Io, Ale e Tom Joad in California&Dintorni
Ferragosto: mi sveglio la mattina e mi metto a cercare voli. Poi sveglio Ale: ho comprato 2 biglietti per San Francisco, dal 19 settembre al 1 ottobre, che ne dici? Lui sorride ancora un po’ intontito e io inizio a leggere, cercare, pensare, poi metto il suo passaporto in lavatrice (non è valido per gli Usa e quindi è meglio rifarlo).
Nelle settimane successive siamo presi dalla voglia di pianificare da una parte e da quella di lasciare al viaggio l’impronta di improvvisazione di quando ti succedono tante belle cose. Decidiamo che fantasticare sulle mappe è un’ottima attività per la calda estate in alternativa al facebookiano Farmville, e allora via di itinerari… La mia top destination, quella a cui non voglio rinunciare, è il Big Sur: selvaggio e letterario, incontaminato e forte, è il posto per me. Ale invece ha le pupille a forma di dollaro e tra le mani già il mazzo di carte: è Las Vegas che vuole vedere. Il resto delle mete viene da sé, e dopo un bel po’ di chiacchierate su vari forum Usa: la Death Valley, il Mono Lake, lo Yosemite Park. Io voglio almeno 3 giorni a San Francisco, lui vuole vedere una partita di baseball dei Giants. Los Angeles e Hollywood li evitiamo come la peste. Vogliamo un viaggio un po’ on the road ma vogliamo il tempo di goderci la gente, il cibo e le cose. Per entrare in atmosfera vado di Steinbeck a manetta: Of Mice and Men (Uomini e topi) va bene per iniziare, ma in viaggio voglio portare Grapes of Wrath (Furore), epico poema che si rivelerà una compagnia fantastica, seconda solo al mio biondissimo e glaucopide marito. (occhi azzurri!) E allora si parte, e in sole 9 ore e mezza (!!!) siamo ad Atlanta. Lì tra le formalità di sicurezza e immigrazione cominciamo a guardarci intorno: è un aeroporto e come tutti gli areoporti è terra di nessuno, ma nel terminal nazionale dove attendiamo il volo per San Francisco iniziamo a vedere l’umanità varia e anche un po’ stereotipata di questi Stati Uniti sempre immaginati e mai visitati (e cacchio c’era pure Bush, c’è voluto l’abbronzato Obama per vincere il veteroamericanismo di cui sono stata nutrita fin da piccola). Intorno a noi sfilano cow boys, coppie sui quaranta biondo platino, mastodontici ragazzi nerissimi con le spalle da armadio e i denti di un bianco abbagliante, ragazzine con la pancia fuori..
Altro volo, altre hostess Delta attempatissime e con cotonature da architettura sperimentale, e dopo 5 lunghissime ore è ancora il sabato più lungo del mondo e siamo a San Francisco. Non ci entriamo, dormiamo vicino all’aeroporto e il mattino dopo partiamo presto per il Big Sur: il Golden Gate dovrà aspettare ancora 1 settimana.
L’insegnamento del Big Sur Prima di raggiungere il Big Sur attraversiamo la California verdissima e coltivata della frutta e verdura: campi di fragole, di coloratissime zucche pronte per Halloween, carciofi, cavoli, lamponi, ovunque ci sono fattorie che offrono assaggi, miele, tutto “bio”, tutto “fresh”. E’ un posto carino, un po’ hippy e trasandato, con le casette e le serre vecchiotte ma accoglienti. Viene voglia di fermarsi e di curiosare in giro, come nel negozio di abiti usati dal nome geniale “Love me two times” che incontriamo per strada.
L’oceano ci saluta con una nebbia grigia e tanto freddo, ma i surfisti che sfidano i point break nella famosa Half Moon Bay sono affascinanti lo stesso: a decine, come puntini neri tra le onde, cercano il momento giusto e arrivano a riva cavalcando come pazzi onde da film. Al bordo della strada, ogni tanto qualche nuovo arrivo si aggiunge alla comitiva: fa sorridere riconoscere gli stereotipi che abbiamo in mente, dal biondo 30 enne muscolato fino al 50 enne dalla pelle sciupata dal sole e il pick up sgangherato. Continuiamo lungo la costa e ci lasciamo coccolare un po’ dall’aria placida e frizzante allo stesso tempo di Carmel, dove pranziamo nel cortile di un affollatissimo ristorante accanto al fuoco e attorniati da personaggi interessantissimi: la coppia gay in fuga per il weekend, il quartetto Obama-style che parla d’arte e veste raffinato, il sosia di Morgan Freeman che legge il giornale al tavolo tra barili di caffè del sunday brunch.
Ma io voglio vedere le magnificenze del Big Sur! E invece, dispetto, la nebbia è fitta, il cielo grigio, e niente fa intuire cosa c’è dietro. Neanche la pausa alla isolata Pfeiffer Beach, bella nonostante la mancanza di sole e piena di umanità da osservare (i giocatori di lancio del ferro di cavallo, la giovane cinese che mette in equilibrio i sassi a formare una torre, i ragazzi messicani che giocano a pallavolo, il pastore tedesco grande come un cavallo che lotta tra le onde altissime per ritrovare e riportare il pezzo di legno che gli è stato lanciato), neanche la spiaggia, dicevo, ci fa passare quel senso di appetito non saziato.
