra le nuvole la visibilità è limitata.
In un’atmosfera quasi spettrale, compare una sfera metallica. Probabilmente è un radar, mi piace invece immaginare una grossa luna piena che sale direttamente dal bordo del dirupo.
Ci fermiamo per una passeggiata, da questo punto si dovrebbero vedere i “bracci”, 4 o 5, di fiordi che si susseguono, in realtà vediamo un abisso ricolmo di nebbia, come una caldera fumosa. Un cartello segnaletico molto eloquente avverte di non avvicinarsi ai margini della falesia, friabile e pertanto con serio pericolo di precipitare.
Neve e fango rendono difficoltosa la camminata che si conclude in poco tempo e con gli scarponi che pesano il doppio.
Per tornare a Isafjordur, Helgy percorre la vecchia strada costiera, ora chiusa al traffico.
Un occhio al panorama, con belle montagne innevate che finiscono in mare, e un occhio alla strada con i segni delle numerose frane che ne ingombrano il ciglio ma anche la carreggiata.
Siamo grati al driver per la deviazione “off road”.
Visitiamo la suggestiva cittadina di Isafjordur, con le colorate case di nuova e antica costruzione dall’architettura omogenea e armoniosa.
Scegliamo, tra i diversi, un curioso locale, si tratta di una pasticceria con torte dolci e salate dietro la vetrina del banco e un assortito campionario di scarpe da trekking esposte sulle mensole. Ci compiacciamo di indossare le stesse scarpe (modello Mojito / marchio Scarpa) prodotte in Italia ma maggiormente apprezzate all’estero.
Concludiamo la giornata con una passeggiata sugli scogli resi scivolosi dalle alghe, ignorando il rischio di cadere in quanto unico modo per avvicinarsi a un gruppo di foche.
La desolata penisola di Homstrandir e il ghiacciaio Drangajokull dominano il fiordo e costituiscono il panorama della serata.
Dormiamo fuori città, in una capannina di legno con soli 4 letti, bagno “open air” e un po’ di rancore perché, neanche si trattasse di una lotteria, ci è toccato il “premio” più scadente.
Ceniamo in un ristorante più a monte, dove sono dislocate stanze più accoglienti e un cottage, frequentato da un vivace e dolcissimo volpacchiotto dal pelo bruno, purtroppo orfano e abituato all’uomo, tanto che non è difficile accarezzarlo o, addirittura, prenderlo in braccio.
Da appassionati di animali allo stato selvaggio la cosa è contro natura e proviamo dispiacere per la povera bestiola.
Torniamo alla nostra triste capannuccia, a piedi, camminando tra prati fioriti, ruscelli, costeggiando un torrente, osservando increduli i bambini che, a notte fonda, giocano a piedi nudi, in calzoncini e maglietta. Paesaggio rilassante.
19 luglio 2014
La tappa di oggi prevede un lungo trasferimento e l’abbandono dei fiordi occidentali.
Flash della giornata:
La strada segue la linea costiera frastagliata da una serie di profondi fiordi; ora viaggiamo sul lato sinistro di un braccio di mare, dopo chilometri su quello esattamente opposto, la cosa si ripete per diverse volte;
Il transito su una diga, passaggio poco più largo del supertrack. Costeggiamo un immenso, inquietante, lago artificiale. Acqua grigia, limacciosa, mossa dal vento in vere e proprie onde;
Una sosta al villaggio di Holmavik per la visita del museo delle streghe che Sandro e io disertiamo per dedicarci alla ricerca di uno sportello automatico. L’odore acre nei pressi di una fabbrica di lavorazione del pesce;
La cascata di Kolugljufur che si getta in una profonda gola;
Una fumante piscina all’aperto, affollata nonostante il clima piovoso e umido;
La sottostante spiaggia con interessanti formazioni di basalto colonnare;
Holar: la facciata della chiesa in pietra rossa, le tavole scolpite e i variopinti personaggi raffigurati. Il complesso di casette con la torba sul tetto. La pioggia;
Un borgo di pescatori, il ponte che scavalca un torrente, case nere con gli infissi bianchi, vasi di fiori, panchina bianca e bandiera islandese. Un molo di legno, il porticciolo, una casetta in cima alla collina e un’altra con la barca parcheggiata in giardino. Un bel campionario per l’ipotetica scelta della casa dei nostri sogni.
