Inverno a Gyumri
Riusciamo a fare una lunga pausa e a prendere un filobus e fare un salto in centro. La città è un po’ sovietica come genere. La sera disperatamente in cerca di un ristorante Indiano dove Spiros ci ha dato appuntamento, ma non sembra esistere (e’ chiuso). Finiamo quindi senza Spiros in un locale Armeno, guidati da una ragazza belga che è qui da un po’ e ci rimpinziamo di nuovo di carne. A letto, ovviamente in camere diverse dalla notte precedente, e il giorno dopo via per Gyumri, ex-Leninakan. Città grigia, nera, marrone, triste e squallida, tutta sconquassata con metà della popolazione che vive in containers. Ci installiamo in una casa che è sopravvissuta al terremoto, dove abbiamo ciascuno una camera (la mia è piena di scatoloni di preservativi), con una cucina decisamente sistemata alla meglio e un bagno un po’ complicato perché l’acqua va e viene e bisogna ricordarsi di accendere una pompa rumorosa per riempire la cisterna. Abbiamo una cuoca/aiutante che cucina bene (e non carne grigliata: cose come pomodori ripieni e minestra di lenticchie), e la sera a volte cuciniamo noi. Adesso che scrivo, Ioanna è in cucina che spignatta e sento il profumo di patate fritte. L’atmosfera in casa e piacevole, e c’è un viavai di armeni che nonostante lo squallore generale sono proprio simpatici. La casa e arredata con cose che piacerebbero proprio tanto a mio fratello, un vero esteta. Sabato pomeriggio, dopo il nostro arrivo siamo andati al teatro per le commemorazioni del decimo anniversario del terremoto. Molti discorsi ufficiali (in armeno), concerti e danze. La sera al ristorante (l’unico della città?) dove abbiamo mangiato indovinate cosa? Carne grigliata. Domenica, a fare la spesa al mercato. A parte il freddo, simile ad alcuni mercati africani. Lunedì, l’anniversario del terremoto e quindi vacanza, siamo andati in chiesa dove un sacco di gente accendeva ceri e poi al cimitero. E molto impressionante: le tombe hanno quasi tutte una lastra verticale di marmo nero con inciso il ritratto del defunto. Metà delle tombe sono datate 7 dicembre 1988, e spesso vi è inciso un orologio con le lancette sulle 11,40, ora del disastro. Ci sono numerose tombe con tutta la famiglia, con i ritratti incisi di genitori e bambini.
Oggi abbiamo iniziato a girare ospedali. Quello delle malattie veneree è mostruoso, fortunatamente (per i pazienti) è completamente vuoto. Infatti, secondo la legge, un malato di sifilide, che sarebbe curabile in ambulatorio con un?iniezione, è obbligato a essere ricoverato e a subirne ben 114. Nessuno vuole che la legge cambi sennò l’ospedale chiuderebbe! Un grosso ambulatorio si trova dentro una volta o tunnel di lamiera ondulata, fa così freddo che hanno dovuto chiudere l’acqua. Fortunatamente non ci dormono i malati. Ho visto usare scaldini elettrici per pentole come stufette.
Visto che qui assolutamente nessuno parla una parola di Inglese o Francese, siamo sempre accompagnati da interpreti, carine, dolci e tenere. E buffo vederle imbarazzarsi e arrossire quando devono tradurre “malattie veneree” o “preservativi”. Infatti qui la società è molto conservatrice (verginità fino al matrimonio, eccetera…) e quindi il lavoro di parlare di Sifilide o AIDS non è proprio semplice.
Giovedì, 24 dicembre 1998: le prime settimane Tre settimane ormai. Comincia a fare freddo sul serio, di mattino ci sono croste di ghiaccio sul lato interno delle finestre. Anastasia, la psicologa un po’ anziana, se n?è andata, e ci sono stati casini di cui tra poco vi racconto.
Ora vi descrivo il modo in cui è organizzata la nostra vita. Viviamo in una casa che è anche il nostro ufficio. Abbiamo a disposizione due autisti: David, che parla inglese, e Haroutiun, che vorrebbe impararlo; e tre interpreti: Narine, Narine e Anahit. Le due Narine sono sposate e mamme, Anahit no. Andiamo in giro per ospedali e altri posti con gli autisti e gli interpreti, cercando di distribuirli tra di noi. Io vado normalmente in giro con Anahit, alla quale ho fatto un corso di biologia di base. Anahit è una delle ragazze armene più carine che abbia visto: pelle chiara, capelli neri, alta, slanciata, elegante, ha classe, stile e razza. E pure molto simpatica. E in contrasto con suo padre, che una volta ci ha dato un passaggio, e che alla guida della sua Lada (FIAT 124), con la barba di tre giorni e un mozzicone fra i denti faceva pensare a un tassista di Novosibirsk. Ma GUAI anche solo a PENSARE di farle un filo di corte: qui la cultura è talmente famiglia-verginità-matrimonio-controllo dei genitori che sarebbero solo un sacco di guai. “Anahit”, tra l’altro, vuol dire “Afrodite”; infatti qui in Armenia, prima della cristianizzazione avevano una religione di influenza Greco-Romana.
La mattina, sveglia alle otto e mezza e mi tocca il compito di tirare giù dal letto Ioanna. Poi, dopo uno sguardo torvo ai cristalli di ghiaccio sui vetri, vestirsi per affrontare il bagno gelido (unica stanza priva di termosifone) e fuori dalla porta ad assistere al magnifico spettacolo della padrona di casa e nostra vicina in vestaglia + tre golf che apre una botteguccia e mi vende un pane. Colazione a base di Nescafé (mi sono portato dietro una mocca e tre pacchetti di Lavazza, e ho dimenticato il filtro porta caffè), latte in polvere, burro e miele. Mentre finiamo, arrivano autisti e interpreti, e dopo un’ora di confusione e di telefonate si comincia ad andare in giro per ospedali, in alcuni dei quali fa talmente freddo che il fiato si condensa.
Non si riesce mai a mangiare a mezzogiorno: c’è una regola per il personale locale che dice che o si fa una pausa di un’ora, o si finisce un’ora prima. Ma siccome non riusciamo mai ad organizzarci, ci tocca spesso riscaldare ciò che Salvi, la cuoca-colf, ci ha preparato e mangiarlo dopo le quattro. La sera, mangiamo ancora roba riscaldata, oppure Ioanna o io, stufi, mettiamo in moto la nostra arte. Siamo a dieci minuti a piedi dal mercato, che chiude alle sei, ma vicino a casa ci sono vari negozi di alimentari tipo bottega di paese che restano aperti fino alle dieci. Per spiegare cosa voglio, devo fare dei disegni (una serie di esagoni e un’ape per del miele).
