Irian jaya : delirio verde prima parte

Tutto cominciò cinque anni fa, quando su una rivista lessi un articolo sull'Irian Jaya, l'autore descriveva il posto come uno dei più difficili da visitare, perchè ancora molte tribù praticavano il cannibalismo ed i collegamenti erano inesistenti. Più leggevo quell'articolo e più mi sentivo invaso dal desiderio di partire. Quando finii...
irian jaya : delirio verde prima parte
Partenza il: 25/07/1997
Ritorno il: 25/08/1997
Viaggiatori: in gruppo
Tutto cominciò cinque anni fa, quando su una rivista lessi un articolo sull’Irian Jaya, l’autore descriveva il posto come uno dei più difficili da visitare, perchè ancora molte tribù praticavano il cannibalismo ed i collegamenti erano inesistenti. Più leggevo quell’articolo e più mi sentivo invaso dal desiderio di partire. Quando finii l’articolo sapevo con certezza che un giorno sarei andato a vedere la Grande valle del fiume Baliem, le regioni degli Asmat, dei Kombai, dei Korowai, e dei Citak Mitak.

Prima di descrivere il viaggio credo sia doveroso dare qualche consiglio utile a chi avesse intenzione di fare un viaggio in Irian Jaya.

Innanzitutto è fondamentale autoselezionarsi. Il viaggio richiede condizioni psicofisiche eccellenti, bisogna avere uno spirito d’adattamento veramente non indifferente. Il rischio di contrarre la malaria è molto alto. Purtroppo, dopo circa tre mesi dal nostro rientro, Heidi è stata colpita dal plasmodium vivax ( tutti noi avevamo seguito la profilassi antimalarica con Lariam ). Io stesso ho avuto febbri ricorrenti per due mesi dopo il rientro. Dalle ultime notizie sembra che il vivax ( che è il ceppo meno pericoloso ) stia espandedosi a dismisura a sud dell’Irian Jaya e pare che sia clorochino resistente. Naturalmente prima di partire chiedete un consiglio al Centro di Malattie Tropicali più vicino alla vostra città di appartenenza. A differenza di quanto abbiamo fatto noi, portatevi dall’Italia uno zaino a testa pieno di viveri. Non bisogna lasciarsi ingannare dalla bellezza del posto, vi posso assicurare che tutti noi (eravamo in otto ), chi prima chi poi, ha avuto un momento in cui ha maledetto il giorno in cui ha deciso di fare questo viaggio. Vi troverete a stretto contatto con migliaia di zanzare che vi molesteranno per tutto il viaggio,camminerete per dieci ore al giorno, vi accamperete spesso in mezzo al fango, vi troverete a respirare aria intrisa di un’umidità talmente elevata che vi cresceranno i funghi sui vestiti, vi troverete a dovere attraversare sentieri molto duri ed anche pericolosi, “sentirete” la malaria aleggiare continuamente nell’aria, non vi laverete quasi mai, vi troverete a bere acqua color giallo paglierino (naturalmente bollita e possibilmente filtrata), ci saranno luoghi dove il caldo e le mosche non vi daranno tregua. Se tutto questo non vi spaventa, allora partite! Sarà un’avventura mozzafiato! Sarà un VIAGGIO che ricorderete per tutta la vita. Ora eccomi qua a descrivere questo viaggio mozzafiato, dove nulla è pianificabile e dove se non si ha una buona dose di fortuna si rischia di vedere veramente poco. Noi di fortuna alla fine ne abbiamo avuta veramente tanta. Abbiamo avuto fortuna con il clima perchè in mese abbiamo avuto solo un paio di giorni di pioggia, abbiamo avuto fortuna con gli spostamenti, perche in Iria Jaya è complicatissimo muoversi, abbiamo avuto fortuna a trovare una guida locale eccezionale (almeno sulle montagne)e dei portatori superbi. A tutto ciò aggiungiamo la nostra audacia nel voler rischiare in caso anche il rientro in Italia pur di vedere il più possibile ed ecco che ne è venuto fuori un viaggio dove rischio e bellezza, difficoltà e voglia d’andare avanti, passato e presente, si mescolavano quotidianamente, ne è venuto fuori un viaggio dove la parola chiave è stata AVVENTURA! Non esiste un indirizzo o un luogo preciso dove la si può trovare, arriva così, quando meno te l’aspetti; noi l’abbiamo trovata là in Irian Jaya in mezzo ai Dani, gli Yali, i Kombai ed i Korowai, durante lunghe ed interminabili ore di marce e di navigazione lungo i fiumi, là in mezzo ai monti ed in mezzo alla foresta, tra il delirio verde dell’Irian Jaya.