Dormiamo in bellissimi cottage di legno affacciati su una placida laguna, coronata da montagne chiazzate di neve. All’esterno di ciascuno vasca jacuzzi e kayak a disposizione dei più sportivi o “pazzi”.
20 luglio 2014
Al risveglio il panorama è lo stesso, ma splende il sole. Sparito il grigiore, il cielo e la laguna sono azzurri, le poche nuvole bianche e le montagne meno cupe.
Indecisi tra una mezz’ora in veranda a beneficiare del tepore e tra una passeggiata nel villaggio, scegliamo la seconda opzione.
Non c’è molto da vedere: un albergo, una sorta di centro commerciale, una fila di case che sembrano prefabbricate e, al di là di un muretto basso, un cimiterino. Sul prato croci bianche e piccole lapidi. Ci incuriosiscono i nomi, lunghissimi, tutti terminanti in “dottir” o “sson”.
Stefano, più tardi, ci spiegherà che gli islandesi non si chiamano tutti allo stesso modo e che la desinenza sta per “figlia di” (dottir) e “figlio di” (sson).
Un colorato Pinocchio seduto ai piedi di una croce attira la nostra attenzione sulle date di nascita e morte. Scopriamo con sgomento che il cimitero ospita molti, troppi, neonati di pochi mesi e bambini che non superano i due / tre anni d’età.
Consanguineità = malattie genetiche: questa la ragione dell’elevato tasso di mortalità infantile.
Partiamo alla volta di Akureyri dove spendiamo buona parte della mattinata.
Cittadina affacciata sul mare, gode di un porto navale
La pedonale via centrale è ricca di negozi, bar, ristoranti, vasi di fiori e anche di folla scaricata dalle grandi navi da crociera.
Fatto qualche acquisto, risaliamo un ripido viottolo fiancheggiato dal muro di un edificio abbellito con murales che raffigurano l’aurora boreale, un gigantesco occhio e altre figure astratte: nell’insieme molto bello. In cima alla collina troviamo un agglomerato di graziose casette variopinte, con basse staccionate, sculture in legno e minuscoli giardini fioriti. Da quassù si ha anche una bella veduta della slanciata chiesa progettata dall’architetto islandese Samuelsson.
Percorriamo, in seguito, la via con le case più antiche; un insieme di edifici in legno, la maggior parte a due piani, con torrette, balconcini, abbaini, verande, finestre decorate. Difficile, tra queste eleganti dimore dai colori pastello, scegliere la più bella.
Ci avanza ancora del tempo per la scoperta di piazzette raccolte e vie defilate.
L’itinerario prosegue verso est, non siamo costretti a impegnative camminate per ammirare la bella cascata di Godafoss, si trova infatti ai margini della strada.
Un facile sentiero ci permette di raggiungerne la sommità, ne abbiamo così una visione laterale molto ravvicinata. Non si tratta di un grande salto, ma possiede un ampio fronte, intervallato nel mezzo da due roccioni che spezzano la cascata in tre parti.
Riprendiamo il sentiero che costeggia il fiume e che lo attraversa con un ponte dal quale si gode di una visione frontale della cascata. La turbolenza delle rapide non impedisce a un trampoliere di stare in perfetto equilibrio su un masso.
Attraversiamo una vallata che ospita un enorme impianto geotermico con pozze d’acqua bollente e condotte che, come una ragnatela, ridisegnano il terreno.
Superata una collina si materializza un’area di discrete dimensioni con fumarole, pozze di fango bollente e altri fenomeni che testimoniano quanto ribolle sotto l’Islanda.
Ignorato il lago Myvatn, la nostra meta è il campo lavico di Leirhnjukur / Krafla.
Percorriamo un sentiero, su passerelle di legno, in un ambiente costituito da modesti rilievi color pastello con sfumature rosa, brune, gialle, violacee, bianche, grigie. Sul suolo chiazze di vegetazione che le pecore brucano.
Questi i colori sino a un laghetto, dalla forma irregolare, con acqua sulfurea in ebollizione.
Il contrasto delle chiare tinte pastello con il nero lavico è impressionante.