E’ il nostro anniversario di matrimonio, e lo passeremo nella Yurta del campeggio vip, immerso nella collina e molto affascinante. Per casa avremo appunto una Yurta, una tenda di ispirazione mongola, con pavimento di legno e un letto bellissimo al centro. La cena con filetto di manzo biologico, scampi e verdure al vapore è meravigliosa, e facciamo onore al vino californiano scolandoci una bottiglia di rosso dal nome strano ma dal sapore rassicurante e forte.
E meno male che abbiamo deciso di fermarci due giorni, invece di correre oltre come tutte le macchine che fanno questo pezzo di strada: il giorno dopo la nebbia svela un paesaggio indimenticabile, che nella mia personale top ten raggiunge la vetta nel giro delle prime 10 curve. E’ come la sorella più grande e selvaggia di una certa Irlanda, e la bianca foschia avvolge le coste scoscese come un boa di struzzo, giocandoci e aumentandone il fascino.
Arrivano enormi falchi dall’alto, mentre scoiattoli, colibrì, coloratissimi Blue Jays e leoni marini fanno la loro comparsa nell’arco della giornata lungo la strada tutta curve.
Ovviamente la mia mente malata non riesce a non cercare metafore e pseudoinsegnamenti, ma è così lampante e così chiaro: a volte nella vita si hanno davanti dei panorami splendidi, ma è come se non ci fossero quando si alza la nebbia. Sorrido e penso all’anno scorso, quando l’ansia, il panico e la paura mi impedivano di vedere i paesaggi fantastici che avevo metaforicamente di fronte. Sorrido, e mi godo questo vero viaggio di nozze un anno dopo.
La sera, a letto, leggo di Tom Joad che torna dalla prigione e trova la sua terra devastata, e la famiglia in procinto di partire. Lasceranno l’Oklahoma per una delle più grandi migrazioni della storia degli Usa, quella degli anni ’30 in cui centinaia di migliaia di persone, rovinate da una tempesta sabbiosa che ha impedito loro i raccolti e fatto perdere le fattorie a conduzione familiare, partiranno su auto e pick up sgangherati verso la California della raccolta della frutta. Semel in anno…
Lasciamo l’oceano e le altissime coste, passiamo nella California dei ranch e dei latifondi, delle colline ingiallite e seccate dalla lunga estate, dei mulini a vento e dei pagliai in legno, delle trivelle per il petrolio e delle enormi centrali eoliche, affrontiamo il caldissimo deserto del Mojave con i cactus e gli annunci pubblicitari di chi può salvarti se hai l’auto in panne ai 42 gradi all’ombra, e in 7 ore di paesaggi infiniti siamo a Las Vegas.
Si capisce che è il Nevada questo che abbiamo davanti già dall’ultimo pezzo di strada: in mezzo al deserto, ecco una stazione di servizio fatta a castello con tanto di montagne russe. I cartelloni pubblicitari sono di casinò e spettacoli, ma ce n’è anche uno inquietante con un fucile tipo kalashnikov e una scritta “Try One”.
Che è Las Vegas quella là in fondo lo capiamo dalla nera piramide del Luxor, che sarà anche la nostra casa, e che inizia da sud lo Strip, la via delle follie della città più strana del mondo.
Lo dico subito quello che penso: Las Vegas è eccessiva ma anche rassicurante, è come una gigantesca Minitalia col gusto dell’ironia e i soldi per realizzare qualsiasi capriccio, è un parco di divertimenti per adulti a base di gioco, cibo e sesso dove il lusso è alla portata di tutti, è un luogo che ti strappa un sorriso ad ogni angolo, decadente come il fisico delle cameriere attempate nei vestiti lucidi e succinti che ti offrono cocktail annacquati nei casinò, dove la folla è ovunque ma dove c’è spazio per tutti, dove sei come sei e puoi essere come vuoi.
Las Vegas è il Carnevale dell’antica Roma: un luogo irriverente dove uscire da te stesso ed eccedere, senza fare troppi danni, semel in anno. Questa almeno sarebbe la Las Vegas del turista, perchè quella del giocatore è pericolosa come un trip e lunga come un tunnel. Dico sarebbe perchè per avere quel ruolo catartico e di sfogo delle pressioni sociali bisognerebbe che il consumismo e l’eccesso di Las Vegas fossero l’eccezione e non il fulcro di una società che ti spinge al consumo.
Peccato, perchè era una bella idea. 🙂 Mentre eravamo a Las Vegas i Joads hanno iniziato il loro viaggio, tutta la famiglia sul camion con le cose che ci stavano sopra, i materassi, gli attrezzi da cucina. Come loro migliaia di famiglie, tutte diverse e tutte uguali, da Kansas, Arkansas, NewMexico, Texas, Arizona. Tutte sfrecciano di giorno sulle highways e tutti dormono la notte in accampamenti come città provvisorie, sempre più poveri e affamati, sempre meno tollerati da polizia e gente, sempre più profughi in casa loro.
