Islanda agosto 2007

Islanda 17 – 28 agosto 2007, Dani & Cece, Diario di viaggio 17 agosto: Ci svegliamo in orario di lavoro, ma invece di andare in ufficio si parte per le ferie! Prendiamo il bus dell’ATVO delle 7,20 che arriva all’aeroporto di Treviso prima delle 8. Qui, troviamo una coda pazzesca al check-in della Ryan Air per Londra. Il bagaglio rosso...
Scritto da: Dani_Cece
Partenza il: 17/08/2007
Ritorno il: 28/08/2007
Viaggiatori: in coppia
Spesa: 2000 €
Islanda 17 – 28 agosto 2007, Dani & Cece, Diario di viaggio 17 agosto: Ci svegliamo in orario di lavoro, ma invece di andare in ufficio si parte per le ferie! Prendiamo il bus dell’ATVO delle 7,20 che arriva all’aeroporto di Treviso prima delle 8. Qui, troviamo una coda pazzesca al check-in della Ryan Air per Londra. Il bagaglio rosso nuovo di zecca di Cece pesa 18,3 kg quindi ci fanno pagare 24 Euro per i chili in sovrappiù. Lasciati i bagagli, andiamo al controllo pre-imbarco. Sono molto severi e Cece si deve togliere anche le scarpe. Arriviamo in zona duty free e ci sediamo sulle poltroncine. Commettiamo l’errore di rimanere seduti fino all’ultimo momento, così rischiamo di rimanere a terra. Non ci resta che saltare la fila (comprendente anche persone dirette a Dublino) e correre. Prima dell’imbarco, veniamo sottoposti ad un altro controllo a campione e ci aprono gli zaini: ma abbiamo la faccia da delinquenti?? A causa di errata indicazione del poliziotto con lo scazzo, rischiamo di salire sull’aereo per Dublino. Presi finalmente i posti, affrontiamo un’ora e 45 minuti di volo uno davanti all’altra. Arriviamo a Stansted in orario (con un brusco atterraggio): le nubi grigie non mancano e sono il preludio di ciò che ci aspetterà in Islanda. Ritiriamo i bagagli e torniamo alla sezione Partenze. Qui, facciamo il check-in in un baleno. Lo stesso dicasi per il controllo pre-imbarco: molto meno rigido che a Treviso, forse perché abbiamo il biglietto “fast track”. Troviamo il nostro gate, andiamo nei bagni con l’asciugamani elettrico più potente del mondo e ci mangiamo i nostri panini in attesa della partenza. L’ansia da coincidenza voli scende poco a poco. La sfiga vuole che capitiamo in una fila da tre posti e che accanto a noi salga un tipo che si porta appresso una puzza pazzesca: un misto di odore di sudore, aglio, alcool, sporco… le tre ore di volo accanto a lui non sono facili. Arriviamo a Keflavik in orario (dopo aver portato indietro di un’ora l’orologio per la seconda volta). Dall’aereo il paesaggio è piuttosto “lunare”. La temperatura è più alta di quello che ci aspettavamo, il cielo è parzialmente coperto e non c’è vento. La consegna dei bagagli è pressoché immediata. L’aeroporto è incredibilmente silenzioso, a parte un tipo travestito da Elvis che improvvisa un canto. Facciamo il biglietto per il Flybus al ticket office a destra dell’’uscita, nella hall dell’aeroporto zona arrivi. Saliamo sul bus posteggiato appena fuori. Con noi, un sacco di giovani con cassette di birra tra le braccia. Si staranno preparando per il famoso runtur di Reykjavik del venerdì sera? In bus ci chiedono in quale alloggio dobbiamo andare: ci fermeranno davanti. Il bus parte alle 15.30, sono 49 km di paesaggio lunare. Sulla destra, poco dopo la partenza, vediamo un cartello “drive safely in Iceland” e un piedistallo con sopra ciò che resta di una Yaris rossa distrutta in un incidente. Lungo il percorso, ci sono anche statue di persone scolpite su scure rocce laviche. Alla nostra sinistra, l’oceano. La terra è scura, le rocce sono ricoperte di bassi e timidi muschi. Anche in Islanda, come in Scozia, il semaforo diventa arancione anche prima di diventare verde. La corriera ci lascia al capolinea della BSI, e dopo poco ci passa a prendere un minibus che ci porta proprio davanti alla Salvation Army Guesthouse. L’impatto non è dei migliori: due rampe di scale da fare con le valigie, receptionist seria, fredda e poco ospitale, che pretende il pagamento immediato. La stanza è un tugurio piccolissimo con un letto a castello e un lavandino. Al piano, i bagni e la cucina. Quest’ultima ha due frighi straripanti e delle stoviglie che ci fanno apprezzare di aver portato le nostre da campeggio. Per fortuna i bagni (tre per piano) sono puliti e ci facciamo subito una doccia. Dopodichè, sono circa le 18, usciamo a fare un giro per la città. Il sole va e viene e c’è un vento piuttosto freddo. Passando per Ingólfstorg (dove ci sono bambini che fanno skateboard), andiamo alla piazza Austurvollür, dove sorgevano i campi di fieno dei primi abitanti dell’isola. Vediamo l’Althingi, sede del Parlamento, e la cattedrale Dómkirkja del 1847, che sembra una chiesa protestante di quelle che si vedono nei film americani. Solo poi ci renderemo conto che tutte le chiese in Islanda hanno questo stile. Vediamo il lago Työrn, popolato di anatre e oche, e arriviamo poi alla via principale, con i lampioni a forma di tulipani, Bankastræti. Camminiamo lungo la via dei negozi Laugavegur (ci sono diversi negozi italiani) e poi saliamo a vedere la Hallgrimskirkja, imponente chiesa che sovrasta la città. Di fronte, la statua del vichingo che per primo scoprì l’America. Per strada, molti negozi hanno esposti in vetrina articoli di abbigliamento e calzature invernali, addirittura natalizi. Ad ogni via, incrociamo italiani. Incredibile, ci sono anche qui! Aleggia spesso un profumo di spezie e di curry. Per strada c’è poca gente, la città è tranquilla e poco trafficata… forse tutti usciranno più tardi. Le case sono per la maggior parte rivestite in lamiera. Gli ingressi sono separati dal corpo della casa e i garage sono delle costruzioni a sé stanti. Strade e marciapiedi spesso si confondono. Stanchi della lunga giornata, torniamo alla guesthouse e ceniamo coi nostri panini. Sono le 20.30 ed il sole è ancora alto. Fino ad ora, ci è parso che il popolo islandese sia freddo e poco accogliente. Staremo a vedere. 