Camminare sulla crosta lavica, tra nubi di vapore che fuoriescono da fenditure delle rocce, l’odore di zolfo, le delicate formazioni di cristalli colorati che evitiamo di calpestare è un’esperienza che fa pensare ai gironi infernali danteschi.
Da un’altura sono ben visibili una lunga e netta spaccatura e un impressionante fiume di lava pietrificata. Immaginandolo allo stato liquido e in movimento non si può far a meno di rabbrividire.
Nei dintorni facciamo un’ulteriore sosta per salire al cratere del vulcano Hverfell: una meraviglia di “velluto” (cenere) grigio. Purtroppo, una volta in cima, non abbiamo il tempo sufficiente per compiere l’intero giro attorno alla caldera.
Segue una fugace visita ai pilastri di Dimmuborgir che, sinceramente, non mi scatenano nessuna emozione, mentre invece gli pseudocrateri* del lago MYvatn sono una visione incantevole.
* Pseudocrateri: durante le eruzioni dei crateri orientali del Mivatn il magma raggiunse la superficie del lago attraversando i precedenti campi lavici. Qui l’acqua imprigionata dalla lava provocò forti getti di vapore per l’alta temperatura raggiunta; queste esplosioni ruppero la superficie lavica e formarono modesti crateri di differenti dimensioni, da un paio di metri di diametro, fino ai 300 m. Questi piccoli coni sono visibili dappertutto a Myvatn, anche se la visuale migliore si ha, naturalmente, dall’alto.
Pernottamento in campagna. Una fila di graziosi cottage bianchi, con verandina, vista campi e balle di fieno, per tetto e un ristorante rustico, che serve ottimo cibo, per cena.
21 luglio 2014
Si parte presto, il programma di oggi prevede una sola località: A come Askja, A come avventura.
Apprezziamo la comodità e la grinta del supertruck che, modificato con ruote da 46 pollici, supera guadi, procede su piste sabbiose, rocce laviche e qualsiasi tipo di terreno, con agilità, attutendo i sobbalzi tanto che non ci si rende conto di quanto il percorso sia accidentato.
Il bolide, di cui Helgy va orgoglioso, è spesso oggetto di interesse di altri turisti e fotografi. Capita spesso che qualcuno chieda il permesso di fotografarlo o di farsi fotografare accanto a uno dei suoi pneumatici dentati.
La pista per Askja è molto panoramica, siamo anche favoriti da un sole spudorato; il cielo è azzurro e non c’è ombra di nuvola.
Attraversiamo deserti di lava, sabbie nere solcate da fiumi, campi di pomici, oasi incredibilmente vegetate e fiorite, un laghetto che fa da specchio a Herdubreid, la montagna regina, molto amata dagli islandesi. Quest’ultima immagine ricorda un paesaggio alpino.
La pista termina in un parcheggio, non molto affollato. Da qui in poi camminiamo in salita, in un nevaio che scopre rade chiazze laviche, nere come catrame. Attorno montagne innevate con le cime scure che emergono dal bianco. La caldera di Askja, in seguito a “recenti” (1875) eruzioni, è a sua volta collassata in due punti:
Il maggiore è occupato dal lago Oskjuvatn, molto profondo, dall’acqua blu, coronato da scure creste chiazzate di neve;
Il piccolo Viti, più in alto, è un laghetto circolare di modeste dimensioni e profondità, con acqua sulfurea bollente. Le scoscese pareti rocciose che lo racchiudono hanno le caratteristiche tonalità rossicce e multicolori.
Il panorama è spettacolare da qualsiasi angolazione, in particolare dall’alto sperone di roccia che separa i due bacini. La neve, i colori dell’acqua dei due laghi e delle rocce trasmettono un assoluto senso di pace, si fatica a credere che tutto questo sia il risultato di un tumulto scatenato dalla natura e da forze che provengono dal sottosuolo.
Il mistero dei due scienziati tedeschi annegati nel grande lago, i cui corpi non sono mai stati ritrovati, aleggia ancora nell’aria.
Probabilmente siamo gli ultimi visitatori ad ammirare Askja con questa conformazione. Circa 24 ore dopo il nostro passaggio, una consistente porzione di montagna franerà nel grande lago, la massa rocciosa provocherà uno tsunami e l’onda d’acqua, alta tanto da superare il naturale sbarramento che separa i due laghi, finirà nella conca del lago piccolo.