***Valle della Morte… Ma de che?*** A sentirne parlare, a leggere la Lonely Planet e i siti ufficiali dei parchi americani andare la dEath Valley pareva proprio un azzardo a settembre. Temperature altissime, rischi di surriscaldamento del radiatore, avvisi di portare almeno 8 litri d’acqua a testa e provviste e mai avventurarsi fuori dalle strade principali, raccomandazione di leggere il bollettino giornaliero prima di partire e storielle sulle varie vittime del caldo nella Valle. Pareva proprio una meta interessante e avventurosa, un posto pericoloso. Immaginavo già il coraggio di Ale che cambia una gomma sotto il sole cocente, scuoia un serpente a sonagli per sfamarci e sacrifica il tabacco per le sigarette in un unico grande fuoco di segnalazione per i ranger.
Invece… La Chevrolet Equinox che avevamo a noleggio aveva 5k miglia all’attivo, era nuovissima e in ottime condizioni, non ha fatto una piega e anche quando fuori il termometro segnava 108 gradi Farenheit (se volete sapere quanti sono in gradi Celsius dovete sottrarre 32, dividere per 9 e moltiplicare per 5) l’aria condizionata ci accarezzava delicata.
E noi che da bravi avevamo comprato il gadget irrinunciabile di tutti gli italiani che noleggiano l’auto negli USA: lo Styrofoam Cooler. Trattasi di una scatola in polistirolo dentro cui mettere l’apposito blocco di ghiaccio che vendono nei supermercati. Però detta così non rende, se come avventura è un pacco, la natura e la storia ne fanno un luogo strano e imperdibile. Le montagne, protagoniste e causa del caldo assoluto che ti asciuga il sudore appena si forma, lasciandoti asciutto e disidratandoti senza che tu te ne accorga, sono impressionanti. Per noi la montagna è una cosa, ma in California ho visto tanti altri tipi di montagna, e nessuna vi assomigliava. Qui alcune erano marroni e altissime, coperte di terra e polverose, ma le più sensazionali, a Zabriskie Point, sembravano, non mi viene immagine migliore, il mantello degli Shar Pei, quegli strani cani rugosi. Dall’alto del punto reso famoso da Antognoni nell’omonimo e stranissimo film si vedono distese sconfinate di queste vette e di più basse colline, di un colore giallo irreale. Se mi dicessero che è il pianeta Klingon non farei fatica a crederci.
Mi ha fatto ridere vedere, in cima alla salita da fare a piedi sotto il sole, una panchina che si stagliava su quello sfondo spaziale. Una normale panchina di legno con tutte le incisioni tipo “Gina love Gennaro”, ma messa lì sembrava un oggetto alieno.
Nell’oasi, che però si chiama Furnace Creek e dove è stata registrata la seconda temperatura più calda sulla terra dopo il Sahara, leggiamo della storia delle carovane di muli che quando ancora non c’erano strade su questa terra bollente e ondulata portavano via il borax, base per la soda caustica e il sapone. C’erano solo sentieri strettissimi tra le montagne, e le carovane cariche portavano campanelli squillanti che segnalavano già a molte miglia di distanza alle carovane vuote che tornavano dalla direzione opposta la necessità di spostarsi e di dare strada.
Fuori dal museo dei 20 mules pezzi di carri d’epoca ti ricordano come viaggiavano i primi pionieri di queste terre che gli spagnoli non avevano voluto esplorare perchè troppo aride e difficili.
Continuiamo verso ovest nel tratto più montuoso della Death Valley, sempre meno desertico e meno caldo, e dopo una visione da miraggio di dune sabbiose accarezzate dal sole che cala ci godiamo una cavalcata in groppa alla nostra Equinox tra le montagne più alte al tramonto.
La cosa più pericolosa della giornata è il gatto nero grosso come un coyote che mi guarda con gli occhi gialli enormi al ristorante la sera (mi ricorda Behemot del Maestro e Margherita) e si avvicina alla mia sedia…
Per i Joad ci sono momenti difficili nel loro viaggio verso la sognata California. Muore il nonno e sono costretti a seppellirlo in un campo perchè non hanno i soldi e il tempo per un vero funerale. E’ per loro il segno che sono diventati qualcosa d’altro rispetto alla famiglia che erano. Perdono anche uno dei figli, Noah, che decide di non continuare il viaggio, e anche il marito della giovane figlia Rosasharn, incinta, non dà più notizie di sé. Cambiano i rapporti dentro la famiglia, è la mamma, centro di positività e di saggezza, a imporsi sempre di più nelle decisioni. Quando si sta fermi possono decidere i mariti, ma in tempi come questi comandano le mogli…
***I panni sporchi non si lavano in casa, ma al laundromat*** Los Angeles è un gigante che ha sete. Così dice la Lonely Planet. E per dissetarlo hanno costruito un acquedotto che prende l’acqua nella Eastern Sierra, il tratto, appunto, ad est della Sierra Nevada che era costellato di placidi laghi. Ora sono quasi tutti secchi, tranne i più grandi e profondi, che però sono diventati poco più di stagni.
Nulla gli impedisce però di essere belli e irreali come il Mono Lake. Lo incontriamo dopo che il paesaggio si è fatto montano, dopo gli abeti, la Sierra Nevada altissima sullo sfondo. E’ strano il Mono Lake perchè ha degli strani pennacchi che vengono su come stalagmiti, che si sono formati per reazione chimica nel lago. Intorno la vegetazione è bassa, cespugli da deserto ma fioriti di giallo acido. Il lago è uno specchio calmissimo, e le montagne si riflettono scure contro l’azzurro del cielo. E’ bello, è pace.