A volte abbiamo ospiti importanti (si fa per dire), allora facciamo colazione con loro come si deve, e con un’interprete. La settimana scorsa è venuto da Yerevan Thierry, il futuro capo missione, con una segretaria-interprete e due… Ispettori delle tasse. Ci siamo procurati dell’Horovatz (grigliata mista) e della Vodka Inglese, Tanqueray (!). Abbiamo brindato almeno venti volte alle vittime del terremoto, all’Armenia, a MSF, alla Grecia, all’Italia, alle nostre famiglie, eccetera. Tra tutti e due, devono aver ingurgitato mezza bottiglia.
Siamo stati invitati due volte in delle case a Gyumri: la prima, dal nostro autista David, che ha preparato un Horovatz fenomenale: in un baracchino in fondo al suo orto, c’è un curioso forno, una specie di pozzo con la brace in fondo. Sotto il coperchio di ferro, ci sono dei ganci a cui appende degli spiedoni con dei grossi pezzi di maiale e delle patate. Buonissimo! Da bere: aranciata, Vodka (armena), vino. Guai a non ingozzarsi fino a scoppiare! Comunque a casa non mangiamo mai carne grigliata (oggi Salvi ha fatto la pizza), ma minestra di lenticchie, foglie di cavolo farcite, penne allo yogurt con aglio (!), patate affettate con carne trita al forno, insalata di patate con pesce. L’Horovatz, questa grande specialità locale di carne alla griglia, è qualcosa che si mangia al ristorante, o quando si invita. Quindi non rischio la gotta, come temevo i primi giorni.
Vi ho accennato a “casini” legati alla partenza di Anastasia. Ora vi racconto. Spiros, il coordinatore, aveva le mani arrossate e irritate e si grattava. Credeva di avere un?allergia. Un giorno, siamo in un ospedale ad Artyk, a mezz’ora da Gyumri. Siamo ricevuti in una topaia gelida, che pare sia l’ufficio del direttore dal direttore e dal dermatologo-venerologo. Quest’ultimo parla un po’ di francese, nota le mani di Spiros, e mi dice di dirgli di mostrargli la pancia. L’altro, stupito, esitante (e infreddolito), esegue, e allora il medico dice “pourquoi n’a-t’il pas soigné cette gale?”. Insomma, Spiros ha la scabbia. Deve cospargersi il corpo per quattro giorni con un unguento, e fare bollire i suoi vestiti. Ed ecco la nascita del casino. Anahit, a cui il medico ha tutto rispiegato in armeno è stata zitta, ma Salvi, alla quale è stata (stupidamente, a parer mio) data istruzione di bollire i vestiti, si spaventa, non osa parlarne all’interessato, e chiede a Ioanna e Anastasia il permesso di buttargli via tutte le mutande. Anastasia, che andava via, a Yerevan ha raccontato che tutto il personale è spaventato, senza dire niente a Spiros. Risultato, E dovuta venire qui Gilla, moglie di Thierry e “medical coordinator” per l’Armenia a fare una riunione con tutto il personale e rassicurarli che la scabbia non è pericolosa. Sembra che i Sovietici mettessero la gente in quarantena, da cui il panico. Adesso Spiros è guarito.
Finora, abbiamo passato tutti i week-end a Yerevan. Lì c’e’ una casa per MSF Belgio-Grecia (MSF Francia ne ha un’altra), non è scaldata, e due week-end fa era totalmente priva d’acqua. Spiros sta da suoi amici indiani, e noi (Ioanna e io) facciamo vita sociale con quelli (quelle, sono tutte donne) degli altri progetti, che vivono in altri posti, e che pure loro vengono per il Week-end nella capitale. Ho mangiato al ristorante “pizza di Roma” la pizza peggiore della mia vita, anche se lo storione sulla pizza non sta poi male, e sono stato in una discoteca sotto un’immensa scalinata in stile “littorio”. Nella discoteca c’era la gioventù “in” di Yerevan, che scimmiotta l’occidente. Non mi sono divertito. Meno male che si riempie tra le nove e le dieci e si svuota verso mezzanotte (probabilmente per la mancanza di auto e moto e degli orari di tram e bus). A Yerevan c’è un grande mercatino di roba varia tipo “Balon”, però con molte cose nuove, che porta lo strano nome di “vernissage”. C’è roba bella (tappeti, gioielli in argento, modellini di chiese in pietra smontabili), cose spaventosamente kitsch (bottiglie in legno lavorato con set di bicchieri che quando la alzi fa una musichetta), cose strampalate (busto di Lenin in alluminio massiccio, orologio da tavolo dell’armata rossa a forma di torretta di sommergibile), cose utili (utensili da cucina, macchine fotografiche usate, cannocchiali, ecc.). La città sembra abbastanza animata, ci sono bar, ristoranti, Jazz-club, teatri, l’Opera. Pare che l’estate sia tutto un “dehors” di caffè, ecc. Confronto Yerevan-Gyumri: Parigi-Cuneo? Domani sera, Natale con tutti gli espatriati MSF nella casa di Yerevan. Proverò, se il forno che c’è la non mi esplode in faccia, a fare un Gigot d’Agneau. Sennò cercherò di coprirmi di gloria con una gran pastasciutta.
Venerdì, 15 gennaio 1999: Natale e capodanno La festa di natale è stata organizzata nella casa comune di MSF Belgio-Grecia a Yerevan il 25 sera, con istruzioni a ciascuno di portare qualcosa. Ioanna ha voluto fare un piatto che secondo lei è tipicamente greco, un “pastitsio” cioè maccheroni al forno con carne tritata e besciamella. Io ho pensato di produrmi con un Gigot d’Agneau, un cosciotto di agnellone al forno. Siamo perciò andati al mercato di Gyumri, dove al reparto carni ho dovuto mettermi a belare come una pecora per fare capire che volevo carne ovina. Ottenuto uno stupendo cosciotto da due chili per l’astronomica cifra di quattro dollari, e Ioanna avendo trovato ciò che le serviva, siamo partiti alla volta di Yerevan. Lì era stato deciso che ciascuno doveva comperare un regalo, e la sera i doni sarebbero stati tirati a sorte. Quindi la prima cosa che abbiamo dovuto fare è stata di andare a cercare sti’ benedetti regali. Spiros ha avuto la brillante idea di comperare un pupazzo peloso che, alla minima vibrazione, si metteva a suonare la musica di “Fra Martino, campanaro…” e “Nella vecchia fattoria, ia, ia, ooh…”. Ora, ogni volta che l’auto sobbalzava su uno dei numerosi buchi delle strade incredibilmente ben tenute di Yerevan, e alè: Fra Martino, eccetera. Ovviamente, era privo di interruttore. Che voglia di buttarlo fuori dalla finestra. Pregavo che la sera, quell’oggetto non capitasse a me.