Islanda, terra in costante fermento e in continua mutazione!
Il ritorno è per la stessa via, termina con altri guadi, una graziosa cascatella e campi con le ormai consuete balle di fieno “vestite” di bianco, ma se ne vedono anche di azzurre, verdi e persino nere.
Pernottamento sopra Akureyri, in una bella e grande casa, con molte spaziose stanze, un grande salotto, terrazza e vetrate panoramiche.
Cena presso il buffet di un albergo in città.
22 luglio 2014
Con un altro entusiasmante percorso fuoristrada, seguendo la pista Kjolur, attraversiamo l’Islanda da nord a sud, superando l’area desertica che si estende tra due grandi ghiacciai: Hofsjokull, sulla nostra sinistra, e, a destra, Langjokull, rispettivamente terzo e secondo per dimensione.
L’area geotermica di Hveravellir invita a una sosta.
Interessante il percorso, su passerelle di legno, tra soffioni di acqua bollente, vapore che fuoriesce da fessure coniche, pozze di fanghi ribollenti e altri fenomeni, oltre a una piscina naturale dove è possibile fare il bagno.
Stefano è stranamente misterioso sulle località che, da qui in avanti, andremo a visitare.
Ci fermiamo nei pressi di uno strapiombo, ma non abbastanza vicino per vedere, attraverso i finestrini, cosa c’è sotto.
Ci avviciniamo con cautela e, una volta affacciati, il coro di meraviglia è unanime. Sotto di noi, in tutta la sua maestosità e bellezza, si apre un canyon; sul fondo un fiume che, scorrendo attorno a un enorme cono di roccia, crea un’ansa dalla forma di ferro di cavallo.
La successiva meta, sul programma di viaggio descritta come “montagna delle streghe”, è – se possibile – ancora più affascinante.
Kerlingarfjoll: una vallata con rilievi dalla forma conica, i fianchi ripidi, rocce dai molteplici strati di colori, residui di neve che sciogliendosi in cascatelle rigano i pendii e vanno a formare un reticolo di fiumiciattoli, macchie di vegetazione, vapore che si sprigiona dalle rocce e che avvolge il paesaggio conferendogli un aspetto irreale, fiabesco.
Scendiamo nella valle “stregata” per ripide scalette, risaliamo i fianchi delle montagne, camminiamo in cresta, superiamo corsi d’acqua fredda e sorgenti calde su traballanti ponticelli di assi di legno, sostiamo davanti alle pozze di fango che ribolle, veniamo inghiottiti dai vapori e ne usciamo come per magia.
Camminiamo, instancabili, a caccia di fenomeni sempre diversi ed è davvero difficile tornare sui nostri passi e ripartire.
Terra, acqua, aria, fuoco, sono qui concentrati tutti gli elementi.
Sulla pista sterrata e dopo alcuni guadi, il supertruck ha assunto un aspetto vissuto, è ricoperto di una crosta di fango e polvere rossa, suscita ancor più l’interesse di viaggiatori e fotografi che fanno cerchio attorno a noi nell’affollato parcheggio di Gullfoss.
Cascata molto nota e spettacolare che compie due salti: il primo su una larga piattaforma rocciosa, il secondo in un canyon stretto tra verticali pareti di roccia.
Un facile sentiero ci permette di arrivare ad affacciarci sul primo salto. Da questo punto panoramico ravvicinato vediamo le rapide del fiume; veniamo investiti da spruzzi d’acqua quando, poco più sotto, la cascata si allarga e, compiendo il secondo salto, si getta nella stretta e profonda gola.
Bagnati dalla cascata e, ora, anche dalla pioggia, ci avviamo verso la più famosa area geotermica d’Islanda: Geysir.
Già da lontano si scorgono gli alti getti di Strokkur, il solo geyser attualmente attivo.
Ci disponiamo attorno alla pozza in attesa delle sue evoluzioni: una bolla d’acqua che si gonfia fino a esplodere in un getto alto decine di metri.
Il fenomeno si ripete, ma non ha cadenza regolare, così ci prende alla sprovvista quando Strokkur soffia per ben tre volte consecutive oppure quando, nonostante l’obiettivo puntato, si fa attendere più a lungo.