Per arrivarci attraversiamo una strana America di paesini del west, con le case di legno basse e i saloon. Vediamo anche la polizia arrestare un ragazzo, è una scena calma, lontanissima da quelle viste in TV.
E’ un giorno di semi riposo, rifacciamo le valigie, leggiamo molto, guardiamo il lago e facciamo il nostro passatempo preferito fin dal Canada dello scorso anno: il bucato nelle lavanderie a gettone. Ce ne sono ovunque, e in tutte trovi qualcuno da osservare mentre i tuoi panni si lavano e poi diventano soffici e caldi sotto il getto d’aria dell’asciugatrice. Questa volta il tema era: casalinghe disperate. Il top era rappresentato da lei, la chiameremo Shirley. Circa 50 anni, cotonatura d’ordinanza, trucco, divisa da casalinga americana (jeans a pinocchietto, scarpe da ginnastica, top senza maniche), fisico asciutto, quasi secco. La sua conversazione, sia con noi che con le altre donne, era su un unico argomento: il commento degli abiti. Che bello quello, ma che carino quello. Ha elogiato perfino la mia trasandatissima gonna lunga. Alla prossima Shirley…
Insieme ai Jods viaggia Casey, ex predicatore ormai convinto di voler cambiare vita. Quando in un accampamento di migranti Tom, carattere forte e non avvezzo a farsi trattare da bestia, ha un problema con un poliziotto, Casey si accusa al suo posto (Tom è fuori prigione con la condizionale e rischierebbe troppo) e i Joad partono di fretta. Arrivano ad un campo governativo dove la vita sembra così semplice e bella da fare quasi paura. Ci sono le vasche da bagno con l’acqua calda, che loro non hanno mai avuto, e i bambini scoprono in una scena tenera e comica l’esistenza dei bagni con lo sciacquone. Ci sono comitati interni per l’accoglienza, tutti collaborano al funzionamento del campo, il sabato sera ci sono musica e balli e perfino la polizia è interna e non succedono disordini o problemi. Per la prima volta dall’inizio del viaggio i Joads si sentono di nuovo persone. Per la prima volta non sono più “Oakies”, come venivano chiamati i migranti in segno di disprezzo, ma sono Mr and Mrs Joad. *** Natura immensa: il granito e le sequoie di Yosemite *** Dai 110 F° della Death Valley ai 32 F° (zero gradi Celsius) di questa mattina fredda e frizzante. Entriamo nel parco di Yosemite dall’ingresso più impervio, gli oltre 3mila metri del Tioga Pass, e tutto è subito immenso. Una volpe argentata enorme ci taglia la strada poco prima di arrivare al cospetto dei due grandi giganti di granito: el Capitan e l’Half Dome, le due cime più famose e strabilianti di questo parco meraviglioso. Più si sale e più la vista è spettacolare, fino ad arrivare in cima al Glacier Point. Da qui la valle appare come un mare verde sconfinato di pini e abeti e douglas e, ai due lati i grandi monoliti. Ci sediamo a respirare questa vista. E’ la più famosa, la più fotografata, ma ora è davanti ai nostri occhi e la vista si perde sullo sfondo troppo distante.
Vogliamo vedere le sequoie giganti del Mariposa Grove. Siamo curiosi, ma quello che ci aspetta al nostro arrivo è oltre le nostre aspettative. Alberi, giganti, enormi creature che vivono da centinaia, alcune da migliaia, di anni. Mentre i Greci creavano la storia che ho amato studiare il Grizzly Giant davanti a cui Ale mi ha fotografata c’era già. E mentre Guglielmo D’Orange conquistava l’Inghilterra nel 1066 era già un albero vecchio e altissimo. Ho immaginato da un lato la storia d’Europa, del mondo, e dall’altro la sua. Stabile, statico ma vivo. In questa foresta in California. L’invenzione della stampa. Napoleone. I viaggi di Darwin. Le guerre mondiali. La bomba di Hiroshima. L’invenzione del computer. Il Grizzly Giant.
Mi ha colpito il rapporto della sequoia con il fuoco: amico e nemico, vitale e distruttore. Senza gli incendi naturali i boschi di sequoie giganti non possono sopravvivere. Il fuoco uccide le piante che vivono all’ombra e pulisce il bosco. Il vapore e il caldo che vanno verso l’alto fanno seccare e aprire i coni che custodiscono i semi permettendo loro di uscire. Il fuoco è la causa di morte di molte sequoie giganti, e di tutte le loro cicatrici. Ogni grande albero ha i segni del suo amore per il fuoco. Nei boschi dei parchi dove gli incendi naturali non possono essere lasciati liberi di sfogare la loro forza vengono creati fuochi controllati, per mantenere l’equilibrio naturale.
Più di una volta i Joads hanno incontrato per strada qualcuno che li ha avvertiti. In California non c’è più lavoro. Il volantino che hanno visto e che ricercava 500 raccoglitori di frutta era stato stampato in 5000 copie per avere più persone disponibili e abbassare loro il salario. E’ questo il meccanismo dei latifondisti californiani: creare la guerra tra i poveri, schiacciare i piccoli proprietari rimasti e concentrare tutto nelle mani di pochi. Mentre i bimbi muoiono di fame, la crisi spinge i latifondisti a lasciare marcire le prugne sugli alberi e a gettare via le patate per rialzarne i prezzi. Enormi quantità di terreni sono incolti, è impensabile per le famiglie di agricoltori come i Joads lasciarli così, senza ricavarne almeno un po’ di cibo, ma chi ci prova viene picchiato dalla polizia. Al campo governativo le cose vanno bene, forse troppo bene, e i proprietari organizzano una rissa pilotata per far entrare i poliziotti nel campo, ma l’organizzazione interna la sventa. I poveri se si mettono insieme sono forti. Ma non c’è lavoro lì, e i figli più piccoli così come la povera Rosasharn che è incinta hanno bisogno di mangiare. Pare ci sia lavoro nel cotone a Nord, e i Joad sono di nuovo in marcia. Senza più la nonna, perchè anche lei è morta.