Arrivati a casa, ci siamo messi a cucinare. C’è un solo forno, piccolo, con due posizioni: “spento” e “caldissimo”. Ioanna, che per la sua pasta al forno aveva bisogno di calore più moderato e di spazio, è andata a bussare dai vicini che, non solo le hanno prestato un forno ma, in accordo con le tradizioni di ospitalità armena, l’hanno rimpinzata di cioccolatini, dolci, caffè, cognac, vodka e coca-cola. Io ho usato il forno, ottenendo come risultato un’ottimo gigot ma la casa riempita di fumo bianco e dell’odore acre del grasso bruciato. Arrivano i primi convitati, si addobba il salotto di ghirlande, si fa l’albero di natale, si sbevazza, poi tutti a tavola. Il pastisio e lo gigot hanno avuto il loro meritato successo, poi il fidanzato armeno di una dottoressa di MSF, mascherato da Babbo Natale, ha tirato a sorte i regali. Fortunatamente il babacio cantante è finito a Sandrine, la contabile. Ioanna è riuscita a fare una gaffe: aveva comperato una calcolatrice armena, come quelle dei negozi e degli uffici postali, cioè un pallottoliere, e una bottiglia di vodka con una divertente etichetta sulla quale c’era un faccione rubicondo con un paio di baffoni neri. Be’, il tutto è capitato ad una interprete armena, alla quale non solo è stato ricordato con tatto e delicatezza che il suo paese è giunto al livello di sviluppo tecnologico delle palline che scorrono su dei fili di ferro, ma sembra che il personaggio rappresentato sull’etichetta della vodka fosse un suo parente morto di recente in ospedale. Ciononostante, è stata una serata simpatica e riuscita.
Il giorno dopo, stufo di gelare o di essere riscaldato da scaldini a kerosene puzzolenti, e avendo davanti agli occhi una enorme, stupenda stufa a gasolio ahimè sempre spenta perché “pare sia guasta”, ho deciso di rendermi degno del mio soprannome di Otto Kruntz (personaggio di scienziato pazzo sul Corriere dei Piccoli, parecchi anni fa). Risultato: un Kruntz nero di fuliggine dalla testa ai piedi, una stufa che ha funzionato si e no un’oretta, una casa piena di fumo nero e più fredda di prima a causa delle finestre che si sono dovute spalancare per dissiparlo. Però a qualcosa tutto sto’ casino è servito: Sandrine si è data da fare, così che per il week-end di capodanno la stufa sarà riparata. Resto del week-end tranquillo, con decisione notturna il sabato sera da parte di Kathleen (belga) e di Myriam (belga pure lei) di fare le patate fritte, e essendosi lamentate dell’assenza di maionese, le ho insegnato a farla. Il salotto a mezzanotte aveva quindi un’aria vagamente surreale, con due ragazze che pelavano patate, un’altra che faceva colare un filo d’olio e io che giravo vigorosamente le uova. All’una, sempre sul tavolo basso del salotto, si banchettava a base di patate fritte pucciate nella maionese.
Di ritorno a Gyumri, niente di speciale da raccontare, sennonchè ho scoperto che allo SVDH, l’ospedale sempre deserto specializzato nelle malattie veneree, che noi riforniamo puntualmente di test sensibili, specifici, efficaci e semplici da usare per la diagnosi della sifilide, continuano ad usare una tecnica antidiluviana lunga e complicata, che secondo loro è la migliore. Sono andato a vedere due volte come si fa: la prima, tutto è andato in malora per mancanza di corrente; eppure i test forniti da MSF e raccomandati dall’OMS non hanno bisogno di elettricità. La seconda, perché il sangue di montone era emolizzato, cioè danneggiato. Allora gli chiedo ma cos’è sta’ storia di sangue di montone? Insomma, ne hanno bisogno per lo svolgimento della reazione. L’estate, pare che un tale animale pascoli nel cortile di fronte al laboratorio, e che regolarmente gli facciano un prelievo. In inverno, vanno dal cugino del direttore dell’ospedale, che ha un allevamento di pecore. E così arriviamo al 31 dicembre. Si riparte per Yerevan, dove il capodanno è stato organizzato nella casa di MSF Francia (noi siamo MSF Belgio-Grecia), un appartamento in centro. Stavolta si occupano di tutto loro, noi dobbiamo solo contribuire con dieci dollari a testa. L’appartamento è in un complesso di condomini nel più puro stile sovietico, con fili lunghi 20-30 metri tesi tra le finestre e i pali della luce (ma come hanno fatto a tirarli?) con biancheria, tappeti e collant multicolori appesi ad asciugare. I cassonetti della spazzatura sono coperti di gatti randagi in cerca di un boccone; l’ingresso e la scala condominiale sembrano usciti dritti dritti dal più bieco film neorealista, senza luce, con vetri rotti e fili elettrici penzolanti. L’appartamento, invece, come altri che ho potuto vedere, è lindo, pulito e in ordine. Lì siamo accolti da Virginie, che fa da padrona di casa, e da Manana, la capo missione, Giorgiana, che si è procurata delle “écrevisses”, piccoli astici di acqua dolce del lago Sevan, vivi, e che bollisce sul momento, in una pentola su uno scaldino elettrico per terra. Insomma, banchettiamo a base di aragosta, salumi e insalata russa insieme ad alcuni ospiti della Croce Rossa. A mezzanotte, stappiamo lo Champagne Armeno, poi ci affacciamo alla finestra dove rischiamo di farci accecare da razzi e mortaretti tirati dalle finestre di fronte e da ragazzini in cortile. Chissà se la biancheria appesa sarà tutta bruciacchiata? A questo punto usciamo, e andiamo in piazza della repubblica, ex piazza Lenin. Lì è stato allestito un immenso albero di Natale, un palco con una specie di pista da ballo, ci sono almeno cinquanta Babbi Natale (l’albero e Babbo Natale sono cose da Capodanno, in Armenia), e vari venditori di petardi e fuochi d’artificio. Balliamo, comperiamo e tiriamo qualche razzo, ci passiamo delle bottiglie di spumante che beviamo a garganella e copriamo di insolenze un gruppo di ragazzini che hanno tirato un petardone (quelli che da noi si chiamano rauti e di cui mio fratello Pierre faceva lo stesso uso alla loro età) che ha bruciato la mano di Ioanna. Sul che qualche sciagurato decide di andare in discoteca. Io che detesto simili posti, li seguo sperando in un cambiamento di programma e suggerendo di andare invece a giocare a bigliardo in un posto che mi hanno segnalato. La fortuna è dalla mia parte: la prima discoteca sta chiudendo, la seconda è cara. Io allora mi metto a pregare “speriamo siano tirchi, speriamo siano tirchi”; preghiera esaudita: trovano dieci dollari a testa troppo cari (di solito è due dollari per gli uomini, gratis per le donne)! A questo punto finiamo in un bar con musica, (Fiuuuh… L’ho scampata bella, niente discoteca la notte di capodanno), dove ben presto vengo adocchiato da un Babbo Natale, completamente ubriaco, che vuole a tutti i costi che mi alzi e mi metta a cantare con lui “Frère Jacques…”. Gli spiego che sono Italiano, e allora giù con ?Fra Martino…”; lui, non contento, attacca in tedesco: “Bruder Jakobs, Bruder Jakobs…” e alè, si ricomincia, saltando e tenendosi per mano: “Frère Jacques, Fra Martino, Bruder Jakobs…” sul che, i proprietari del bar devono essersi stufati di tutto sto’ casino nel loro locale elegante e raffinato e il babbo natale viene gentilmente invitato a andarsene da un cameriere. Ioanna, intanto, aveva freddo e, scoperto che il posto era anche un ristorante, ordina una minestra calda. Risultato, ottiene uno yogurt freddo con cetrioli e aglio. Sul che, finalmente, tutti a nanna.