Piove a dirotto ma, tenaci, non ce ne andiamo fino a che non riusciamo a fotografare la bolla gonfia un attimo prima di scoppiare che, curiosamente, sembra gelatinosa e sulla sua superficie rimbalzano le gocce di pioggia.
Troviamo il “gioco” parecchio divertente.
Cena in un ristorante molto grazioso, anche se gli hamburger di renna ci lasciano perplessi, così come l’eccessivo elogio, da parte del proprietario del locale, di una mousse di cioccolato assolutamente ordinaria.
Notte in un bellissimo appartamento, moderno e spazioso. A noi è toccato quello di testa, quindi con panoramiche vetrate angolari e finalmente, dopo sei giorni consecutivi di docce e servizi condivisi, con bagno privato. Ci voleva!
23 luglio 2014
Viaggiamo nell’arida zona lavica del vulcano Hekla, uno dei più temuti. La tappa odierna non prevede un lungo spostamento, ma si preannuncia ricca e la giornata, pur con 24 di ore luce, ci sembrerà troppo corta. Apprezziamo, quale primo assaggio paesaggistico, la doppia cascata Hjalparfoss. Due fiumi e relative cascate convergono nello stesso punto, gettandosi nelle limpide acque di un laghetto dalla forma circolare. Più tardi, tra le rovine della fattoria vichinga di Stong, seguiamo le spiegazioni su una porzione di vita e di storia antica. La verdeggiante oasi di Gjain vista dall’alto è un preludio al paradiso. Come bimbi impazienti e curiosi scendiamo nell’Eden, a passo sostenuto, per godere da vicino della bellezza di molteplici cascatelle, di laghetti color smeraldo, del fiume che serpeggia tra il verde e i massi rocciosi, di sentieri che tagliano la vegetazione rigogliosa, di funghi che sembrano scolpiti nel legno, di pareti di basalto. Valore aggiunto il sole che esalta colori e trasparenza dell’acqua che qui scorre in abbondanza. Lo “spettacolo a sorpresa”, citato nel programma di viaggio nonché tormentone da qualche giorno, si traduce nello stupendo anfiteatro naturale in cui si getta la cascata di Haifoss. Una gola circolare profonda oltre 120 metri, con evidenti i diversi strati rocciosi.
Poco oltre una seconda cascata. Trattengo il respiro sporgendomi in prossimità delle cascate e anche per contemplare il fiume che solca il vertiginoso fondovalle. Standing ovation a Stefano in segno di apprezzamento della sorpresa. Ci fermiamo nei pressi di un altro luogo affascinante: si tratta di un canyon meno profondo del precedente, con innumerevoli cascatelle che si tuffano nel tortuoso fiume sottostante che, dalla colorazione dell’acqua, turchese e lattiginosa, si direbbe di origine glaciale. Camminiamo lungo la frattura per cogliere diverse angolazioni di questo particolare ambiente. Una parete è verticale, solcata da cascate e verdeggiante di muschio, l’altra è più digradante, grigia e friabile. Il sottostante fiume ora si divide in due scoprendo, nel mezzo, isole ghiaiose, ora scorre diritto mentre – in taluni tratti – è serpeggiante e scivola attorno a marcate anse create dai massi. Anche questa meraviglia è baciata dal sole. Seguiamo poi una pista di sabbia nera. I fianchi di montagne altrettanto nere, ingentilite dal colore giallastro del muschio, si gettano in una sorta di acquitrino dall’acqua azzurra. Segue un lago coronato da un massiccio di riolite rossa. Paesaggio attraente e spettrale al tempo stesso che la nebbia di basse nuvole svela solo un poco per volta, smorzandone i colori. Un ultimo impegnativo guado ci separa da Landmannalaugar. Insieme di aguzze rocce vulcaniche, estese praterie, un fiume con pozze d’acqua di varie temperature, ma – soprattutto – montagne colorate per effetto dei minerali che conferiscono incredibili sfumature di rosso, porpora, giallo, verde, rosa, grigio, etc.
Ci vengono proposte due attività: un lungo bagno nelle pozze geotermali oppure un trekking ad anello.