All’aeroporto di Roma Fiumicino, eravamo tutti consapevoli delle difficoltà del viaggio, ma credo che nessuno di noi pensava minimamente di dover affrontare così tanti imprevisti e credo che nessuno s’aspettava così tanta bellezza.

A Jakarta decidiamo all’unanimità di rinunciare alla settimana prevista per l’arcipelago di Komodo, e “puntiamo” tutto il mese sull’Irian Jaya. Dopo quattro scali e 42 ore arriviamo in Irian e dormiamo una notte a Jayapura. Il mattino seguente arriviamo a Wamena, pronti per organizzare il primo trekking nella valle del Baliem.

Fuori dall’albergo la gente fa fila per avere un posto come portatore, alla fine ne reclutiamo quattordici più due cuochi e la guida, che poi ci accompagnerà per tutto il viaggio.

Dopo qualche ora di cammino Simonetta rinuncia, preoccupata dalla difficolta del sentiero. Rimaniamo in sette. Alla fine del secondo giorno di marcia tutti condividiamo la scelta di Simonetta. Il percorso dimostra essere durissimo. In questo primo trekking il nostro obiettivo è quello di raggiungere le tribù dei Dani e degli Yali. I primi sono riconoscibilissimi perchè indossano un enorme astuccio penico (ricavato dalla zucca), sono ormai il simbolo dell’Irian Jaya, sanno d’essere ormai al centro dell’attenzione dei pochi turisti che arrivano e per ogni foto scattata si fanno pagare! Rimaniamo un pò delusi, ma ogni Mondo è Paese! Gli Yali sono un popolo di pigmei, anche loro indossano un astuccio penico che però regge una serie di cerchi di canna attorno alla vita. A differenza dei Dani gli Yali vivono nella foresta al di là delle montagne, sembrano essere molto più fieri, ed a causa delle difficolta del percorso, hanno pochissimi contatti con l’uomo bianco.

Impieghiamo sei giorni e cinque notti per arrivare ad Angguruk; saranno sei giorni terrificanti. Camminiamo per dieci ore al giorno, guadando fiumi attraverso alberi caduti nella foresta, arrampicandoci in difficilisalite e ridiscendendo per impervi pendii. Attraversiamo per due giorni la giungla spesso camminando nel fango. Qualche volta i nostri portatori costruisconi dei ponti per attraversare il fiume, e non di rado ci prendono letteralmente di peso per superare difficili passaggi; più di una volta camminiamo come equilibristi su tronchi sospesi tra una riva e l’altra, i portatori ci prendono per mano, perchè il pericolo di cadere e farsi male è alto, specialmente quando la stanchezza dopo ore di marcia ti riduce i riflessi. Spesso, per evitare il fango, il sentiero è costellato di trochi messi in serie per centinaia di metri. I tronchi sono scivolosissimi. A parte le cadute la cosa ci rallenta notevolmente la marcia.

Il nostro morale comunque rimane sempre alto, perchè la voglia di vedere è alimentata giorno dopo giorno dalla bellezza dei luoghi e dagli incontri che facciamo quotidianamente.