Dopo due giorni tranquilli passati a Yerevan, passati soprattutto a lottare e ad annerirsi con la stufa a gasolio che alla fine si mette a funzionare davvero bene, andiamo da Kathleen a Sevan, sul lago omonimo. Sembra che sia il secondo lago più alto al mondo, dopo il Titicaca. La cittadina di Sevan è ben brutta, con le sue case non finite e i cantieri abbandonati, ma il lago è di una spettacolare, selvaggia bellezza, circondato da montagne innevate, con spiagge deserte attrezzate di ombrelloni e le rive che iniziano a gelare nei posti meno profondi. Si vede la sabbia sotto uno strato di ghiaccio trasparente, accidenti al fatto che i pattini sono introvabili! Kathleen ha promesso che farà di tutto per procurarsene, intanto il lago gelerà di più; speriamo solo che non nevichi sopra il ghiaccio! Siamo andati poi in una penisola dove ci sono due vecchie chiese armene molto belle, una era aperta e abbiamo assistito a un battesimo. Era una cerimonia interminabile con il prete che ha cantato tutto il tempo. Peccato solo che in questa piccola, antica chiesa di pietra, si sia utilizzata una bacinella di plastica rossa per battezzare il bambino. Dietro Sevan, c’è una piccola, ripida montagna con in cima il ripetitore della televisione. Kathleen ci dice che da lassù la vista al tramonto è spettacolare, allora io voglio andarci a piedi. Ioanna e Kathleen mi prendono in giro, dicono che è una sfacchinata, che si gela, eccetera, sul che scommetto una birra che arrivo in cima in mezz’ora. Va bene, mi dicono che vanno in macchina per la strada che passa dietro, e che mi aspettano sulla cresta. Mi incammino, è una sfacchinata davvero, arrivo in cima in 28 minuti, e non c’è nessuno ad aspettarmi. Da lassù il tramonto è bello sul serio, con la città, il lago e le montagne, ma fa un freddo della malora e tira un vento terribile. Io mi preoccupo: siccome guidano una Lada Niva, la prima cosa che mi viene in mente è che la loro auto si sia guastata sulla salita. Quindi mi incammino giù per la strada, continuo a non vedere nessuna auto, il sole è calato, comincia a fare buio, grido, chiamo, niente. Arrivo in basso, vedo le luci delle prime case, quando arriva un’automobile: sono loro! Cos’era successo? Quelle bestie si erano perse! Non in mezzo alle montagne, ma nella periferia di una cittadina di 30.000 abitanti in cerca della strada che sale. La sera, comunque, ci siamo tutti consolati davanti ad un magnifico pollo in agrodolce preparato da Ioanna che festeggiava il suo onomastico.
Di ritorno a Yerevan, abbiamo avuto la graditissima sorpresa di scoprire che Miguel de Clerck, il capomissione di ritorno dalle vacanze in Belgio, si è sbagliato e ha riempito la stufa d’acqua invece che di gasolio. Lo avrei strozzato. Comunque il nostro autista David, di passaggio per ricuperare Spiros, riesce a farla ripartire. Ioanna e io rimaniamo un giorno in più a Yerevan, perché il giorno dopo, il sei gennaio, è il Natale Armeno e vogliamo assistere alla messa di natale a Echtmiadzin, il Vaticano locale, celebrata dal Catholicos in persona, il capo della Chiesa Apostolica Armena. C’è un sacco di gente, tutti gli ambasciatori sono presenti, non è molto chiaro quando la messa comincia e quando finisce, i fedeli entrano, accendono ceri ed escono di continuo, ogni tanto sembra che succeda qualcosa di centrale alla cerimonia, con Calice, Ostia, che so, ma non è facile capire perché viene tirata una tenda in modo che la gente non possa vedere. Alla fine decidiamo di andare lì vicino in una chiesa molto più piccola ma molto più bella, dove assistiamo alla benedizione delle acque. In questa stupenda chiesetta di pietra, con quadri rappresentanti scene religiose alle pareti, davanti allo splendido altare vengono disposti una decina di secchi di plastica rossi, verdi e blu. Il prete immerge in ciascuno un magnifico crocifisso d’argento, e canta vari alleluia. Sul che i fedeli si avvicinano e riempiono delle bottiglie di plastica, portando quindi a casa la loro provvista di acqua santa. Torniamo a Yerevan, e dobbiamo prendere un pullman (anzi, un pulmino) per andare a Gyumri. Come in Africa, non hanno orari ma partono quando sono pieni.
La sera del Natale Armeno, di ritorno a Gyumri, siamo invitati dal nostro autista David, ma ci perdiamo nella periferia priva (come, d’altronde, anche il centro) di illuminazione. Chiediamo in giro “autista”, “Toyota”, “MSF”, e un ragazzino ci porta da Haroutioun, il nostro altro autista il quale, felice e commosso della nostra visita, non ci lascia andar via prima di averci ingozzati di dolci, cioccolatini, kaki secchi, cognac e liquore di pesca. Infine, insieme a lui e alla moglie arriviamo da David con un ritardo spaventoso, ma loro sono contenti lo stesso e riscaldano tutto il pasto. Primo week-end passato a Gyumri, ci voleva. Ieri sera siamo stati invitati da Anahit, sempre stupenda, che con la sorella, ci ha preparato un simpatico pranzetto a base di ravioli armeni (un po’ tipo quelli cinesi), pesce, insalata russa. Anahit insisteva che mangiassimo, e il padre che bevessimo. Voleva a tutti i costi che ci scolassimo una bottiglia intera di cognac! Quando sembrava che il pasto fosse finito, ci hanno cambiato i piatti, noi credevamo arrivasse un dolce, e invece è arrivata una seconda infornata di ravioli. Ma quanto mangiano in questo paese? Impossibile spedire questo file per e-mail; infatti da venerdì siamo senza telefono. Alla società telefonica dicono che c’è un corto circuito in casa o nell’isolato. Sono andato a controllare i fili, e ho visto che sono attaccati con lo sputo e il fil di ferro, escono dalla porta di ingresso, si attorcigliano intorno ad un palo, poi vanno a finire con un groviglio di altri fili arrivanti dalle case vicine su un altro palo tutto storto. Noi ci lamentiamo della nostra Telecom, ma tutto è relativo…
Domenica, 7 febbraio 1999: descrizione di Gyumri E un po’ che non scrivo perché dopo i miei lirismi letterari dovuti agli entusiasmi iniziali, mi sono installato in un tran?tran quotidiano che mette sabbia nella vaselina della mia fantasia. Mi rendo conto che non ho veramente descritto Gyumri, dove vivo, né il mio lavoro, se non a grandi linee. Cercherò di rimediare tratteggiando anche le attività dei miei colleghi, interessanti visto che si occupano di prostitute e dell’atteggiamento della gente nei loro riguardi.