*** She was a master *** Eh va beh, in fondo era qui che volevamo arrivare: San Francisco, la meno americana delle città americane, fatta di tante piccole città con anima da vendere (e dopo Las Vegas che l’anima se l’è venduta al diavolo dall’inizio della sua fondazione, è un bel contrasto). Entriamo in città con l’ottimo treno dall’aeroporto, senza veramente aver pensato a cosa fare, in una domenica pomeriggio caldissima e assolata. Ma dov’è la nebbia? Dove sono i 15 gradi C? Chissenefrega, prendiamo la metro e andiamo a vedere la Baia. Come per molti viaggiatori del passato il nostro approccio con San Francisco (non chiamatela Frisco, pare che per gli autoctoni sia un insulto… Ma ci sono autoctoni in questo porto di mare?) è il vecchio terminal dei traghetti, trasformato in mercato agricolo il sabato e il martedì e in squisito centro culinario tutti i giorni. Funghi, maiale, verdure, gelato, tutto rigorosamente bio, vengono venduti in piccoli locali dentro il vecchio terminal. Sul retro, con vista sul Bay Bridge (il fratello grigio del Golden Gate) ci sono i tavoli dei ristoranti famosi e le panchine del food to go. Tutti insieme, tutti seduti a guardare questo strano pezzo di mare interno che gli spagnoli per secoli hanno mancato da mare, ogni volta per un soffio.
Mentre Ale si allontana per la sua sigaretta io mi siedo su una panchina. Vicino a me, al tavolo del famoso ristorante vietnamita Slanted Door (ne parleremo perchè ci siamo andati ed è stato celestiale) siede una donna, verso i 40, molto curata, riccioli neri. Una bionda secca, che passava proprio davanti a me le si rivolge con l’aria entusiasta di chi rivede una vecchia amica. Io volevo, insomma, volevo non sentire, ma accidenti all’inglese non ho potuto evitare: Hi Jane!!! I can’t believe it’s youuuuu! Hi!!! Ow what a shame we lost each other! Have you recently heard about Linda? She’s in Florida now and… She’s got a boyfriend! A boyfriend? I can’t believe that, she was a gorgeous pussy eater! She was a master! I know it well! And so do I!! Oh, I have to go now, I’m here with my friend Robert, he’s over there Oh, so you also have a boyfriend now? No way, I’d rather go for a banana! Tutti compiaciuti di aver assistito ad una conversazione da San Francisco GLBT ci avviamo lungo l’embarcadero. Alla nostra sinistra vediamo la parte alta della città, ma ancora non osiamo entrarci. Continuiamo lungo il molo e arriviamo al chiassosissimo, pacchiano e orribile Pier 39, una specie di festa di paese-luna park perenne pieno di gente, puzza di ciambelle fritte e gadget di ogni tipo. Avevo sentito dire però che ci sono le otarie. Le cerchiamo, giriamo, pensiamo che si tratti di un paio di sgarrupati esemplari in balia dei turisti. Ad un certo punto sentiamo dei fortissimi latrati, giriamo l’angolo e… Eccole! Centinaia di otarie su piattaforme di legno, ovviamente con scritta pubblicitaria Pier 39, che sembrano sfidare la città. Fanno casino, saltano su e giù, si incazzano tra di loro, si buttano in acqua. Facciamo fatica a staccarci da questa vista.
Ma è ora di provare il Cable Car, lo strano tram di San Francisco, quello famoso e vecchiotto con la gente attaccata ai predellini che sembra cadere ad ogni dislivello.
Ci sono piaciuti i trasporti pubblici qui. C’era di tutto, dagli ordinati e diligenti turisti ai vecchi hippy scatenati, dai ragazzini di varie etnie ma tutti vestiti uguali con skateboard e caschetto al sosia di Babbo Natale tatuato anche in faccia e con ai piedi delle calze di gomma con le dita. C’erano i tram di Milano (si, di Milano!) sulla linea F di Market Street che recupera vecchi mezzi di città di tutto il mondo e li rimette in funzione, c’erano i modernissimi trenini della metro, i bus elettrici e quelli diesel. Con la mia cartina degli orari e delle linee mi sentivo espertissima, e ci sarei proprio rimasta a Frisc.. Ehm, no, a San Francisco.