Ad un certo punto, dopo sei ore di cammino, arrivati a 3200 m. D’altezza iniziamo una discesa che è quasi una parete a 90 gradi, definirla ripida, impervia, scoscesa, scivolosa e perchè no anche molto pericolosa non è certo una falsità. Per nostra fortuna c’è molta nebbia e non si riesce a vedere bene la voragine che c’è sotto i nostri occhi, forse se non ci fosse nebbia qualcuno potrebbe desistere; e così giù, in picchiata, per quattro interminabili ore, con il cuore in gola per lapaura di farsi male. Veniamo letteralmente inghiottiti da una foresta equatoriale quasi inestricabile, e lì, come per magia, incontriamo uno Yali, ci guardiamo a vicenda per un attimo, un attimo che sembra sospeso nell’imponderabile, nell’irrazionale,siamo distanti migliaia di anni,lo sappiamo noi, probabilmente lo intuisce anche lui. Ci allunga una mano, un pò per toccarci un pò per salutarci, parla il dialetto Yali, chiede da dove arriviamo e quanti giorni sono che camminiamo, vediamo uno dei nostri portatori dei swgni sull’avambraccio, lui capisce, inverte la sua rotta e ci fa da guida, ci porta in un accampamento dove possiamo montare le tende. E’ già buio e cirendiamo conto d’essere solo in quattro, Heidi,Stefano,Paola ed io. Gli altri, Gianni, Federica ed Alfredo sono ancora nella foresta, ora è buio pesto, siamo molto preoccupati, i nostri portatori ci chedono le torce e vanno arecuperare i tre nella foresta. Finalmente dopo circa un’ore siamo di nuovo tutti insieme.

Mentre siamo seduti tutti a riscaldarci attorno ad un fuoco, come per miracolo, dal buio della foresta sbuca un gruppo di Yali, sono cordiali, s’accovacciano accanto a noi e cominciano a dialogare tra di loro. E’ una notte stupenda, il cielo è così pieno di stelle da essere quasi inquietante, ci guardiamo neggli occhi e ci rendiamo conto che stiamo vivendo dei momenti che ricorderemo per tutta la vita. Frangkie, la nostra guida, afferma che questi Yali fanno parte di una tribù che ha abbandonato da qualche anno il culto del cannibalismo, ci guardiamo tutti un pò impauriti, ma il candore dei loro occhi la gentilezza dei loro movimenti ci danno un pò di sicurezza. Dopo circa un’ora i nostri amici pigmei capiscono che siamo stanchi, e così come sono arrivati, scompaiono, con in mano un tizzone ardente, fagocitati dalla foresta, cantando una nenia che ancora oggi ritorna nelle nostre menti. Tutti i giorni, ad ogni sosta, i nostri portatori intonano delle canzoni. Noncuranti della nostra presenza si riuniscono in circolo ed in coro cantano canzoni che parlano della loro terra, delle loro radici,delle loro donne, canzoni avolte tristi, ma che noi ascoltiamo con rispettoso ed estasiato silenzio. Finalmente dopo sei giorni di marcia, stanchi, distrutti dall’ultima montagna scalata, intravediamo la striscia di terra che disegna la piccolissima pista dove atterrano i Cessna, e ci indica che siamo ormai a poche ore di cammino da Angguruk.

Angguruk, piccolissimo agglomerato di case e capanne, animato una volta la settimana da un mercato poverissimo, dove la gente dei villaggi limitrofi si riunisce e vende o baratta que poco che hanno saputo tirare fuori dalla propria terra. Già, perchè in Irian Jaya, la coltivazione è praticamente sconosciuta (a parte la patata dolce coltivata vicino a Wamena), gli allevamenti di animali tipo ovini e caprini è inesistente, di conseguenza non c’è latte (a parte quello in polvere che si può trovare solo a Wamena), non c’è carne, frutta, c’è pochissima verdura. L’unico metro di ricchezza sono i maiali, ed è proprio per questo che ogni famigli ne macella solamente un paio l’anno. Probabilmente, l’abbandono del culto del cannibalismo è ancora troppo giovane, e sicuramente, anche se il governo indonesiano smentisce, ci sono ancora delle sacche di territorio inesplorato dove molte tribù non hanno abbandonato questa pratica. Non ricorderemo Angguruk per il suo mercato, ma per il torneo di calcio che movimenta le nostre giornate mentre stiamo tutti con le orecchie tese e gli sguardi al cielo cercando d’ascoltare il rumore di un bimotore o intravedere la sagoma di un Cessna. Cessna che aspettiamo per far ritorno a Wamena ed organizzare il secondo trekking. fine prima parte.



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