Invitanti entrambe, ma scegliamo la seconda.
Trascorriamo così un paio d’ore immersi tra i colori pastello delle montagne, le creste vulcaniche, le fumarole, l’odore di zolfo, un minuscolo lago turchese e relativo micro nevaio e, infine, un torrente con il suo greto sassoso contornato da formazioni di roccia grigia, verde e rossiccia.
Un recinto con bellissimi cavalli islandesi e un vecchio bus tinto di verde che ricorda una diligenza ci fanno pensare al Far West, ma quanto stiamo vedendo non è un film Western.
Guadi, pista scura, montagne nere, colline vellutate e molto altro segnano la fine di questa lunga e ricca giornata.
Notte in cottage e cena in una sorta di capannone con cucina in condivisione con un gruppo di spagnoli. Pioggia.
24 luglio 2014
Diretti a est, attraversiamo il “deserto” alluvionale di Skeidarsandur.
A testimoniare la recente (1996) eruzione subglaciale, e conseguente inondazione, un ponte spazzato via dalla furia di acqua e ghiaccio, ora accartocciato e arrugginito, una sorta di “monumento” alla memoria.
Altro segnale eloquente: un lungo ponte che attualmente pare scavalcare il nulla di una distesa di tipo morenico. Nella realtà, a causa della stessa inondazione, il fiume che scorreva qui ha cambiato completamente il suo corso.
Raggiunto il parco nazionale di Skaftafell, con una piacevole passeggiata arriviamo ai piedi di Svartifoss, la “cascata nera”.
Famosa non tanto per il suo modesto getto d’acqua, ma per lo scenario che la circonda: un anfiteatro di colonne di basalto, alcune delle quali sembrano precipitare dall’alto della parete rocciosa esattamente come la cascata. Il ritorno è per un diverso sentiero, più ripido, che si snoda tra distese di fiori bianchi e prati verdissimi. Sulla costa meridionale, l’arretramento di alcuni ghiacciai facenti parte dell’immensa calotta glaciale Vatnajokull ha dato origine a diverse lagune. La prima che visitiamo è chiamata laguna del maiale. Ghiacciaio, acqua e blocchi di ghiaccio hanno striature terrose, l’insieme si presenta “sporco”. Il clima nebbioso non contribuisce a modificare le nostre impressioni. La seconda laguna ha un aspetto migliore, ma non scatena grandi emozioni. Superato un ponte che, questa volta, attraversa un vero fiume, il colpo d’occhio sulla laguna di Jokullsarlon è decisamente altra cosa. Iceberg, non proprio giganteschi, ammassati, di varie forme e colorazioni, galleggiano sul lago. Il ghiaccio è compatto, striato di azzurro e grigio, ma ce n’è anche di spugnoso oppure trasparente e cristallino ormai all’ultimo stadio dello scioglimento. Anche qui clima nebbioso, ma con velocità impressionante il cielo si rasserena; nel grigio si aprono ampi squarci di azzurro e altrettanto rapidamente, nel paesaggio, cambiano colori e riflessi. Qualche timida foca ci mostra il muso baffuto per poi immergersi completamente quando tentiamo di fotografarla. Abbiamo più successo con le sterne artiche che si tuffano in velocità e quasi sempre riemergono con un pesce nel becco. Fanno la spola tra acqua e terra dove i piccoli attendono di essere imbeccati. La permanenza qui è lunga e la cosa ci fa molto piacere. Mentre alcuni di noi effettuano la navigazione, con un mezzo anfibio, tra gli iceberg e ai margini del ghiacciaio, Sandro e io ci divertiamo a fotografare le sterne, cosa non facile. Passeggiamo sulla riva della laguna e sulla collina per godere di panoramiche differenti e, infine, ci spostiamo in un’area erbosa per rendere omaggio anche alle pecore. Ma c’è un limite da non superare, ce ne rendiamo conto dall’aggressività delle sterne che non ci permettono di avvicinarci alle zone dove hanno posato i nidi. Ancora qualche scatto agli iceberg e un saluto alle sterne che, a decine, hanno colonizzato una piattaforma di ghiaccio galleggiante. Alloggio in una guesthouse con stanze talmente nuove da non essere ancora del tutto ultimate, siamo infatti i primi occupanti. Stanza ben arredata, spaziosa, con affaccio su un lago, bagno ultramoderno. Squisita cena a buffet in un ristorante di design. Esteriormente raffigura una fila di libri, mentre all’interno si può ammirare una installazione costituita da un insieme di originali creazioni.