I Cable Car sono un mondo a parte. Sono vecchi, proprio vecchi. Quando arrivano al capolinea due uomini li spingono su una piattaforma girevole e, oplà, sono pronti per ripartire. Per prenderli c’è la coda, il che ti mette in balia di intrattenitori più o meno folli e suonatori di qualsiasi cosa. Ci mettono tantissimo a partire perchè vanno riempiti fino all’inverosimile e poi ti lasciano in attesa ad aspettare il turno di partenza. Vengono guidati da uomini che stanno a metà tra l’intrattenitore e il tramviere. A noi sono capitati cinesi sgrammaticati, un sosia di Denzel Washington, uno di mio nonno Romolo e uno del mio amico Ernesto. Ernesto era il migliore di tutti, e l’abbiamo incontrato di notte. Spiegava la città, faceva battute, parlava ai passanti, fingeva di non sapere quale fosse, tra le due leve di manovra, il freno, e sosteneva di essere al primo giorno di lavoro.
Casa nostra era al capolinea su Powell Street, ottima solo per questa vicinanza ai trasporti perchè io proprio non ci sto a pensare a questo pezzo di San Francisco uguale a tutti i pezzi di città dedicati allo shopping. Bleah! Prima di dormire, dopo essermi guardata una meravigliosa televendita di un aggeggio da cucina per cui nutrivo una insana attrazione (dai, in 30′ secondi tagliavi tutte le patate direttamente in pentola, e ti regalavano anche il Juice maker!), sono andata a vedere cosa facevano i miei amici dell’Oklahoma…
Il lavoro di raccolta del cotone è quello da cui sono scappati. La beffa del destino è enorme, era questo che gli si prospettava se fossero rimasti a casa loro, ed è questo che sono finiti a fare vivendo in una capanna fredda e umida. Ma dopo la prima giornata di lavoro possono comprare da mangiare. E’ per questo che tutti lavorano ormai, la sussistenza. Abbandonati i sogni di mettere da parte qualcosa e di comprare una piccola casetta, ora vogliono solo sopravvivere. L’ottimismo e la forza della mamma vacilla di fronte al pallore di Rose of Sharon, Rosasharn, che è sempre più incinta e sempre meno forte. *** Hai voluto la bicicletta? *** Lo volevo fare: noleggiare una bici e andare sul Golden Gate Bridge. Così, dopo una mattina passata a soddisfare le voglie di shopping da snowboarder del maritastro, e con un fantastico hambuger bio, birra bio e ogni ben di bio nello stomaco siamo andati a prendere le bici, caschetto, cartina, e siamo partiti.
Insomma, io non ho il fisico. Ma quando vedo il mio atletico marito che non riesce quasi ad avanzare sul lungomare ventoso mi rincuoro un po’, non sono mica solo io… Solo che il ponte è lontano ed è terribilmente in alto! La mia mente va a tutte le altre volte in cui raggiungere una meta a piedi con fatica mi ha reso lo spettacolo in cima ancora più bello: il Palazzo di Sintra vicino a Lisbona col mio amico maratoneta Joao, i laghi vulcanici nell’isola di Flores in Indonesia sulla scalinata infinita alll’alba, la salita all’Isle Bonaventure l’anno scorso in Canada, le scale per il terzo piano di mio fratello a Torino.. Ehm no questo è la prova che non ho proprio il fisico…
Comunque pedaliamo, e un po’ la faccio a piedi. E arriviamo sul ponte. E’ bello sapere di essere lì sopra, il rosso mostro d’acciaio è impressionante da vicino, e il vento che tira fortissimo è un ingrediente in più alla bellezza del momento. Devo dire onestamente che però mi sono goduta molto di più, questa volta, il momento che segue: la discesa a rotta di collo e il vento a favore, per quello il fisico ce l’ho, e la gravità mi fa andare anche più veloce dello smilzo marito! 🙂 Tom è inquieto, è l’unico che proprio non ci sta. E’ curioso, è sempre in movimento. Vuole vedere cosa succede fuori dalle baracche, perchè arrivando ha visto degli uomini e dei poliziotti confrontarsi. Per Tom non c’è niente da fare, l’ingiustizia di questo pezzo di vita, pezzo di mondo, pezzo di storia è insopportabile e non riesce a sottomettersi. Ecco cosa succede: uno sciopero. Tra gli uomini riconosce Casey, il predicatore. Si abbracciano. In galera, al posto di Tom, Casey ha capito una cosa: la sua anima è l’anima del mondo, e deve fare qualcosa. Gli uomini stanno organizzando uno sciopero per far finire la guerra tra poveri dei salari al continuo ribasso. Casey è con loro.
*** Del perchè non siamo andati ad Alcatraz *** Oggi faremo qualcosa di poco americano e qualcosa che di più americano non ce n’è. Abbiamo prenotato un pranzo al vietnamita chic (quello della pussy eater) dove i nostri orizzonti culinari secondo i forum che ho frequentato quest’estate dovrebbero aprirsi a nuove vette, e poi andremo a vedere una partita dei Giants nello stadio di baseball più bello d’America.