18 agosto: Trascorriamo una notte difficile a causa della luce che si protrae fino a tardi (sono provvidenziali le mascherine per occhi che ci siamo comprati prima di partire), del rumore che c’era alla guesthouse e, per Dani, della prima notte in vita sua trascorsa su un letto a castello dentro un sacco a pelo. Ci svegliamo alle 7.10, ma il cellulare di Dani suona alle 5.10 perché nel cellulare Dani non ha cambiato l’ora! Facciamo colazione in stanza perché la cucina è occupata, raccogliamo i bagagli e alle 8.25 siamo fuori ad aspettare la Lada Niva. Il sole splende e c’è una temperatura piacevole. È pieno di gente in pantaloncini corti. Solo poi scopriamo che c’è una maratona. Passano i minuti ma la Lada non si vede. Alle 8.45 Dani rientra alla guesthouse e fa chiamare l’autonoleggio dal tipo della reception. “Arriveranno fra dieci minuti”, mi dice dopo averli chiamati. Invece, vediamo arrivare un catorcio rosso bordeaux solo alle 9.05. La macchina sembra una Fiat 127 rialzata, è spartana all’inverosimile ma è dotata di un antifurto davvero all’avanguardia. Con qualche difficoltà, usciamo da Reykjavik in direzione Selfoss. La nostra prima tappa è Hveragerdi, famosa per il campo geotermico. Si tratta di una cittadina piena di serre dove coltivano piante e ortaggi. Nelle vicinanze, presso i campi da golf, si apre la “valle del vapore” Gufudalur, da dove fuoriesce vapore da diversi punti. Nell’aria, un’orribile puzza di uova lesse dovuta allo zolfo. Il geyser Gryla è lì in zona. Purtroppo non erutta in nostra presenza, ma fuoriesce solo del fumo/vapore. Riprendiamo il nostro gioiellino russo e andiamo a Selfoss, dove facciamo pipì e spesa al centro commerciale Nóatùn. Diamo un occhio ai prezzi e ci accorgiamo che effettivamente sono molto più alti che da noi. Il paesotto non offre niente, così ci dirigiamo verso Eyrarbakki, antico villaggio di pescatori. Sono interessanti alcune case restaurate (tra cui la Hùsiđ, una delle case più antiche d’Islanda), tutte rigorosamente rivestite di lamiera colorata, e la chiesa. Vediamo l’oceano e la statua del nano. Poi andiamo a Stokkaseyri, dove vediamo solo il capanno da pesca restaurato con tetto in erba Puriđarbùđ. Ritorniamo a Selfoss e andiamo verso Hella. Il tempo è sempre buono (bisogna però vestirsi a cipolla, perché l’aria è piuttosto fredda) e ci permette di ammirare da lontano il vulcano Hekla. A Hella, facciamo una piacevole pausa pranzo all’aperto su tavolino e panchina in riva al fiume Ytri-Rangà. Poi, abbiamo la grande idea di deviare sulla strada 264 per arrivare a Keldur. La strada non è asfaltata e il nostro fuoristrada ha spesso qualche difficoltà perché ci sono degli alti solchi lasciati dai pneumatici dei grossi fuoristrada. La fatica lunga 12 km viene ripagata dalla fattoria medievale, con la chiesa e annesso cimitero. Sullo sfondo, il vulcano Hekla si mostra in tutta la sua imponenza. Lungo la strada del ritorno, scorgiamo diversi cavalli autoctoni islandesi al pascolo. Riprendiamo la Ring Road per fermarci nuovamente alle cascate di Seljandfoss, alte ma con un getto limitato. L’arcobaleno che si crea rende il luogo ancora più magico. Cece arriva fino a dietro la cascata principale. Vediamo da lontano la cascata di Gljùfurarfoss, ma poi riprendiamo la Ring Road (alla nostra sinistra abbiamo i primi ghiacciai). Facciamo una pausa carburante e ci fermiamo a Skogarfoss, una cascata di 62 metri davvero impressionante. Ci sono diverse tende accampate nelle vicinanze. Dopo aver fotografato la cascata dal basso, decidiamo di salire la scala laterale (370 scalini!!!) e di arrivare in cima. Anche qui il paesaggio è mozzafiato. Stremati dall’arrampicata, non vediamo l’ora di arrivare a Vik. Qui, troviamo senza difficoltà l’ostello Norđur Vik, molto accogliente. Purtroppo, non possiamo dire altrettanto della casa privata in cui veniamo sistemati per non dormire in dormitorio. Pur essendoci le lenzuola, non trovandole pulite piazziamo i nostri sacchi a pelo. Il bagno e la cucina sono in condizioni pietose: tutto fa schifo. Mettiamo da parte il disgusto e, con tutte le precauzioni igieniche del caso, ci laviamo e prepariamo la cena. Subito dopo, ci mettiamo in camera e speriamo che arrivi presto mattina.

19 agosto: Ci svegliamo di buon ora ed abbiamo subito una brutta sorpresa: fuori si sente fischiare il vento e ticchettare la pioggia. Scostiamo le tende della camera e realizziamo che fuori è veramente brutto. Ci vestiamo a cipolla come al solito: maglietta della salute, maglia di cotone a manica lunga, pile, giaccone impermeabile da mezza stagione. Facciamo colazione e partiamo sotto una pioggia sottile che arriva anche orizzontalmente a causa del forte vento. Ci dirigiamo verso Dyrhòlaey, dove si trovano l’arco di roccia e i faraglioni di Reynisdrangar, che sembrano delle enormi dita uscite dall’acqua. Con la nostra super Lada percorriamo la pista 218, piuttosto accidentata. Le difficoltà sono accentuate dal fatto che, come in tutte le vecchie auto, i vetri della Lada faticano a spannarsi. Non possiamo nemmeno attaccare la ventola perché deve essere difettata, in quanto fa un rumore assordante. Lungo la pista, attraversiamo un suggestivo passaggio tra due bacini d’acqua. Posteggiamo l’auto, indossiamo pantaloni e giacca antivento e godiamo del meraviglioso paesaggio di rocce scure e scogliere altissime. Scendiamo alla spiaggia di lava e ciotoli neri e poi decidiamo di salire con l’auto sul promontorio, dove si trova anche il faro. Da qui, godiamo di una splendida vista dell’arco. Infreddoliti e umidi, torniamo alla macchina e ripercorriamo con qualche difficoltà e molti salti la pista. Oltrepassiamo Vik e ci muoviamo verso Kirkjubæjarklaustur. Il paesaggio attorno alla strada è molto particolare: stiamo infatti attraversando lo Skeiđaràrsandur, il più visibile e spettacolare dei sandur della costa sud-orientale. C’è una piatta distesa di sabbia nerastra intervallata da torbidi fiumi glaciali, che possiamo attraversare su stretti ponti a senso unico con scarsa visibilità, diffusi per tutta l’isola. Tutta la Ring Road, comunque, non è molto larga, e se pensiamo che si tratta della strada islandese principale, possiamo bene immaginare come devono essere le altre! In alcuni tratti il paesaggio del sandur lascia il posto ad una distesa irregolare di pietre ricoperte da muschio verde. Non essendoci niente di particolare a Kirkjubæjarklaustur, nella zona visitiamo solo la cascata Stjòrnarfoss, accessibile però solo da lontano perché chiusa da una recinzione. Ci dirigiamo con una certa fretta (sono già le 12.45) verso il Parco Nazionale di Skaftafell, mentre all’orizzonte già si scorge il ghiacciaio Vatnajoküll. Dopo meno di un’ora, arriviamo al parco (sempre sotto costante vento e pioggia e cielo uniformemente grigio), pranziamo e saliamo a piedi (50 minuti andata e ritorno, poca pendenza) lungo il sentiero che conduce a Svartifoss, la cascata circondata da colonne basaltiche, molto deludente rispetto alle aspettative. Scendiamo a riprendere l’auto, che parcheggiamo subito dopo allo Skaftafell Visitor Centre, punto di inizio del sentiero che conduce ai piedi della lingua del ghiacciaio Skaftafellsjoküll. Da lontano, la zona del ghiacciaio sembra semplicemente terreno innevato. Mano a mano che ci si avvicina, invece, ci accorgiamo che si tratta di una massa di ghiaccio frastagliata. Al