25 luglio 2014
Il viaggio è, purtroppo, giunto al termine, ma – prima del rientro a Reykjavik – abbiamo ancora del tempo da dedicare alla costa sud. Anticipiamo la partenza per tornare alla laguna di Jokullsarlon che, con il sole, è ancora più spettacolare. Dietro la massa di iceberg, oggi si vede nettamente il ghiacciaio che scivola in acqua come un candido fiume. Attraversato il ponte a ritroso, scendiamo alla spiaggia nera, nel punto esatto dove il fiume, che nasce dalla laguna, termina in mare. Seguiamo alcuni iceberg che, catturati dalla corrente, sfilano rapidi e, una volta raggiunto l’oceano, li vediamo sobbalzare, schiaffeggiati dalle onde. La sabbia scura è disseminata di blocchi di ghiaccio, trasparenti. Bellissimo il contrasto, ma fanno tenerezza, ormai è tutto quel resta di un grosso iceberg che ora, agonizzante, sta per esaurirsi. Salutiamo definitivamente ghiacciai e iceberg, con un’ultima sosta a una diversa laguna che raggiungiamo con una breve passeggiata. Ai margini della Ring Road, la strada principale n. 1 che compie il periplo dell’isola, c’è un minibus in difficoltà. E’ irrimediabilmente insabbiato e bloccato. E’ guidato da un islandese, non ha trazione integrale e ha normalissime ruote, ci meravigliamo di tanta leggerezza, ma con il supertruck e una fune robusta, Helgy si guadagna un reportage di tutto rispetto e un coro di Evviva e Urrà. Momento molto divertente, durante il quale mi piace fotografare, oltre al traino, anche i compagni di viaggio impegnati a dare una mano o a fotografare la scena. Tra parentesi questo è il secondo salvataggio compiuto da Helgy. Qualche giorno fa abbiamo soccorso, con un compressore, un automobilista con una gomma buca e quella di scorta totalmente sgonfia. Ormai ci sentiamo un “rescue team”. Ulteriore sosta presso una spiaggia nerissima con le onde oceaniche che si frangono con forza. Sembra di assistere alla proiezione di una vecchia pellicola in bianco e nero. Sulla sabbia scura spiccano piccoli cespugli di piante, forse grasse, con le foglioline verdi sopra e un intrico di rami gialli sotto. Ci fermiamo in un luogo che non ha bisogno di parole per descrivere quanto i profili dell’Islanda siano in continua mutazione. Enormi isole di roccia ricoperte di muschio, un tempo bagnate dall’oceano, ora svettano sulla sabbia vulcanica. Camminiamo ai piedi di queste insolite isole e scogli ed eleggiamo il sito quale teatro delle nostre ultime foto di gruppo. Stefano piazza il cavalletto, programma l’autoscatto e corre verso il gruppo, mentre io fotografo il fotografo a sua insaputa. C’è poi il “pilota di Rally” che sta in Helgy che si cimenta in corse sfrenate sul manto nero, che non è asfalto, attorno a quelle che un tempo erano isole e, infine, raggiunge il lontano bagnasciuga. Altra spiaggia, altra fermata per ammirare una grotta di colonne di basalto che pendono dal soffitto come stalattiti. Un paio di bimbi biondi stanno beatamente seduti a metà di un’alta parete di basalto. Li guardiamo con apprensione, ma i genitori sono tranquilli e poi, nel vederli scendere, ci rendiamo conto che arrampicarsi sul basalto è più facile di quel sembra. A chiudere la baia una coppia di faraglioni: uno tozzo, massiccio, l’altro sottile e slanciato.