Gyumri è la seconda città dell’Armenia, e una volta era più importante di Yerevan. Anticamente Kumairi poi Gyumri, chiamata Alexandropol nel 1830 dallo Zar in onore di una sua figlia, prosperò parecchio fino alla rivoluzione. In epoca comunista, ribattezzata Leninakan, è diventata un importante centro industriale. Da quel che ho capito, l’Armenia è sempre stata una zona privilegiata dell’Impero, prima di Tutte le Russie poi Sovietico. Quando il 7 dicembre 1988 uno spaventoso terremoto che provocò più di cinquantamila morti devastò la città e altri centri minori della regione, Gorbatchev in persona si recò sul posto, andò tra la folla e promise un aiuto massiccio e una ricostruzione completa. Solo che poco dopo l’Unione Sovietica sparì, e ci fu una guerra col vicino Azerbaidjan. Risultato, Leninakan riprese l’antico nome di Gyumri, le industrie sopravvissute al terremoto, completamente obsolete dovettero chiudere, soprattutto che molte di esse essendo tessili, hanno sofferto dell’embargo sul cotone ancora in vigore imposto dall’Azerbaidjan. Il risultato finale è una città in cui metà delle vecchie case è ancora in piedi, l’altra metà ha spesso solo più la facciata; i condomini di 8?10 piani (le “mostruosità sovietiche”) sono quasi tutti crollati, ed è lì che si è avuto il numero maggiore di vittime; e in tutta la città vi sono baraccopoli composte da containers trasformati in case. Noi viviamo in centro, in mezzo a case basse in pietra, con le vie che si intersecano ad angolo retto con più buchi che asfalto. C’è un negozio di alimentari ogni isolato. Non siamo lontani dalla piazza centrale, dove la cattedrale è sopravvissuta tranne due guglie, cadute, che si trovano davanti ai gradini dell’ingresso. Di fronte c’è, o meglio c’era un’altra chiesa, di cui resta solo un’arcata. Subito dopo ecco il mercato, che inizia con venditori di saponette, farina, pile, carta igienica sul marciapiede, poi diventa sempre più alimentare fino a che da sotto un arco la cui sovrastruttura è crollata si entra nel mercato vero e proprio. E la stagione sbagliata per frutta e verdura, ma ci sono certi formaggi… Di fronte ci sono negozi di roba da bere, e devo dire che un dollaro la bottiglia di vodka mi sembra ragionevole. Un po’ più avanti, si arriva al mercato dell’abbigliamento. Prima di arrivarci, sul marciapiede, si è accolti dallo spettacolo di teste di vacca mozzate e posate per terra, vendute per la preparazione del khash, una leccornia locale che purtroppo non ho ancora avuto l’occasione di gustare. Chissà perché sono lì, tra un ciabattino e un rivenditore di cassette, e non nella parte macelleria del mercato? Dalla piazza centrale, c’è una via pedonale che sale, con le case tutte intere, e dei negozi un po’ più “in”. Lì avviene il passeggio, con le ragazze al braccio di mamma, molte di loro truccate come pagliacci e bardate di cuoio nero. Pare che quando fa più caldo, è tutta una minigonna inguinale e un trucco da puttana di quart’ordine, però nell’assoluto rispetto della più integralista verginità. Gli uomini invece sfoggiano lunghi cappotti anche loro di cuoio grigio scuro o nero, così che il tutto da un’impressione di gioconda allegria che riscalda il cuore e che avrebbe ispirato Renoir a dipingere un suo capolavoro. Risalendo questa via, si giunge a una piazza circolare con giardino in mezzo, chiamata “Flamingo”. Adesso c’è solo qualche negozio e il giardino è spoglio e deserto, ma sembra che l’estate ci sia musica dal vivo, si balli, ci siano chioschi coi tavolini, e che sia un posto molto allegro. Continuando, si prende un viale che passa davanti a un teatro in cemento dove danno ogni tanto dei concerti e che è vivamente consigliato a chiunque desideri congelarsi piedi, naso e coglioni. Un po’ più in là c’è piazza dell’Indipendenza, universalmente conosciuta come “ex?piazza Lenin”, con in mezzo lo zoccolo della statua di Lenin, ma niente statua, e su un lato un grande edificio attraverso le cui finestre si vede il cielo, visto che resta solo più la facciata. Allontanandosi verso la periferia, la morfologia cittadina diventa un misto di capannoni inutilizzati, containers abitati, condomini costruiti dopo il terremoto, negozietti e fabbriche abbandonate. Al tramonto, le infrastrutture industriali abbandonate (ciminiere, gru, argani, strutture metalliche, silos) si stagliano contro il cielo, creando nell’aria limpida tra l’ultimo raggio rosso, la luna e le prime stelle uno spettacolo abbastanza speciale.
Alcune sere fa siamo stati invitati all’inaugurazione di un’albergo. George, l’amico nigeriano di Spiros, il nostro coordinatore, vi è stato assunto come cameriere?danzatore. Uscendo dalla città, dopo i depositi merci della stazione, oltre l’ultimo distributore di benzina (uno dei pochi con la pompa, come da noi, e non con bidone, secchio e imbuto), vicino a un cementificio abbandonato, ecco l’albergo. Nel parcheggio, belle auto, nuove Volga, qualche Audi e qualche fuoristrada giapponese; una Mercedes. Noi sempre più perplessi: secondo George, il ristorante è pieno tutte le sere. Ma chi, in questa città può permettersi di andare al ristorante, per non parlare di comperare auto occidentali? Gyumri è praticamente priva di economia. Le poche auto in giro sono vecchie Lada. E poi comunque, perché è così fuori città? Boh, sarà un luogo per coppiette clandestine, o per portare le puttane, pensiamo noi, anche se continuiamo a non sapere dove prendono i soldi. E invece no: entriamo, e veniamo accolti da un rumore infernale. La sala ha tutti i tavoli pieni, c’è una nuvola di fumo tale che non ci si vede, e c’è un cantante e dei musicisti che piantano un gran baccano. In sala almeno cento persone, e non una donna! Ciao alla teoria romantica e poetica delle coppiette clandestine, a meno che abbiano chiuso tutte le signore in cantina in attesa della fine delle libagioni. Noi discutiamo con George, e ci facciamo servire in una stanzetta a parte. Lì il padrone viene a trovarci ogni tanto, ci fa portare altri chili di carne grigliata, versa birra schifosa in bicchieri ancora mezzi pieni di birra buona e viceversa, poi frustrato dall’incapacità di comunicare ci lascia finire di mangiare in pace e bere di nuovo birra decente. Poi andiamo a vedere cosa succede nello stanzone. Hanno finito di mangiare, e si sono messi a ballare, sempre solo tra uomini (ubriachi). Arriviamo noi, e siamo immediatamente tirati in pista. Ioanna era l’unica donna, e ha suscitato un entusiasmo generale. Mentre io ero obbligato ad agitarmi a ritmo muovendo sensualmente le braccia sopra la mia testa, Ioanna è stata presa sottobraccio da due grassoni che la tenevano fermamente e non la mollavano più. Volevo intromettermi, ma c’era un tipo ubriaco fradicio, con una bottiglia di vodka in mano che voleva a tutti i costi brindare con me alla nostra grande amicizia. Credo che alcuni degli avventori fossero piloti di Armenian Airlines, spero che non ripartissero subito. Alla fine siamo riusciti ad andarcene (con Ioanna), stupiti e perplessi, e a tornare sani e salvi a casa.