contrario di ciò che diceva la guida, lo spettacolo è degno di un’ora di camminata in piano tra andata e ritorno: più il ghiaccio è vicino, più il paesaggio diventa lunare e scompare ogni forma di vegetazione. Tornati all’auto, riprendiamo la Ring Road verso la laguna di Jokursàrlòn. Durante il percorso, il paesaggio cambia ancora: a sinistra scorrono le montagne che fanno da bordo al ghiacciaio e si alternano tratti erbosi a muschi in ampie e pianeggianti valli. Ad un certo punto, alla nostra sinistra scorgiamo, dietro un’altura, degli iceberg: è solo un anticipo di quello che ci aspetta arrivati a Jokursàrlòn. L’emozione è davvero fortissima. La laguna è piena di una quantità indefinita di iceberg di tutte le forme e dimensioni. Alcuni bianchi, altri con delle striature nere dovute alla terra lavica, altri ancora di un azzurro incredibile. Parcheggiamo al volo l’auto e saliamo su un mezzo anfibio che, con un giro di 40 minuti, ci porta a fare una mini crociera in mezzo agli iceberg (2.300 ISK a testa). Il mezzo, dopo aver percorso un tratto su terraferma, entra senza esitazioni nelle acque della laguna. Qui, lo precede un piccolo gommone, con la funzione di spianare la rotta da eventuali iceberg sommersi. Giunti in mezzo alla laguna, la ragazza dell’equipaggio ci descrive la storia e la natura degli iceberg galleggianti. Scopriamo che il colore azzurro è solo un’illusione ottica dovuta al fatto che il ghiaccio non assorbe il colore azzurro, che quindi è l’unico ad essere riflesso. Avvicinandosi all’iceberg, ci si accorge infatti che il colore è bianco. Viene portato a bordo un piccolo blocco di ghiaccio perfettamente trasparente e viene fatto passare di mano tra i turisti. Viene poi fatto a pezzi e offerto da mangiare a tutti. Al termine del giro, infreddoliti torniamo all’auto e riprendiamo la Ring Road verso Höfn. Percorriamo un pezzo di strada con la paura di rimanere a secco, ma fortunatamente riusciamo a fare il pieno di benzina. Lungo il percorso, nelle vicinanze di Höfn, c’è un’enorme parabola a bordo strada. Arrivati a Höfn, troviamo l’ostello. Lasciamo le scarpe all’ingresso come richiesto e prendiamo possesso della nostra stanza, sobria ma decente. Lo stesso vale per bagno e cucina. Ahinoi, appuriamo che TUTTI gli ospiti dell’ostello sono italiani, così ci troviamo a scambiarci le esperienze di viaggio mentre ci prepariamo la cena. 20 agosto: Sveglia, colazione e alle 8.15 siamo già operativi. Oggi non piove e ci sono sprazzi di sereno. Andiamo a vedere il porto di Höfn, niente di che. Oggi ci aspetta una giornata on the road: giro dei fiordi orientali. La prima tappa è Djùpivogur e percorriamo la Ring Road, che in alcuni tratti non è asfaltata. Come al solito, non ci sono guard-rail a bordo strada (perché investire sulle strade quando un evento naturale qui piuttosto probabile potrebbe distruggere tutto in un baleno?!), tranne nei punti in cui gli strapiombi sono davvero alti. Le montagne a ridosso della strada sembrano franare da un momento all’altro, ma non esiste alcuna rete protettiva di quelle che ci sarebbero in Italia. Ovunque, lungo il bordo e talvolta in mezzo alla strada, capre al pascolo. In riva all’oceano, in alcuni punti vediamo delle zone coltivate. Le balle di fieno, presenti in tutto il territorio, sono avvolte in sacchi di plastica, forse per proteggerle dalla pioggia. Arrivati a Djùpivogur, ci aspetta una brutta sorpresa: una giovane donna, uscendo da una strada secondaria, ci urta sul lato sinistro, all’altezza della ruota posteriore. L’impatto è violento e Cece fatica a mantenere l’auto in strada. Scesi dall’auto tutti interi, verifichiamo i danni: la nostra super Lada ha solo una piccola botta e qualche graffio. Presa peggio, invece, la Toyota della ragazza. Contattato il Car Rental per farci dire come comportarci, compiliamo in inglese il modulo di constatazione amichevole prestampato in islandese. Purtroppo, la polizia ci metterebbe un’ora ad arrivare e quindi ci arrangiamo. La ragazza si assume tutta la colpa. Per di più, non ha con sé la patente… speriamo bene! Ancora spaventati, facciamo pausa al bar del paese per tranquillizzarci. Dopodichè, riprendiamo il percorso e attraversiamo Breiđdalsvik, Stotvarfjörđur, Faskruđsfjörđur e Reydarsfjörđur. Tra gli ultimi due fiordi, la mappa costateci 21 Euro dimentica di segnare un tunnel di 5,9 km che ci fa attraversare la montagna, evitandoci così il giro lungo la costa. A Reydarsfjörđur ci fermiamo per il pranzo. Purtroppo, nonostante ci sia il sole, siamo costretti a pranzare in auto per il troppo vento. La strada dei fiordi si arrampica ovunque ed è un continuo saliscendi, con curve che sembrano sospese nel vuoto. Di fronte a Faskruđsfjörđur, spunta imponente dall’oceano l’isolotto di Skruđur. Da Reydarsfjörđur lasciamo la costa e ci inoltriamo nel passo che porta ad Egilsstadir (lungo il percorso, cascate a gradini), che per gli standard islandesi è davvero una metropoli. Decidiamo di andare a vedere il lago Logürinn, che si dice sia popolato da un mostro come Lochness. Percorriamo la costa orientale, la cui particolarità è la foresta di betulle e abeti. Arrivati alla fine del lago e passati sull’altra sponda, vediamo Skriduklaustur, una semplice casa di pietra con tetto in erba. Poco più avanti, c’è la chiesa di Valpyòfsstađur, molto sobria in colori pastello. L’interno è molto semplice ma davvero gradevole. Ovviamente fuori c’è l’annesso cimitero. Sempre lungo la sponda ovest, lasciamo l’auto e percorriamo a piedi il sentiero (in alcuni punti abbastanza faticoso) che in tre quarti d’ora ci porta alla cascata Hengifoss, con strati di roccia rossastri e bruni. Prima di essa, troviamo la cascata Litnanesfoss, circondata da colonne di basalto in formazione a nido d’ape. Per arrivare alla meta, dobbiamo attraversare un guado sui sassi. Ripresa l’auto, ripercorriamo la costa orientale e ci dirigiamo verso Seydisfjörđur. La strada Egilsstadir – Seydisfjörđur è inizialmente molto bella e ricca di cascate. Appena si arriva in cima al passo, però, si entra nelle nuvole basse che salgono dal fiordo e che impediscono di vedere qualsiasi cosa ci sia lì intorno. La nebbia si allontana pochi tornanti prima di Seydisfjörđur, tanto che tutto il paese sembra ricoperto da un pittoresco cappello di nuvole molto suggestivo. Troviamo senza difficoltà l’ostello. Esternamente, non promette niente bene. Come nella maggior parte delle abitazioni, qui non sembrano avere una grande cultura della casa. L’interno è invece molto caldo e accogliente: pareti in legno, pavimenti dello stesso colore, tappeti, mobili e oggetti che danno un’impronta molto rustica, tipo baita. I bagni sono OK (abbiamo il lavandino in stanza) e lo stesso dicasi per la cucina. Ceniamo col nostro solito risotto in busta con gli stessi italiani che ieri sera avevamo trovato a Höfn. Poi, usciamo in paese a fare una passeggiata e a immortalare il contesto fiabesco in cui ci troviamo. Dopo un po’, però , il freddo comincia a diventare fastidioso, così rientriamo. 