Alle spalle della spiaggia, una caffetteria che ancora una volta ci meraviglia per la modernità e il gusto del suo progettista. Quale ultima tappa sulla costa meridionale, Dirholaey. Una scogliera, popolata da pulcinella di mare, offre splendide vedute sulle sottostanti chilometriche spiagge sferzate dalle onde. Spiagge che in contrasto con il verde della vegetazione sembrano cupe strade di asfalto. Da quassù si ha, inoltre, una visione d’insieme della spiaggia con la grotta. Una penisola sabbiosa si protende nel mare, un faraglione sembra arrestarne il percorso, sullo sfondo montagne verdeggianti e infine l’altro capo della spiaggia con i due faraglioni già visti da vicino. L’ennesima cartolina islandese. Camminiamo sopra la falesia sino a un pittoresco faro bianco e, oltre, sino ad avere una bella panoramica su un possente arco di roccia. Il sole continua a favorirci. Dopo oceano e spiagge, le cascate.
Skogafoss: compie un salto di circa 70 metri, maestosa e imponente vista frontalmente e dal basso, ma fa la sua bella figura anche da uno stretto “balcone” di roccia che si raggiunge grazie a una scalinata.
Seljalandsfoss: ha invece una bellezza delicata. Si tuffa in una pozza da una sessantina di metri. Non essendo il suo getto ricco d’acqua come la precedente cascata, ho immaginato un elegante velo impalpabile .
Un sentiero scavato nella parete rocciosa permette di camminare dietro la cascata che si può ammirare da diverse angolazioni e l’impressione di delicatezza ed eleganza è rafforzata.
Senza nulla togliere alle altre cascate islandesi, Seljalandsfoss è quella che più mi ha affascinato.
Reykjavik, hotel Cabin, il cerchio si chiude, il gruppo si assottiglia ed è già tempo di saluti.
Helgy e Stefano ci lasciano esattamente dove ci hanno prelevato il primo giorno.
Salutiamo anche chi parte alle 4 di domani mattina e, in un gruppo ristretto, seguendo il lungomare, andiamo in centro città a “caccia” di balene.
Non si tratta di un’escursione in mare, bensì di una cena con menu a base di carne di balena e filetti di puffin. Le specialità culinarie islandesi sono state apprezzate, ma io mi sono sentita meno in colpa ordinando filetto di tonno.
Passeggiata notturna, con la luce e una pioggerella fine, scegliendo un percorso più centrale.
Saluti definitivi a chi parte tra qualche ora.
26 luglio 2014
Ultime ore a Reykjavik. Sole, cielo azzurro e gruppo ancor più decimato.
Percorriamo nuovamente il lungomare, ammirando l’effetto ottico generato da una lastra metallica totalmente piatta, scultura che pare incredibilmente tridimensionale e che raffigura alcuni solidi geometrici sovrapposti; osserviamo lo skyline con i nuovi palazzi dal tetto a punta come le case tradizionali; fotografiamo un bel monumento in acciaio, opera stilizzata che vuol ricordare una barca a remi vichinga; sostiamo incuriositi da un pescatore che preso un grosso pesce lo ributta in mare; guardiamo una barca in legno per escursioni prendere il largo e raggiungiamo, infine, un porticciolo e il moderno edificio della Harpa Concert Hall.
Mi è difficile descriverne l’architettura, si tratta di una meraviglia di vetri che richiamano il colore blu del mare, intercalati con qualche vetro di colore azzurro, rosa, turchese, come a voler rendere un effetto madreperlato.
All’interno il reticolo di vetri è trasparente. Materiali e colori predominanti acciaio, nero, grigio.
No, davvero, non si riesce a descrivere, è da vedere e garantisco che si tratta di una costruzione stupenda.
La via centrale è ricca di vetrine e locali, mentre le stradine laterali sono una sfilata di graziose case colorate.
Resta il tempo per una visita alla Hallgrímskirkja capolavoro di quello che è stato definito lo “stile nazionale basaltico islandese”.
Il disegno della chiesa, simile a quella di Akureyri, è stato commissionato allo stesso architetto e ricorda appunto le colonne di basalto. Aspetto predominante del paesaggio islandese e fonte di ispirazione di Samuelsson.
I pareri sull’architettura della chiesa di Reykjavik sono discordi. Personalmente concordo sulla definizione “capolavoro”.
Un panino, una sosta su una panchina per godere dei caldi raggi del sole, alle 14 il trasferimento in aeroporto. Segue il volo per Malpensa, ultimi saluti e una volta a casa, a me e Sandro, pare strano di apparecchiare e cucinare solo per due.