Come mi sembra di avere già accennato, qui la mentalità è molto conservatrice, leggi ipocrita. Per molti Gyumriani, la prostituzione non esiste, invece di prostitute ce n’è tante. Tra le prostitute stesse, molte di loro non ammettono di esserlo. Allora, come si chiamano? La risposta: “Mamma Rosa”. Le mamme rose sono casalinghe che ricevono i clienti durante il giorno, o di sera se il marito è emigrato in Russia. Ci sono poi prostitute vere e proprie che vivono e ricevono nei containers, al freddo. La settimana scorsa, la polizia ne ha prelevate un certo numero e le ha portate all’SVDH, l’ospedale delle malattie veneree. Una decina è stata ricoverata, e sono obbligate a stare lì per un mese, al freddo, senza cibo (devono arrangiarsi a farlo venire da fuori). MSF è molto preoccupata della faccenda: si tratta di un chiaro attentato ai diritti umani, è inoltre assolutamente inutile ospedalizzare per Sifilide, Gonorrea e Chlamidia, sono tutte malattie facilmente curabili. Invece quelle poverette sono come prigioniere, e ricevono dosi da cavallo di ogni sorta di farmaci che rischiano di avere come risultato l’apparizione di ceppi di batteri resistenti agli antibiotici. Per di più, quel grasso cretino del direttore dell’ospedale rifiuta che noi distribuiamo dei preservativi col pretesto che sono un’incitazione alla promiscuità. Lui vorrebbe che si organizzassero delle riunioni “moralizzatrici” con le prostitute per convincerle a cambiare mestiere. Come se qui ci fosse lavoro, e avessero scelta… Il problema è che se si seguissero i protocolli dell’OMS per la cura delle malattie veneree, nessuno mai andrebbe in quell’ospedale, freddo, squallido e puzzolente di kerosene, e non avrebbe ragione di esistere.
Be’, spero di avervi dato una descrizione un po’ più chiara di Gyumri. Per quel che riguarda specificamente il mio lavoro, non starò ad annoiarvi con dettagli tecnici, tranne che alcuni laboratori sono vere e proprie baracche, e la competenza dei tecnici è a dir poco primitiva. Il week?end prossimo, vedrò se è possibile andare a sciare, ammesso che abbia il coraggio di prendere la seggiovia che mi hanno descritto.
Mercoledì, 17 febbraio 1999: prostitute e matrimonio Come avevo accennato nella mia lettera precedente, all’SVDH, l’ospedale delle malattie veneree, sono state portate una decina di prostitute, tenute lì come fossero prigioniere. Ioanna, assistente sociale di professione, era già andata a trovarle, e un giorno che si trovava lì con Nara A., la sua interprete, ci sono andato anch’io, accompagnato da Anahit, la mia. Tutte radunate in una stanza, con uno scaldino a kerosene (portato da loro) per riscaldarsi, mi hanno bombardato di domande appena sono entrato. Evidentemente hanno creduto che fossi un medico, e io ho cercato di rispondere alla meglio. Una di loro è stata obbligata a portarsi dietro i suoi due figli, di circa sette e dieci anni di età, e voleva sapere se anche loro erano contagiati da Sifilide e Gonorrea. Infatti metà delle donne accusava emicranie e vie respiratorie intasate, insomma influenza, e avevano paura si trattasse di quelle due malattie. Alla faccia dei medici che ci avevano assicurato di avergli dato informazioni chiare. Sul che Arriva Spiros, il nostro coordinatore, accompagnato da Nara G., l’altra interprete. Credo che le due Nara, se avessero potuto, sarebbero entrate nel muro. Trovarsi in mezzo a delle donnacce, che paura! Eppure lavorano da tempo al progetto. Allora Spiros ha preso Anahit, che lavora con noi solo da dicembre, come al solito timida, modesta e per bene, e ha cominciato a farle tradurre dettagli sull’uso dei preservativi, aspetto dello scolo dovuto alla Gonorrea, peni e vagine. Lei imperturbabile, traduceva; solo i cerchi di un rosso sempre più intenso sulle sue gote indicavano un certo imbarazzo. In sala c’erano anche due uomini, “convocati” come le donne. Non è chiaro se si tratta di amici, clienti, fidanzati o protettori delle prostitute; comunque uno di loro aveva una chitarra e per mezz’ora abbiamo ascoltato canzoni in quella stanza dai muri biancastri con le chiazze di umidità, una lampadina nuda che pende da un filo, una decina di letti disposti alla meglio e tutte le prostitute, molte in vestaglia con una che si truccava e le altre vestite come potevano. Il week?end scorso, Ioanna e io abbiamo deciso di non andare a Yerevan e di restare tranquilli a Gyumri. Avevamo vagamente in mente di fare una gita sul monte Aragats, più di 4000 metri qui vicino, ma non è la stagione adatta. Sul che venerdì pomeriggio David, un nostro autista, alla notizia che restavamo a Gyumri ci annuncia che siamo invitati a un matrimonio. La sera, andiamo in cerca di un regalo. Su consiglio di David, comperiamo un profumo e, alla nostra richiesta di farci un pacco?regalo, veniamo spediti nel negozio di fianco, un fioraio, che ha carte, scatole e nastri vari. Dopo che Ioanna lo ha fatto impazzire pretendendo una carta per mazzi che non si piegava intorno agli angoli della scatola, otteniamo finalmente un bel pacchetto dorato con un grande fiocco. Vogliamo pagare, ma non c’è verso; quell’uomo rifiuta ostinatamente. Ioanna allora mi propone di ringraziarlo alla maniera Armena: torniamo in profumeria, che è anche un negozio di alimentari, e comperiamo una bottiglietta di vodka. Quindi di nuovo dal fioraio, dove lui subito tira fuori tre bicchieri, li pulisce con un po’ di vodka, poi li riempie. Quindi ci tocca brindare e scolarceli. Strana concezione del commercio! Intanto avevamo notato vicino al negozio l’insegna di un ristorante. Andiamo a vedere, e scopriamo un magnifico posto con volte di pietra, sicuramente risalente a quando la città era ancora chiamata Alexandropol, se non prima. La sera andiamo lì a mangiare, e ci servono un ottimo horovatz preceduto da antipasti vari uno dei quali ricorda i nostri Nervetti. Un orchestra suonava, c’erano altri due tavoli occupati (solo uomini) e purtroppo il riscaldamento era fornito da uno strano sistema che ho già visto in un ambulatorio: sembra un motore a reazione ricuperato da un vecchio Mig, che sputa fuoco e fiamme in un rumore infernale; fortunatamente è stato acceso solo per pochi minuti.