21 agosto: Sveglia ore 7, colazione (nella living room non c’è ancora nessuno, che bello) e giro in paese. Cece si è svegliato all’alba ed ha potuto fotografare Seydisfjörđur dalla finestra della nostra stanza. La mattina, la nube sopra il paese non c’è più, e il fascino fatato e misterioso viene un po’ meno. Se non altro, lungo la strada verso Egilsstadir riusciamo a vedere le splendide cascate e il paesaggio che ieri pomeriggio erano avvolti dalla nebbia. Ad Egilsstadir facciamo la spesa. Al supermercato c’è un intero scaffale di una corsia con prodotti italiani in busta / vaso (pasta e sughi). Fuori in parcheggio, troviamo dei vecchietti che ammirano la nostra Lada. Dopo aver fatto il pieno di benzina, riprendiamo la Ring Road in direzione cascata Dettifoss. Per i primi 100 km il paesaggio è per lo più monotono. Dalla costa stiamo addentrandoci nell’altipiano interno. Tutto attorno non ci sono alberi né erba e la strada corre rettilinea per lunghi tratti come in mezzo al nulla. Per fortuna, dopo un breve tratto sterrato, il paesaggio comincia a cambiare: attorno a noi iniziano a vedersi delle montagne. Tra queste, molto lontano, si vede il vulcano Askja. Accanto la strada, parallelamente, una linea di pietre indica la strada lungo la pianura desertica. Come già abbiamo trovato da altre parti, a bordo strada vediamo un’auto distrutta piazzata come macabro ammonimento contro la guida pericolosa. Al bivio tra la strada 1 e la 864 giriamo a destra e raggiungiamo finalmente la riva destra del fiume Jokùlsa a Fjollum, da dove inizia un lungo e impegnativo tratto sterrato. Dopo 28 km arriviamo a Dettifoss. La zona è molto affollata ed è incredibile che un posto così rinomato sia così difficilmente raggiungibile. Lasciamo l’auto al parcheggio e ci incamminiamo lungo il sentiero che porta alla cascata. Non è certo una facile camminata. Non tanto per la pendenza, che c’è solo in alcuni punti, ma per il fondo pietroso. Finalmente cominciamo a sentire il fragore dell’acqua e a vedere gli spruzzi della cascata. Arrivati davanti, lo spettacolo è impressionante. Un’immensa quantità d’acqua scende con violenza. Dopo tutto, si tratta della cascata più grande d’Europa. Non contenti, continuiamo la camminata verso la seconda cascata: Selfoss. Questa è meno alta ma più ampia. Indubbiamente più bella. Stanchi e affamati (sono ormai le 14), dopo due ore raggiungiamo nuovamente la macchina e ci prepariamo il pranzo al sacco. Nel frattempo, il tempo sta peggiorando. Poco dopo, ci fermiamo a vedere un’altra cascata, Hafrangilfoss, in una zona dove il terriccio è tutto rosso. Ripresa la strada 864 in direzione nord, raggiungiamo il canyon di Asbyrgi. Il paesaggio lungo questo tragitto è molto diverso: hanno fatto la loro comparsa alberi ed erba. Prendiamo con l’auto il percorso che porta fino all’interno del canyon. La strada corre in mezzo ad un bosco di conifere, mentre ai lati tutto è racchiuso dalle pareti alte e scure del canyon. Lasciamo l’auto e, sotto una fine pioggerellina, percorriamo l’ultimo tratto a piedi arrivando fino a Botnstjörn, uno stagno incantato: rocce ricoperte di muschio verde, anatroccoli che sguazzano nell’acqua, fitti alberi e pareti rocciose. Sembra veramente di essere in una fiaba. Rientrati all’auto, gonfiamo le gomme anteriori alla stazione di servizio e, ormai stanchi, percorriamo la strada per la maggior parte asfaltata (ma con lavori in corso) fino a Kopasker. Qui, senza difficoltà troviamo l’ostello. Un tipo strano e anziano ci accoglie in questa casa ben tenuta dove lui stesso vive (ovviamente, dobbiamo lasciare le scarpe all’ingresso). Bagni e cucina sono candidi. I mobili sono nuovi, c’è profumo di pulito, ordine, pareti in legno. Tutto crea un’atmosfera davvero rilassante, complice anche il fatto che gli unici ospiti oltre a noi sono una famiglia, presumibilmente tedesca, e una coppia di giovani spagnoli. Ci prepariamo la cena e poi rimaniamo nella living room a guardare il mare che si vede dalla finestra. Si tratta indubbiamente dell’ostello migliore di tutto il viaggio, l’alloggio che uno si immagina quando pensa all’Islanda. 22 agosto: La notte trascorre tranquillamente, tranne per il rischio di bollire dentro il sacco a pelo visto che avevamo lasciato il termo acceso. Fuori purtroppo il tempo non è buono: piove ed è coperto, fa freddo. Alle 8.30, dopo un giro di Kopasker in auto (vediamo il faro e gli spaventapasseri pittoreschi) immersi in un forte odore di pesce, partiamo in direzione nord. Infatti, vogliamo andare nel punto dell’Islanda che dista solo 2.5 km dal Circolo Polare Artico. La strada per il faro di Porgeirsdys è non asfaltata. Il paesaggio è inizialmente verdeggiante. Man mano che saliamo, invece, spariscono le montagne. Tutto diventa piatto e brullo. Arriviamo fino al punto raggiungibile con la macchina e poi proseguiamo a piedi lungo una stradina di enormi sassi neri, talvolta ricoperti da reti da pesca che servono per permettere il transito ai fuoristrada. La strada a piedi è lunga e sembra di non arrivare mai al faro. Il totale isolamento, le onde del grigio Mar Glaciale Artico e il volo basso degli uccelli mettono un po’ di paura e danno alla zona qualcosa di inquietante. Arriviamo finalmente al faro e oltrepassiamo l’argine di sassi per vedere il mare e il nord. Dopo le foto di rito, bagnati e infreddoliti torniamo alla macchina. Poi, torniamo a Kopasker e da qui proseguiamo verso Husavik. Il nostro intento è quello di prendere la barca delle 13.30 per vedere le balene, ma il tempo non ce lo permette: nubi grigie, pioggia ma soprattutto tanto vento ci fanno cambiare programma. Il paesaggio tra Kopasker e Husavik deve essere stato bello, ma non abbiamo avuto modo di appurarlo a causa della fitta nebbia. Arrivati a Husavik, decidiamo di pranzare. Sostiamo davanti all’oceano e vediamo l’imbarcazione salpare e venire sbattuta di qua e di là dalle onde. Pensiamo di aver fatto gran bene a non andare! Non potendo visitare la città a causa del forte vento, andiamo a Myvatn. Man mano che ci avviciniamo, il tempo migliora. La strada è un continuo saliscendi in mezzo al nulla. Poco prima di arrivare a Reykjalid, entriamo in un antico campo lavico (Eldhraun), risalente all’eruzione del 1729. Nonostante sia trascorso