Abbiamo tempo fino alle 13.45 prima del nostro pranzo, e vogliamo andare ad Alcatraz. Si è una meta piuttosto tamarra e le navi piene di turisti sono poco invitanti, ma da quando ho visto Kevin Bacon farsi tagliare i tendini da Cristian Slater nell’Isola dell’ingiustizia il luogo mi suscita emozioni sinistre. Prendiamo il tram che porta al molo. E li, inevitabile come il raffreddore in inverno, l’incontro fatale con il più temuto dei personaggi della città: l’italiano. Il turista italiano, quello che fai finta di non conoscere perchè incarna i tuoi stessi difetti e dice le tue stesse cazzate però le dice a voce più alta e con un accento non tuo. Poco importa se pure tu sei negli stessi luoghi, l’Italiano che tu detesti sicuramente ha fatto scelte più banali o è in un viaggio organizzato. O almeno di questo tu sei convinto. Su questo particolare tram, l’Italiano assume i connotati di 2 coppie evidentemente in viaggio di nozze (fedi scintillanti al dito), conosciutesi in viaggio (lo si capiva dai discorsi), romani (e di borgata, direi!) Amò, che sai ‘ndo stiamo? Amò, c’è er mare, saremo ar porto Ma come se va ad Arcatraz? Pe’mmare no? Aho che nostalgia dell’autobus de Roma, sai noi prendiamo la macchina solo na vorta a settimana peffà ‘a spesa, ‘e bollette e pagamo alla Sisal sotto casa, stiamo comodi comodi.Pensa che so annata a fa na raccomandata per mi madre alla posta e nun sapevo come fa, dopo un po’ che nun ce vai perdi tutto Eh si, perdi, perdi E li, mentre riflettevo sull’importanza dell’allenamento postale, ho capito che era troppo tardi per andare ad Alcatraz, che avevamo poco tempo prima del pranzo e che in fondo non volevamo proprio vederla. Così ho fatto un cenno silenzioso al mio bel marito e siamo scesi.
Aho, anvedi è uscito l’urtimo de Dan Brown è l’ultima frase che ho sentito.
*** Take me to the Ballpark*** E’ ufficiale, i camerieri gay adorano mio marito. Non li biasimo, è bello, è biondo e sorride spesso, piace anche a me. Ma mentre mangiamo l’involtino primavera più buono del mondo (e meno involtino primavera del mondo, visto che non era fritto, era freschissimo e ripieno di foglie di menta e spaghetti di riso) questo bel tipo, metà Tenente Dan di Forrest Gump e metà ballerina di Las Vegas cinguetta e saltella quando passa davanti al nostro tavolo e fissa sempre e solo Ale negli occhi quando parla con noi. Per questo avrà una enome, ENORME mancia, in fondo è un complimento per me 🙂 La cucina dello Slanted Door è vietnamita, viene dal cibo di strada, ma raggiunge vette paradisiache. Questo diceva la Lonely Planet, e le abbiamo creduto, prenotando il tavolo quasi un mese prima via Internet. Mi sembrava una cosa un po’ sciocca ma l’ho fatto lo stesso. E ne valeva la pena. Era tutto strano, realmente esotico e buonissimo. Ma così buono che se penso che nel mio stomaco il cibo entrato dopo il manzo celestiale del vietnamita è stato l’hot dog da stadio mi fa un po’ effetto… L’AT&T Ballpark, Home of the San Francisco Giants, visto da fuori è un grande edificio di mattoni rossi. Ci arriviamo in un pomeriggio ventoso, e fuori dai cancelli cominciano a radunarsi tifosi arancioni dei Giants. I San Francisco Giants sono tra le squadre più titolate in assoluto negli Usa, hanno compiuto l’anno scorso 50 anni (e in una nazione dove 200 anni sono quasi tutta la storia direi che non è poco) e percorrere la loro Hall of Fame è interessante, anche se ovviamente noi non ne capiamo nulla! Quindi, prima della partita ripassone delle regole e lettura attenta del giornale dei Giants.
Visto da dentro il Ballpark è un gigantesco palcoscenico adagiato sul mare, con la baia come sfondo e 70 mila posti a sedere. Quando entriamo è ancora vuoto e sembra ancora più grande. I giocatori sono già in campo per il riscaldamento, e riusciamo ad arrivare fino a bordo campo. I posti popolari, i “bleachers” a fondo campo, sono già tutti pieni e qualcuno getta in campo una specie di retino chiedendo a gran voce ai giocatori in regalo una palla.
Lo stadio è immenso, e dentro c’è una specie di centro commerciale su più livelli con vendita di ogni sorta di gadget e di cibo, questa si una vera americanata.
Il mio corredo da partita è il mio fido pile Decathlon, sciarpa e berretto di lana, hot dog d’ordinanza e mega bicchiere di limonata. Ale è come sempre fighissimo e sa pure come si gioca il baseball, il maritastro è sempre più americano…
Ovviamente ora siamo tifosi dei giants, ed in particolare di Pablo Sandoval, classe 1986, un tondissimo e poco atletico fanciullo dalla pelle color bronzo e un cespo di capelli neri che pare stia facendo furore. Lo chiamano il Panda.
Prima dell’inizio, è normale negli USA l’inno nazionale. A tutti viene chiesto di alzarsi e di togliersi i cappelli perchè Miss qualcosa dovrà cantare. Già nel maxischermo l’immagine della Miss è particolare, ma è solo quando inizia a intonare con patriottica faccia di circostanza “Oh say can you see..” che è chiaro, chiarissimo, che siamo a San Francisco. Miss qualcosa è chiaramente un uomo con una parrucca bionda, molto trucco e un abito da Vladimir Luxuria quando era parlamentare.
La partita è bella, non emozionante e non troppo vissuta perchè i Giants sono già fuori dai playoff, ma è divertente urlare insieme agli altri e applaudire i fuori campo.
Siamo nella baia, e ce lo ricordano i gabbiani che volano in grandi cerchi sopra le nostre teste e la nave da crociera dalla quale partono i flash di tante macchinette fotografiche verso di noi.