Sabato mattina David è venuto a prenderci con l’auto del progetto piena di parenti e ci ha portato a casa della sposa. In fondo a una specie di scarpata, poco più di una baracca migliorata da muri in pietra. Fuori dalla porta, in mezzo alle automobili, Lada ma anche qualche bel fuoristrada, tre musicisti si davano da fare mentre una ventina di persone ballava scatenata, intorno a un ragazzo che brandiva uno spiedo con infilate cinque mele, quella più in alto con sopra infilate monetine e fiammiferi. Siamo quindi entrati, tutti stipati in una stanza molto piccola dove era imbandita una tavola. Gli uomini si sono seduti, mentre le donne si sono tutte infilate in un’altra camera dove hanno aiutato la sposa a vestirsi cantando. Io intanto ero seduto con tutti questi uomini con cui mi era impossibile comunicare ma che mi riempivano il bicchiere di cognac e vodka e il piatto di insalata di carne, olive, formaggio. Sul che la sposa appare, è raggiunta dallo sposo che prende sottobraccio; si avvicinano al capo del tavolo preceduti da due bambini che tengono dei ceri accesi. Una volta seduti, avviene un primo scambio di anelli, oltre, ovviamente, a qualche brindisi. Poi tutti fuori, dieci minuti di danze con musicisti e spiedo di mele tra le macchine, e partenza per la chiesa, nella piazza centrale di Gyumri. Prima di noi ci sono altri due matrimoni, e quindi ci mettiamo in coda. Mentre i due preti benedicono i primi due sposi, i secondi aspettano davanti al transetto, e noi in fondo alla chiesa. Poi i secondi si avvicinano all’altare, e noi arriviamo al transetto. Finalmente tocca a noi: la cerimonia è molto breve, ma bella: ai due sposi vengono poste corone in testa, come nel rituale ortodosso; vengono messi uno davanti all’altra con le fronti che si toccano e la madrina dello sposo resta appiccicata a loro. Grassa com’era, mi impediva di fare foto. Una zia mi dice di andare sui gradini oltre l’altare per fotografare meglio, ma il secondo prete mi espelle e mi rispedisce col resto degli invitati. Secondo scambio di anelli, poche brevi parole del prete ed è tutto finito. Torniamo alle automobili, e andiamo a casa dello sposo. Di nuovo, in una stradina stretta tra le auto parcheggiate di traverso, musica, danze, spiedo di mele, ma anche piatti e piadine branditi. I piatti verranno frantumati poco dopo sulla soglia, e dal numero di pezzi si deduce il numero di figli che nascerà. Le piadine invece vengono posate sulla spalla della sposa per augurare abbondanza. Entriamo, sempre tanta gente in poco spazio, e c’è un tavolo imbandito di fianco al letto nuziale. Troppo poco spazio per sedersi, nessuno tocca i cetrioli e i pomodori, ma si brinda di nuovo, e tocca a me fare un brindisi alla felicità futura della coppia. Poi fuori, tutti in macchina, e via al ristorante. Fuori città, parcheggio spazioso, ottimo per ballare con spiedo di mele. Dentro, uno stanzone spoglio e bianco con tre lunghissimi tavoli imbanditi e un palco per l’orchestra. Ci sediamo, cominciamo a mangiare formaggio, insalata russa, caviale locale, e rapidamente arriva l’horovatz, carne grigliata. Fino a quel momento mi ero divertito, adesso iniziava l’incubo. L’idea è di stare a tavola tutto il pomeriggio e tutta la sera, con frequenti intermezzi di ballo. Il padrino dello sposo dirige i brindisi, e ce n’è un numero interminabile. Io poi sono stato obbligato a fuggire dal mio vicino di tavola che non solo mi riempiva il bicchiere e voleva che lo bevessi, ma si arrabbiava perché non lo vuotavo completamente. Ho capito che dovevo stare estremamente attento a non agganciare lo sguardo di chiunque avesse un bicchiere in mano, per non essere obbligato a trangugiare bicchieri interi di vodka o di cognac. A un certo punto la sposa ha cominciato a aprire i regali che le venivano dati uno a uno. Molti gioielli, e dopo un po’ la sua mano era piena di anelli, tutti con il cartellino del prezzo o dei carati che penzolava. Fino a quel momento gli sposi erano rimasti seduti, ma ora si sono uniti alle danze. Allora gli invitati hanno cominciato a dare soldi alla sposa, e lei li brandiva sempre ballando prima di depositarli in un cestino tenuto da una zia. Io uscivo spesso, per scappare da quell’atmosfera fumosa e dall’ossesso dei brindisi. In cucina, Ioanna e io siamo riusciti a farci fare un caffè e ho dovuto fotografare i cuochi. Siamo rientrati in sala, e evviva evviva, arrivano delle enormi polpette. Che fame che fame, avevamo appena finito di mangiare Horovatz, formaggi, insalata russa, salumi, eccetera. Verso le sette Ioanna, che pur era molto più entusiasta di me di questo matrimonio, è crollata e ha chiesto a David se potevamo andare via. E stato un esercizio di delicata diplomazia fargli capire che ci eravamo divertiti moltissimo ma che noi, poveri e fragili occidentali, non siamo abituati a tutto quel cibo, alcool, fumo, rumore. Lui rifiuta di lasciarci andare in cerca di un taxi e insiste per accompagnarci a casa. Ma con la promessa che il giorno dopo, ci torna a prendere perché la festa continua… La sera, Ioanna ha vomitato tutto, mentre io mi sono svegliato al mattino stando male. Domenica alle undici David è arrivato puntualissimo, siamo andati a prendere un po’ di parenti a casa dei genitori della sposa, poi tutti allo stesso ristorante di ieri. Nel parcheggio era stato preparato un falò di paglia, e ci siamo tutti messi a ballare in cerchio intorno tenendoci per mano. Poi tutti quanti abbiamo dovuto saltare sopra il fuoco, anche i bambini tenuti dai genitori; grandi risate. Si tratta di una tradizione legata più alla festa di San Valentino che al matrimonio; ora siccome domenica era il 14 febbraio le due occasioni si sono incontrate. Dopodichè, ricomincia l’incubo. Tutti di nuovo a tavola, con la prospettiva di rimanerci tutto il pomeriggio. Per fortuna quell’individuo che voleva a tutti i costi farmi bere non c’era. Si comincia con minestra di agnello, di cui mi sono sforzato di mangiare un boccone. Per miracolo, sono riuscito ad evitare di bere. Poi alè: il padrino dello sposo ha ricominciato a dirigere brindisi a catena, con l’orchestra che suonava musica per una decina di secondi tra l’uno e l’altro, come per annunciarli. Avete presente le nostre città alcuni secoli fa, quando un rullo di tamburi precedeva la proclamazione di un editto? Tutti questi brindisi dovevano consumare calorie, perché ecco che finito da poco l’agnello, i tavoli sempre coperti da pane, formaggio, salumi e insalata russa, viene servito il pollo coi piselli. Intanto si balla, e a un certo punto inizia una specie di gioco: vengono chiamati in pista alcuni commensali, e gli viene offerto un regalo tirato fuori da un sacco, dopo che hanno accettato di fare qualcosa di stupido tipo bere una bottiglia di coca?cola senza tirare il fiato. Gli uni ricevono un mandarino, altri una banconota da 150 lire. A un certo punto Ioanna e io siamo chiamati, ci chiedono di ballare (da soli), poi ci offrono una piccola pistola di plastica con una luce rossa. Finalmente vediamo l’utilizzo dello spiedo di mele: i fiammiferi in cima vengono incendiati, e per alcuni minuti tra i ballerini ce n’è uno che brandisce questa specie di torcia pittoresca. Finalmente capiamo che non succede più nulla di speciale, andiamo da David e con tesori di diplomazia gli spieghiamo che non solo vogliamo andare a casa, ma che vorremmo farlo a piedi. E così abbiamo finito la giornata con una stupenda passeggiata di un’oretta, siamo arrivati all’ovile dove ci siamo accasciati mezzi morti e quando John, un americano del Peace Corps ci ha telefonato per invitarci a mangiare il Borsch, abbiamo declinato senza scrupoli.