tutto questo tempo, lo spettacolo è impressionante: enormi crostoni di terra nera sparsi qua e là nel territorio. Parcheggiamo davanti alla chiesa (chiusa, come al solito) e visitiamo la zona circostante. Ora c’è il sole ma parecchio vento freddo. All’incrocio della strada 87 con la 1 prendiamo quest’ultima in direzione Krafla. Sostiamo a vedere i bagni di Reykjalid: un’enorme piscina aperta da cui esce un intenso vapore che dà all’atmosfera qualcosa di fatato. Andiamo poi a Hverarönd, il campo di attività geotermica costellato di pozze fangose con acqua che bolle, soffioni, fumarole. La zona è impregnata di un forte odore di zolfo ed è veramente spettacolare: il monte Nàmafall ha i fianchi color verde pastello e con due spaccature sul fianco da cui fuoriesce vapore. Qui Cece si accorge che la macchina fotografica non funziona più. D’ora in poi la giornata diventa difficile, proprio oggi che è il Dani compleanno. Riprendiamo l’auto e seguiamo le indicazioni per la sorgente Grjòtagjà. Arriviamo ad un punto in cui si trova una piccola dorsale di pietra con al centro una profonda spaccatura, dentro la quale c’è acqua e da cui esce vapore e odore di zolfo. In lontananza, vediamo il cono di roccia vulcanica Hverfell. Non riuscendo a trovare le indicazioni per l’altra sorgente, Stòragjà, andiamo a Dimmuborgir, un sito pieno di pilastri e spuntoni lavici. Il percorso è ben segnato, l’accesso – come ovunque qui in Islanda – è gratuito e conduce alla formazione lavica più spettacolare, Kirkjan, così chiamata perché la forma ricorda una cattedrale gotica. Anche qui lo spettacolo offerto dalla natura è mozzafiato. Torniamo verso Reykjalid e notiamo come sia pieno di piccoli abeti, che sembrano però essere stati piantati e non essere cresciuti spontaneamente. Ripercorriamo la strada 87 all’inverso rispetto al pomeriggio e arriviamo all’alloggio Headarbær, che si trova lungo la strada tra Husavik e Myvatn e batte la classifica dei peggiori alloggi. Veniamo sistemati in una stanza col cartello “Privato”, che si trova proprio all’ingresso del ristorante / piscina / ostello / campeggio. Le docce sono quelle della piscina: per raggiungerle dobbiamo attraversare la sala da pranzo. Inoltre, sono tutte in comune, una stanza con quattro docce. Per fortuna non ci sono altri ospiti… Il clou viene quando andiamo in cucina per farci la cena: trattasi di casetta in legno esterna alla struttura, che scopriamo essere popolata di uccelli che vivono sopra le travi del tetto e che hanno cosparso il pavimento dei loro escrementi. Indignata, Dani va a protestare e per fortuna riusciamo ad avere il permesso di cucinare nella cucina del ristorante: la proprietaria è diventata molto gentile e premurosa. Trascorriamo la serata del compleanno di Dani in camera alla ricerca di un alloggio per la sera successiva, sperando che arrivi presto mattina per scappare da questo buco. 23 agosto: Oggi la sveglia suona prima: ci alziamo alle 6.30 perché non vediamo l’ora di fuggire dal posto in cui ci troviamo. Ci laviamo, paghiamo e ce ne andiamo senza fare colazione. Mentre aspettiamo il proprietario per pagare, vediamo il guestbook e qualcuno, prima di noi, aveva scritto “very bad”. Noi scriviamo “terrible place”. Il tempo oggi sembra più clemente: è sempre coperto, ma ci sono sprazzi di sereno e non piove. Percorriamo la strada 87 fino a Husavik, dove arriviamo alle 7.30. A quest’ora però è ancora tutto chiuso, così ci mangiamo i biscotti in auto, facciamo il giro del paese e, alle 8, andiamo alla stazione di servizio a bere un caffé caldo. In Islanda, per il caffé e il latte ci si serve da soli ad un apposito banchetto. Entrambe le bevande costano 100-150 ISK, un prezzo ragionevole. Sono le 8.20 e andiamo al baracchino della North Sailing a fare i biglietti per il whale watching delle 9: 3.900 ISK a testa per la gita di tre ore. Ci rimane ancora un po’ di tempo, così saliamo con l’auto alla collina appena fuori il paese per fare una foto al paese assieme a tutta la baia. Tornati, parcheggiamo l’auto e ci imbacucchiamo per bene: maglia di cotone manica lunga, maglione di lana, pile, giaccone, giacca e pantaloni antivento, sciarpa, berretto e guanti. Scopriremo essere un equipaggiamento perfetto! Saliamo sull’imbarcazione e partiamo alla caccia delle balene! Per fortuna, il mare è poco mosso e tutti i presenti (per fortuna poca gente, tra cui ahimè ancora italiani) scrutano l’orizzonte alla ricerca di un segno di vita dal mare. Finalmente, i primi avvistamenti, ma le balene sono piuttosto lontane. Ci allontaniamo sempre più dalla baia, il tempo passa e non vediamo niente. Ma ecco che a un certo punto avvistiamo tre balene che nuotano in gruppo. La barca si avvicina, loro non scappano e ci mostrano tutto il loro spettacolo: la pinna dorsale, gli spruzzi d’acqua e i colpi di coda. L’emozione è davvero forte. La distanza è molto ravvicinata proprio quando Dani deve cambiare il rullino alla macchina fotografica, quindi si perde qualche bella scena da immortalare. Gli avvistamenti ravvicinati sono diversi. La ragazza dell’equipaggio ci spiega che abbiamo avvistato tre tipi diversi di balene, di cui uno veramente raro: pilot whale. Nemmeno lei ne aveva mai vista una. Possiamo quindi ritenerci molto fortunati! Ci avviamo nuovamente verso la baia, seduti sulle panchine della barca, e ci vengono offerti cioccolata calda e dolcetto alla cannella. Sbarchiamo alle 12, ci togliamo un po’ di strati di roba da vestire (neanche tanti perché fa freddo) e andiamo al supermercato a fare la spesa per la giornata. Poi, andiamo al souvenir shop a comprare due rullini da 36 pose: 890 ISK l’uno, praticamente 10 Euro. Allucinante! La guida Lonely aveva ragione! Approfittiamo del fatto che la chiesa di Husavik è aperta per andare a visitare l’interno. La maniglia del portone è enorme. Dentro, c’è un primo atrio che funge da sorta di ingresso. Poi, si apre la chiesa con pianta a croce. L’arredamento è sobrio, con colori pastello molto piacevoli. Un enorme messale con la copertura scolpita in legno raffigurante la chiesa è appoggiato davanti al lato dell’altare. Riprendiamo l’auto in direzione Myvatn. Arriviamo sulla sponda occidentale del lago. Costeggiamo l’area protetta per la nidificazione degli uccelli, il Vindbelgjarfall, su cui però decidiamo di non salire, e arriviamo sulle sponde del fiume Laxà, molto impetuoso con le sue rapide, dove ci fermiamo a pranzare. Accanto a noi, delle persone pescano i salmoni con la mosca. Dopodichè, scendiamo fino a Skùtustađir, dove andiamo a visitare gli pseudocrateri (tre quarti d’ora di camminata, accesso gratuito). Il sito non ci affascina più