La mascotte Lou Seal puttaneggia con le ragazzine, la gente continua ad andare su e giù con panini, nachos, hot dog, bibite giganti mentre le mani sempre più gelate si scaldano con cioccolate calde dal sapore orrendo ma bollenti quanto basta.
Pablo Sandoval, da noi chiamato Paolino, fa la sua parte anche stasera, battendo quasi subito un home run. Noi da veri neotifosi urliamo, esultiamo e gridiamo slogan – in italiano perchè fa più esotico- Ci uniamo perfino alle grida “Who?” “Ribe”, giochino di parole per il giocatore Uribe che ricorda il famoso “Chi gioca in prima base?” “Chi”.
Dopo “sole” quattro ore i Giants portano a casa la gara in un nono inning giocato solo a metà, e dopo uno scambio di “five” con i nostri vicini di posto da veri tifosi usciamo.
Unica cosa che ci è mancata è vedere Charlie Sheen entrare al suono di “Wild thing”… Eh si, anche se cerchiamo di darci un tono in questa notte californiana, siamo pur sempre dei provincialotti per i quali la Major League è quella dell’omonimo film.
Le cose si mettono male per Tom e Casey. Un gruppo di poliziotti si avvicina e uno di loro uccide Casey. Inizia una lotta nella quale Tom viene ferito al volto e colpisce un poliziotto. Scappa, e scappando capisce di averlo ucciso, e capisce che la sua vita ha di nuovo preso una piega tragica. Torna alla capanna dei suoi, e viene nascosto per la notte, ma è chiaro che non può stare lì. Deciderà di seguire le orme di Casey, rimarrà un po’ nascosto nella boscaglia fino a che le acque non si saranno calmate e poi vuole stare nel mondo, accanto ai deboli, gli sfruttati. Vuole combattere per i diritti e contro la fame, le vessazioni e la povertà.
*** Epilogo *** L’ultimo giorno hai due scelte: o cerchi di vedere tutto quello che non hai ancora visto, o vai nei tuoi posti preferiti e cerchi di goderteli. Per mia natura farei la seconda, ma c’era ancora troppa San Francisco da vedere.
Abbiamo preso un autobus fino a Castro, storico quartiere gay, la Terra Promessa per molti anni per chi veniva discriminato e non accettato (come se ora non succedesse più…) per i suoi gusti sessuali. La sua identità Castro la dichiara subito, con le bandiere multicolore su tutti i lampioni, con i negozi di vibratori dalle vetrine sorprendenti, con le insegne dei negozi ironicamente ammiccanti (Baked with Love, Sold with Pride). Il quartiere è carino, pieno di locali e molto accogliente, e ci passeremmo volentieri più tempo se il tempo non fosse agli sgoccioli quindi… Altro autobus e via fino all’incrocio tra Height & Ashbury, storico luogo della Summer of Love. Qui l’aria Freak si respira ancora, anche se ci sono troppi negozi di scarpe alla moda (e mio marito ovviamente può mica non comprane un paio di jeans, enormi e con delle linguette da tamarro che tradiscono le sue origini?) per sembrare ancora quello che era.
La giornata corre troppo in fretta. Rientriamo in hotel… Non ho mai parlato del nostro hotel! Herbert si chiama, e ha la reception dentro un ristorante messicano. Eh si, tu arrivi lì davanti e c’è la vetrina del ristorante Mexican Grill, entri e sulla destra trovi accanto ai tavolini una reception grigia con una sorridente giovane ragazza. L’ascensore è dentro il ristorante, e tu sali in mezzo ad odori di cucina fino alla tua piccola ma carina stanzetta. Rientriamo, quindi, e mangiamo finalmente al messicano sotto casa.
Nel pomeriggio facciamo un ultimo giro in Cable Car, leggiamo un po’ e ci riposiamo davanti alla cioccolateria italiana Ghirardelli, ma ormai è chiaro che la vacanza è finita. Nemmeno la serata allo chicchissimo ristorante Zuni, dove bevo il mohito più buono mai assaggiato e dove il pollo è celestiale riesce a toglierci l’idea che ormai queste 2 settimane sono passate.
Da lì è un attimo: la sveglia alle 4, l’aeroporto, il volo fino ad Atlanta, la coincidenza per Milano, i cagnacci che ci accolgono a casa regalandoci un bel piccione senza testa, le foto guardate e riguardate con gli amici, il jet lag che si fa sentire… Non vi dirò come finisce la storia dei Joad, così come Steinbeck non ci racconta esplicitamente cosa ne è di Tom, e noi possiamo solo immaginarlo, senza averne la certezza. Posso raccontarvi che ho letto l’ultima pagina in aereo tra San Francisco e Atlanta, con la testa che ronzava per l’emozione e lacrime calde, come in un dolce e amaro sollievo, per il più inaspettato, dolce e disperato dei finali.
PS: Se volete sapere di Tom, Bruce Springsteen cantava così: Now Tom said “Mom, wherever there’s a cop beatin’ a guy Wherever a hungry newborn baby cries Where there’s a fight ‘gainst the blood and hatred in the air Look for me Mom I’ll be there Wherever there’s somebody fightin’ for a place to stand Or decent job or a helpin’ hand Wherever somebody’s strugglin’ to be free Look in their eyes Mom you’ll see me.”