Mercoledì, 24 febbraio 1999: Si va a sciare Siamo andati a sciare! Da un po’ di tempo avevo sentito parlare di un posto dove si scia. Si tratta di Tzaghadzor, il cui nome, semplice da pronunciare e ricordare come Cesana, mi era già stato citato in più di una occasione. L’idea quindi di andare a provare come sono le piste da queste parti e soprattutto la curiosità di vedere com’è l’atmosfera in una stazione sciistica mi frullava in testa da alcune settimane. Prima non c’era neve, poi non c’era gente (e quindi non aprivano gli impianti). Finalmente la settimana scorsa c’è stata una grossa nevicata, abbiamo telefonato e ci hanno confermato che gli impianti erano aperti. Rimaneva il problema del trasporto. Non abbiamo il diritto di guidare le auto dei progetti fuori città, e per i mezzi pubblici non era chiaro. Affittare un taxi? In quel momento Gheram, un interprete Armeno di MSF Francia, ci dice che vorrebbe anche lui andare a sciare, e ci propone di andarci con la sua auto personale; appuntamento alle dieci sabato mattina. La sera, vento caldo, chissà la neve? Bè, ci svegliamo, e abbiamo la sorpresa di vedere Yerevan sotto una nevicata epica. Arriva Gheram, e partiamo con la sua Lada, cioè un’auto identica alle nostre vecchie FIAT 124, con trazione posteriore. Prendiamo una specie di autostrada a doppia carreggiata, con la neve che continuava a cadere e il fondo stradale sempre peggiore. Catene? Cosa sono? A un certo punto, l’inevitabile avviene. Aumenta la pendenza, e siamo bloccati da un groviglio di automobili di traverso. Cosa l’ha provocato? Uno spazzaneve, ovviamente, pure lui bloccato di traverso. Bene, nessuno si perde d’animo: tutti scendono dalle macchine, e tutti aiutano tutti a spingere. Risultato: strada sbloccata, si riparte! Visibilità pessima, complicata dall’assenza nell’auto di un qualsiasi sistema di ventilazione. Giungiamo al bivio per Tzaghadzor, strada sempre più innevata, il nostro autista non si perde d’animo, non capiamo come faccia ad andare avanti, e arriviamo alla nostra meta. Ridente cittadina (almeno ci pare: è sepolta sotto la neve, e anche Sesto S. Giovanni è bella in queste condizioni), con alberghetti dai simpatici nomi di “Casa degli Scrittori” e “Casa degli Artisti”. Chiediamo dove sono gli impianti, ci mostrano stradine in salita tutte innevate, e ci tocca spingere almeno una decina di volte. Finalmente molliamo la macchina, ci incamminiamo, e giungiamo alla partenza della seggiovia. Detta seggiovia è tale e quale a quelle vecchie dei Monti della Luna, ma più allegra: i seggiolini sono ciascuno di un colore diverso. Il motore è protetto da una capannone in metallo, ed è li dentro che affittiamo sci e scarponi, e mentre li proviamo dobbiamo stare attenti a non beccarci i seggiolini in testa. Finalmente partiamo, senza avere pagato niente, e arriviamo in cima alla prima seggiovia. Lì non sembra esserci nessuna pista, solo un cartellone con Topolino, una rivendita di bibite e la partenza della seconda seggiovia. Facciamo per prenderla, quando un addetto ci ferma: “Bilete?” Mostriamo dei soldi, e scopriamo che salire costa 200 Drams (Un dollaro = 540 Drams). Paghiamo, partiamo, e presto siamo in balìa di un vento gelato che ci soffia in faccia cristalli di ghiaccio. Arriviamo in alto, vediamo che la terza seggiovia è (saggiamente) chiusa, mentre il bar è (dannazione) chiuso pure lui. Sul che scopriamo che non c’è pista, non c’è tracciato, non c’è niente di niente, ma che i pochi sciatori vanno giù, più o meno nella direzione generale della seggiovia. Ci buttiamo pure noi, la discesa in fresca è facilissima, risaliamo un’altra volta, ci trasformiamo in pinguini surgelati, torniamo giù, e decidiamo di andare fino in fondo. La parte bassa è molto difficile: tutta nel bosco, stretta stretta, scavata e profonda, sembrava una pista di bob, nella quale si prende velocità e non c’è spazio per frenare. Il tutto complicato da ragazzini che scendono in slittino, una motoslitta che sale, gente che va giù a piedi. Finalmente Kathleen e io arriviamo in basso sani e salvi, raggiungiamo dentro un container di metallo con la scritta “Kafe” Ioanna e Gheram, ordiniamo qualcosa di caldo e alcolico, quelli non capiscono, ci portano del thé; io non mi lascio scoraggiare e gli altri avventori che ci avevano offerto della Vodka rimangono molto stupiti dal vedermi versare la mia dentro la mia tazza. Brindiamo con questi giovani sciatori, poi ci incamminiamo verso la macchina. Abbiamo ancora l’occasione di assistere al curioso spettacolo di un tizio in sci tirato velocemente da un’auto, tipo sci nautico. Poi di nuovo a spingere per tirare fuori l’automobile dal mucchio di neve in cui era stata parcheggiata, e ritorno senza storie (la strada era stata pulita) a Yerevan dove dovevamo festeggiare il compleanno di Ioanna.