di tanto, e poi c’è molto vento. Risaliamo lungo la costa orientale del lago e andiamo nella zona del Krafla. Attraversiamo la centrale elettrica, una zona disseminata di tubature. Emerge agli occhi un laghetto di azzurro fosforescente. Arriviamo dapprima al cratere Viti. Con una ripida salita arriviamo alla cima e vediamo che l’interno è pieno d’acqua. Scendiamo all’altra area di sosta ed intraprendiamo il percorso pedonale che si snoda in mezzo alle fenditure del Krafla. È impressionante come tutto attorno a noi sia ricoperto da pietre di lava nera. Sembra di essere sopra una brace. Da molti punti sale fumo, che dimostra come il terreno sottostante sia tuttora attivo. Arriviamo a dei soffioni su un’altura di riolite in colore pastello e al Leirhnjùkur, un bacino fangoso incrostato di zolfo, di cui nell’aria si sente un forte odore. La lunga camminata lungo il percorso circolare ci riporta al parcheggio. Da qui, andiamo ai bagni termali, avendo deciso di non salire sul monte Nàmafjall. Andiamo allora a Vògar, dove si trova il nostro alloggio prenotato telefonicamente la sera prima. Scopriamo che si tratta di un edificio prefabbricato stile container terremotati. In effetti, guardando dalla finestra scopriamo di essere circondati da pietre di lava… essendo una zona ancora così attiva, chi costruirebbe mai qualcosa di più definitivo?! L’alloggio è molto dignitoso, essenziale ma pulito. Bagni e cucina sono OK. Ceniamo col minestrone in busta, guardando con ammirazione gli altri ospiti che si stanno preparando l’agnello al forno. 24 agosto: Oggi la sveglia suona alle 5.30 perché Dani si sbaglia a puntare la sveglia del cellulare. Siamo molto infreddoliti, ma dopotutto ci troviamo dentro un container… Usciamo inevitabilmente presto, la luce è bellissima e in giro non c’è nessuno. Ci fermiamo a fare qualche foto attorno al lago Myvatn e veniamo avvolti dai famosi moscerini attratti dall’anidride carbonica che si fiondano quindi sulle nostre facce. Riprendiamo l’auto ma veniamo bloccati da alcune capre (o pecore? Non si capisce…) che si fermano in mezzo alla strada. Poco più avanti, a Skùtustađir, ci attraversa invece la strada una mandria di mucche. La nostra direzione è Akureyri. Prima delle 8 siamo già a Gođafoss, che fotografiamo da molto vicino. La cascata è molto impressionante e, per noi, più bella di Dettifoss perché a ferro di cavallo e perché si vede tutta da capo a fondo. Proseguiamo (diminuiscono le capre e aumentano le mucche) e, verso le 9.15, siamo ad Akureyri. La città è decisamente grande per gli standard islandesi: si trova adagiata su una collina affacciata a Eyjafjördur. Andiamo prima al centro commerciale ma, come sempre qui in Islanda, prima delle 10 non si trova niente di aperto. Andiamo allora in centro, parcheggiamo vicino ai WC pubblici e passeggiamo sulla zona pedonale. Vediamo la statua di Helgi il Magro, brutta in un posto bruttissimo. Ci prendiamo caffé e dolcetto buonissimi in un bar / panificio del centro e saliamo la lunga scalinata per arrivare alla Akureyrarkirkja, che purtroppo non possiamo visitare all’interno perché si sta svolgendo un funerale (l’auto che porta la bara ha le ruote da fuoristrada!). Andiamo a fare la spesa e poi alla ricerca di un rivenditore Nykon. Grazie all’aiuto dell’ufficio turistico lo troviamo, ma il prezzo di un obiettivo 18-70 è del tutto spropositato, così lasciamo perdere. È passato mezzogiorno e lasciamo la città senza vedere altro. A nostro parere, non è un granché, a parte qualche edificio carino. Ci dirigiamo verso ovest e, poco dopo, deviamo di poco per visitare la fattoria Möđruvellir, dove si trova una chiesa carina con soffitto blu coperto di stelle. Torniamo sulla Ring Road ed entriamo nella valle Öxnadalur, ritenuta uno dei più bei paesaggi tra Reykjavik e Akureyri. Le cime sono coperte da nuvole e noi stiamo guidando verso la pioggia. La vista è inquietante. Ci sono diverse altre cime coperte di neve e spicca il pinnacolo dello Hraundrangi nell’Hàafjall. Usciti dalla valle ci fermiamo a pranzare in riva al fiume e poi continuiamo la conquista del west. Prima di Varmahlid deviamo (per quasi 40 km) a destra sulla strada 76 per raggiungere la cattedrale di Hòlar, una chiesa in pietra rossa, antica sede vescovile. L’interno della chiesa è molto interessante. Sono presenti infatti molte belle opere. La chiesa e il campanile sono immersi in uno splendido paesaggio isolato, deturpato in parte dall’albergo costruito appena dietro. Con altri 40 km (ma ne è valsa la pena) rientriamo sulla Ring Road per deviare nuovamente a nord di Varmahlid per andare alla fattoria Glaumbær, caratterizzata per le case dai tetti in erba. Visitiamo anche la chiesa adiacente. Dopo aver fatto il pieno a Varmahlid, raggiungiamo Blönduos e, da qui, prendiamo la strada per Osar, dove si trova il nostro alloggio. Rischiamo un frontale perché, a causa dei lavori in corso sulla strada, dobbiamo invadere la corsia opposta e l’auto che ci viene contro non ne vuole sapere di fermarsi. Le strade 716 e 711 che dobbiamo percorrere per arrivare sono non asfaltate e con molte buche. Forse le dune di sabbia sulla ghiaia sono create anche dal vento, chissà. L’ostello si trova in un posto davvero sperduto, di fronte a Hùnafjördur. Il posto è molto carino, l’ostello ha pareti in legno (anche in bagno, compreso il pavimento) che danno molto senso di calore; è pulito; i bagni e le cucine sono OK. È molto grande e, ahinoi, ci stanno molte altre persone, che arrivano immediatamente dopo di noi a bordo di un enorme pullman granturismo. Ci fiondiamo a lavarci per non perdere il bagno, poi ceniamo e scambiamo due parole con la comitiva belgo-olandese, in particolare con un tipo che parla italiano. Dopo cena, usciamo a fare una passeggiata per questo posto meraviglioso e isolato. Arriviamo fino a Hvitserkur, un faraglione che una leggenda dice sia un troll tramutato in pietra. In questa zona vive una colonia di foche e di fronte al faraglione c’è un apposito punto di osservazione. Purtroppo, complice anche la scarsa luce perché si sta facendo buio, non ne vediamo. Ciò comunque non importa molto, poiché tutto il resto contribuisce a rendere questo posto davvero rilassante: le mucche al pascolo, le anatre che sguazzano in acqua, la cascatella che scende sul fiordo, una leggera brezza, assolutamente nessuno. Rientriamo all’ostello e troviamo i nostri compagni tutti buoni buoni davanti alla TV. Ah, oggi per strada abbiamo incrociato ben 2 Lada! 25 agosto: Ci svegliamo e ci troviamo in mezzo ad una massa di olandesei / belgi in subbuglio, che monopolizzano i bagni e sono un po’ degli animali. Armi e bagagli, prima di lasciare Osar, che oggi è avvolta da una nube bassa tipo Seydisfjörđur e da un forte vento, scendiamo in riva al fiordo per vedere se riusciamo ad avvistare le foche. Siamo molto fortunati perché scorgiamo subito una colonia di foche adagiate sulla spiaggia di fronte. Alcune si mettono a nuotare e vengono verso di noi. È molto buffo il loro mettere ogni tanto la testa fuori dall’acqua mentre nuotano. Infreddoliti, risaliamo tra mucche e vitelli, prendiamo l’auto e ci dirigiamo verso Blönduos, dove facciamo il pieno e beviamo un caffé per prepararci alla mitica impresa della giornata: pista di Kjölur. Poco dopo Blönduos prendiamo infatti la F35 (sono le 10.06, il conta chilometri segna 2.284 km), segnata dalla nostra mappa come marrone per la prima metà e gialla per la seconda. Nella prima parte saliamo sull’altipiano che attraversa l’interno e ci danno il benvenuto dei grandi corvi neri. Il paesaggio è spoglio e piatto, un po’ anonimo. Riusciamo anche a tenere una buona velocità (70-80 km/h). Mano a mano che ci addentriamo, invece, il paesaggio diventa meno monotono. Si cominciano a scorgere anche i ghiacciai in mezzo ai quali dovremo passare (Langjökull e Hofsjökull). Dopo un’ottantina di chilometri il fondo della strada diventa più accidentato e fanno comparsa pietre e grandi pozzanghere. Inoltre, le ondulazioni della pista si fanno più accentuate e ci costringono a ridurre notevolmente la velocità di marcia. Tutto attorno, il paesaggio è cambiato: attraversiamo infatti distese di grandi massi che ricordano un paesaggio lunare. Il tempo cambia repentinamente più volte: si passa da sole a pioggia, ma c’è sempre tanto vento freddo. Finalmente arriviamo a Kjölur e ci fermiamo a Hveravellir, una zona geotermica con fumarole e vasche d’acqua termale. Dani prova l’ebbrezza della guida su pista, ma la scarsa velocità a cui va fa scaldare troppo l’acqua della macchina. Per non rischiare di fondere il motore, riprende la guida Cece. All’altezza del bivio della F35 con la pista che porta al campeggio Tjarnheiđi, ci fermiamo ad osservare il guado che ci risulta davvero impegnativo: per fortuna non dobbiamo farlo, sembra profondo ed è veramente largo. Nel nostro piccolo, però, abbiamo attraversato un piccolo torrente. In questa zona ci fermiamo a pranzare (sono ormai le 14). Siamo stretti tra i due ghiacciai e vicini al lago Hvitàrvatn, sul quale però non intravediamo iceberg. Negli ultimi 30 km di pista giriamo attorno al monte Blàfell, un’imponente montagna di colore viola. Arriviamo finalmente su strada asfaltata (sono le 15.22, il conta chilometri segna 2.451 km) e poco dopo siamo a Gullfoss: una cascata veramente imponente, che in realtà sembra più una serie di cascate incastrate una sotto l’altra. Peccato che il sito sia così affollato (molti italiani, ancora!). Questo però è il prezzo da pagare per essere tornati nella civiltà. Con la nostra Lada piena di fango, proseguiamo per Geysir. Vediamo lo spruzzo già a una certa distanza. A spruzzare è Strokkur, un geyser minore rispetto a Geysir, che ormai è inattivo da tempo. Strokkur è inserito in un campo geotermico con soffioni e pozze d’acqua colorate e ribollenti. Stanchi della giornata impegnativa, raggiungiamo Laugarvatn e troviamo l’ostello sulla strada. È molto grande, accogliente e pulito. Non sembra una casa privata ma più un albergo. Il personale è, stranamente e diversamente dal resto degli islandesi, molto ospitale, gentile e disponibile. Ci prepariamo la cena nella cucina tutta per noi e pianifichiamo il giro di domani. Questa sera abbiamo anche il bagno in camera, ma il WC non funziona così dobbiamo utilizzare quello comune al piano di sotto.

26 agosto: Ci svegliamo, tanto per cambiare, di buon mattino. La cucina è ancora deserta e tutta per noi. Il tempo è parzialmente coperto. Partiamo subito alla volta di Thingvellir, prendendo la pista 365, che pur essendo indicata come gialla nella nostra mappa, è asfaltata. La strada si snoda attorno ad un campo lavico ricoperto di muschio verdino. Sulla sinistra, abbiamo belle vedute sul lago Thingallavatn. Arrivati al Parco Nazionale, lasciamo l’auto e proseguiamo a piedi lungo il percorso che attraversa il parco. Si tratta di una verde spianata racchiusa tra il fiume Oxara e il canyon originato dall’incontro delle zolle europea e americana. Visitiamo Thingvallakirkja, chiesa molto piccola, e vediamo da fuori Thingvallabær. Dopodichè, ci inoltriamo nel breve sentiero che conduce alla cascata Oxaràfoss, nascosta dietro l’orlo orientale della faglia. Concluso il tour del Circolo d’Oro, ci dirigiamo verso nord lungo la strada 52, decisamente più impegnativa di quel che prevedevamo. Il paesaggio, da verde ritorna ad essere simile a quello dell’interno dell’isola. Alla fine della pista seguiamo per Borgarnes e qui prendiamo la strada 54 verso nord. Nel frattempo, davanti a noi, si sta aprendo un ampio spazio di sereno. Dopo aver girato attorno al vulcano Eldborg, fatto a forma di porta uovo e circondato da immensi campi lavici, entriamo nella penisola dello Snæfellsnes e proseguiamo senza fermarci fino al piccolo villaggio abbandonato Buđir. Qui, pranziamo davanti alla chiesa nera (chiusa, tanto per cambiare) e poi andiamo a piedi verso la costa a passeggiare e fare foto. Il paesaggio è davvero unico: massi di lava, fine sabbia gialla dorata, i campi coltivati e, sullo sfondo, i monti con una cascata e il ghiacciaio Snæfellsjökull. Ci reimmettiamo in strada e sostiamo nuovamente a Stapafell, il monte dove si trovano alcune grotte laviche, tra cui la Sönghellir, piena di graffiti (che vediamo poco causa torcia che fa poca luce) e che fa un potente eco alle nostre voci. Proseguiamo verso Arnastapi, dove ci sono delle meravigliose scogliere a picco sull’oceano e la raffigurazione in pietra di Barđur, lo spirito guardiano del ghiacciaio. Decidiamo di non fermarci a Hellnar ma, dopo aver fotografato in controluce i faraglioni di roccia di Londrangar (Svalpùfa-pùfubjarg), ci fermiamo a Dritvik prendendo la strada 572 verso Djupalon, che corre attraverso un impressionante campo lavico muschiato. Percorriamo a piedi il promontorio dove c’è un arco di roccia e arriviamo alla spiaggia nera dove ci sono i resti di un peschereccio inglese naufragato qui nel 1948. Le onde dell’oceano sono davvero violente e rischiamo più volte di essere lavati. Filiamo dritti fino a prendere la deviazione nella strada 579 per Öndverđarnes, dove passiamo davanti alla spiaggia di Skardisvik. Decidiamo di non proseguire fino al faro e torniamo indietro. Anche qui, distese enormi di lava, strada dissestata (Dani alla guida) e paesaggio poco terrestre. Passiamo Hellissandur e facciamo benzina a Òlafsvik, dove c’è un’enorme antenna (Gufuskalar, stazione radar USA) fissata al terreno con giganti tiranti. C’è un cartello mai visto prima: “attenzione volo basso uccelli”. Dani, poco dopo, investe un povero uccello che sostava tranquillamente in mezzo alla strada. Sono ormai le 19 e arriviamo al grazioso villaggio di Grundarfjörđur. L’ostello è molto carino e pulito, anche se noi veniamo sistemati nella casa accanto (altrettanto OK), perché l’ostello è invaso da una comitiva di tedeschi in gita. La proprietaria è davvero gentile e ospitale. Poi, scopriamo che è sudafricana. Dopo cena usciamo per vedere il paese e prendiamo l’auto per fotografare il tramonto. 27 agosto: Ci svegliamo presto ma i tedeschi ospiti della casa ci battono e se ne vanno prima di noi. Facciamo un giro a piedi per il paese visto che anche oggi c’è un sole bellissimo. Dopodichè, ci dirigiamo verso Reykjavik. Percorriamo prima la strada 54, poi tagliamo il fiordo lungo la 56 e ritorniamo sulla 54. Da qui, Dani continua a guidare fino a Borgarnes. Lungo la strada, ci rendiamo conto che tutta la zona del vulcano Eldborg è disseminata di coni vulcanici e non solo di lava. A Borgarnes, le case e le altre costruzioni sono proprio a ridosso della lava. Qui, ci fermiamo a fare la spesa e ripartiamo alla volta di Reykjavik, dove arriviamo verso mezzogiorno attraversando un sacco di rotonde con montagnole che limitano la visuale. Parcheggiamo in centro per un’ora (parcheggio a pagamento) e visitiamo velocemente le cose che ci mancano della città: Il Rađus (Municipio), dove ci fermiamo all’ufficio turistico per fotocopiare la constatazione amichevole, il lago Tjörn, entriamo nella Frìkìrkjan ì Reykjavik che si trova di fronte al lago (chiesa come al solito piuttosto sobria), vediamo la casa a torre (niente di che), la A-Hùs (idem). Poi percorriamo la via principale Bankastræti (le vetrine espongono articoli natalizi) e andiamo a prendere i souvenir nel negozio di fronte all’auto. Ripresa la macchina, andiamo a vedere il Sun Craft, la scultura in ferro a forma di nave vichinga. Lì davanti ci fermiamo a pranzare. Ci infiliamo in un ingorgo per uscire da Reykjavik e ci dirigiamo verso la penisola di Reykjanes. Percorriamo la strada 41 fino a Keflavik (ci sono palazzi ultramoderni a ridosso della lava) e da qui scendiamo lungo la 425 per andare a vedere il ponte tra due continenti, una struttura in legno / metallo costruita tra le faglie eurasiatica e nordamericana. La spaccatura è piena di sabbia. Il paesaggio circostante è, ovviamente, costituito da ammassi di lava. Sono ormai le 16 passate ed è ora di andare alla famosa Laguna Blu. Passiamo per Grindavik. Qui il paesaggio è sempre lava, ma con un sottile muschio grigio. Lungo la strada, troviamo ancora il cartello di pericolo volo basso uccelli. Saliamo lungo la strada 43 fino ad arrivare alla affollatissima Blàa Loniđ. Il paesaggio è incredibile, è tutto nero e ci sono enormi massi di lava. La struttura è ultramoderna. Ci sono un ristorante, il centro di bellezza (prezzi allucinanti!!). Fuori c’è un laghetto di un azzurro incredibile. Il sistema di armadietti è super-tecnologico, gli spogliatoi sono ottimi. Bisogna farsi la doccia prima di entrare il laguna. L’ingresso costa 1.800 ISK a testa. La piscina è immersa nella roccia ed ha un’acqua verde, il fondo è di sabbiolina nera prima e di una melma bianca poi. In alcuni punti ci sono dei potenti getti d’acqua tipo massaggio. Ci sono le grotte col bagno turco e con l’acqua. È pieno di americani e giapponesi. L’acqua è calda, in alcuni punti bollente. Il vapore sale dall’acqua dando all’atmosfera qualcosa di suggestivo. È piacevole stare in costume all’aperto, incredibile: siamo entrati con sciarpa e berretto! Peccato per l’odore di uova e di bastoncini di pesce. Ci mettiamo a mollo in super relax e usciamo solo verso le 19. In pochi chilometri arriviamo al Fit Hostel di Narđvik, essenziale ma pulito, molto grande e affollato. Ceniamo con l’ultima busta di risotto, prepariamo i panini per il giorno dopo e poi riprendiamo l’auto per vedere quanto ci si mette ad arrivare all’aeroporto e per fare benzina. Vogliamo fotografare la luna piena ma veniamo disturbati da due ubriachi vaganti. Rientriamo all’ostello e mettiamo la sveglia alle 5! 28 agosto: Dopo una notte poco riposante per l’ansia da partenza, ci svegliamo alle 5, prendiamo i nostri bagagli che carichiamo nella Lada e partiamo. In meno di dieci minuti siamo all’aeroporto, lasciamo l’auto al parcheggio P1 e ci dirigiamo verso il check-in. L’aeroporto è super affollato. Il viaggio in aereo è tranquillo e un po’ noioso. Ci sono tanti italiani. Se non altro, gli aerei dell’Iceland Express sembrano molto più solidi di quelli della Ryan Air. Mandiamo avanti l’orologio di un’ora. Alle 11.30, con un quarto d’ora di anticipo rispetto al previsto, atterriamo a Stansted, dove il cielo è coperto ma fa caldo. Troviamo un posto dove stanziarci ed affrontiamo le sette ore che ci separano dal volo Ryan Air per Treviso. L’attesa è veramente interminabile. Alle cinque ci prepariamo per il check-in e c’è una coda lunghissima. Come se non bastasse, ai controlli ci fanno togliere perfino le scarpe e, poi, fanno casino al gate e ci fanno cambiare uscita un paio di volte. Tutto ciò ritarda la partenza, così atterriamo a Treviso con 15 minuti di ritardo. Appena usciti dal velivolo, sentiamo subito una folata di umidità e capiamo di essere arrivati a casa! Dimenticavamo di dire che il contachilometri della Lada, azzerato all’inizio del viaggio, segnava 3.100 Km!

Altro: – Mappe Ferđakort comprate in Italia alla Libreria Pangea di Padova: 3 mappe, costo di ognuna 21 Euro. Veramente fondamentali – In tutti gli alloggi hanno preteso il pagamento anticipato e di lasciare le scarpe all’ingresso – Per strada abbiamo trovato spesso delle toilette, fornite ma poco pulite – Abbiamo incrociato per strada più di un mezzo spazzaneve – Le case: un piano (massimo due), larghe finestre con unica piccola apertura laterale. Non esistono balconi. Molte hanno ancora (o già) gli addobbi Natalizi, lucette e stelline – Le chiese: solitamente hanno la moquette, sempre c’è il cimitero adiacente dentro il recinto di legno con cancelletto, all’entrata della chiesa c’è un’anticamera con stanzina ripostiglio, fuori molto spesso c’è la bandiera dell’Islanda. Molto spesso le troviamo chiuse – Se vuoi fare il pieno di benzina devi andare a pagare dentro, se la stazione di servizio è aperta – Yaris Rossa: in ogni posto dove andiamo ce n’è almeno una!



    Commenti

    Lascia un commento

    Leggi anche