Indocina: la natura e l’arte

Viaggio attraverso il Vietnam, dalle etnie montane a nord di Hanoi alla Baia di Halong, fino al Delta del Mekong. Una nazione che cerca un nuovo equilibrio tra passato e futuro
Scritto da: scaragio
indocina: la natura e l'arte
Partenza il: 14/11/2010
Ritorno il: 02/12/2010
Viaggiatori: 15
Spesa: 4000 €
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14 novembre sabato – 15 domenica

Il volo, questa volta, è stato veramente lungo: l’aereo, strapieno, ci ha costretti a sedere rigidamente composti, braccia serrate al corpo per circa 15 ore, spezzate da una sosta a Singapore, nel cui aeroporto, scintillante di marmi ed illuminato da ampie vetrate aperte su una vegetazione lussureggiante, abbiamo potuto sgranchirci prima della tratta finale. Nel grigio e triste scalo di Hanoi, la burocrazia ci costringe ad un’attesa noiosa, ma prevista, per l’inutile cerimonia dei visti d’entrata. Poi, finalmente, ci ristoriamo nell’hotel Intercontinental, comodo ed accogliente, sul Lago Occidentale, uno dei numerosi specchi d’acqua tra i quali si distribuisce l’abitato di Hanoi. Considerando i tormentati trascorsi del paese, l’aspetto della città è gradevole e segnato dalla speranza. I grandi alberi, le acque, i fiori, il verde ingentiliscono il grande conglomerato; pochi grattacieli bucano la nebbia che oggi avvolge tutta la città, condensandosi in una fastidiosa pioviggine; alcuni viali sono fiancheggiati da ville primo novecento di costruzione francese, scampate ai furori anticolonialisti che accompagnarono, nel 1954, la nascita della Repubblica Vietnamita. Comunque, in questo primo pomeriggio, stremati dal viaggio e depressi dal tempo umido ed uggioso, possiamo solo dare un’occhiata alla città mentre dall’aeroporto raggiungiamo l’albergo; poi, dopo un bagno ristoratore ed un breve riposo, riusciamo a fare una passeggiata sul nuovo lungolago per prendere il primo contatto con Hanoi: motorini, biciclette, pochi negozi, molti ambulanti, selve di fili elettrici.

16 novembre, lunedì.

Rigenerati da una notte di riposo, affrontiamo il doveroso tour della capitale. Guidati da Phath, un giovane che parla un italiano comprensibile, visitiamo qualche pagoda in restauro, come dicono qui, ma in realtà ricostruita o in ricostruzione dopo che il fanatismo socialista, inteso a demolire le sedi dell’oppio dei popoli, si è volto ad una più ragionevole tolleranza che implica anche rispetto per la tradizione e l’identità storica del popolo. L’edificio più notevole è la Pagoda della Letteratura, l’antica università, risalente al quindicesimo secolo. Anch’essa ampiamente rimaneggiata e in parte distrutta, conserva un certo fascino nelle costruzioni ampie e basse, coperte dal caratteristico tetto di tegole simili a scaglie di drago, circondate da un vasto parco verde. E’ stupefacente contemplare la statua del fondatore e primo rettore, quasi santificato. Gli insegnanti qui sono ancora considerati intellettuali degni di rispetto e non disprezzabili baby sitter di stato, bersagli per gli strali di genitori ed alunni. C’è perfino una festa annuale dedicata loro e quando, nel Tet, il capodanno buddista, si celebrano i defunti, anche le tombe dei professori x alunni.

Le pagode sono angoli di tranquillità nel traffico infernale delle strade, che migliaia di motorini rumorosi e puzzolenti colmano come una piena inarrestabile, inglobante automobili, risciò, autobus turistici e pedoni, in costante pericolo di investimento e di soffocamento; molti infatti hanno il viso coperto da una mascherina che dovrebbe difenderli dai gas di scarico, dalla polvere e dal sole. E poiché il motorino è il mezzo più economico e popolare, viene usato anche come piano di carico per merci di ogni sorta, che sporgono pericolosamente quasi sommergendo lo scooter; si vedono perfino maiali vivi infilati in una sorta di nassa di fil di ferro legata al sellino posteriore. Solo l’abilità funambolica di chi guida e l’occhio di Buddha possono garantire questi trasporti apparentemente contrari alle leggi della fisica. In numero strabocchevole i fili elettrici si distendono, come festoni, ai lati delle strade, occludendo perfino la vista alle finestre dei primi piani.

E’ inevitabile il pellegrinaggio alla casa di Ho Chi MIn, padre della patria e probabilmente destinato alla beatificazione, visto che qui, in una sorta di buddistico evemerismo, sono venerati i cittadini che hanno dedicato la vita alla patria. Superato il tetro monumento fiancheggiato da vistosi tazebao inneggianti all’eroe, la casa è un modesto piccolo appartamento di una semplicità spartana in un bel parco verde con laghetto, foresta e una graziosa capanna di legno su palafitte che Ho Chi Min amava molto, in ricordo del periodo vissuto nella giungla. A confermare le difficoltà vissute dal popolo vietnamita, la capanna è fornita di un rifugio antiaereo sotterraneo che dava riparo ad Ho Chi Min ed ai suoi collaboratori durante i bombardamenti americani.

Ceniamo in un esclusivo ristorante, il Wild Rice, che propone un’atmosfera retrò appena estenuata dall’inconfessabile rimpianto delle raffinatezze coloniali. Poi ci imbarchiamo sul treno per il Nord. La stazione ferroviaria ci ricorda gli orrori igienici della Cina degli anni ’90: i passeggeri, accampati in uno squallido stanzone, bivaccano su teli di plastica, mangiucchiano frutta e semi sputando a terra le bucce; qualcuno dorme, qualche bambino piange o protesta. Al confronto il treno è decoroso. Sembra un residuato francese, fornito di cuccette nelle quali veniamo distribuiti con un calcolo generoso dello spazio: ogni coppia o singolo occupa uno scompartimento che può contenere quattro persone. Possiamo almeno distenderci e cercare di ignorare i violenti scossoni e i bercianti richiami del personale del treno.

17 novembre, martedì.

L’arrivo alle cinque, nelle tenebre, è al tempo stesso un sollievo e uno stress, perché nella fitta, sottile pioggerella, attraversiamo la piazza della stazione fino ad un pretenzioso ristorante, quanto di meglio Lao Cai possa offrire, dove ci viene servita una colazione soprattutto lenta, poiché ha lo scopo di far trascorrere il tempo fino alle otto, quando potremo partire per il mercato del martedì, che si tiene a Coc Ly , distante 35 chilometri da Lao Cai. La parte finale della strada, non asfaltata e gravemente dissestata, ci fa soffrire; ma finalmente arriviamo là dove la valle, stravolta da grandi lavori che preludono alla costruzione di una diga, ospita una fila di bancarelle allestite dalle etnie che vi convergono per vendere e per comprare, dai villaggi nascosti tra le vicine montagne, ripidi cocuzzoli coperti da una straripante vegetazione. Assai poco si concede ai turisti: la maggior parte dei banchi espone merci pensate per i locali, come gli abiti caratteristici delle etnie purtroppo non più tessuti e ricamati a mano, ma prodotti in qualche fabbrica cinese che ne accentua i colori e le applicazioni di gale e perline. Sono assai più belli i grembiuli, i corpetti e le gonne indossati dalle venditrici, sdruciti e sporchi, ma autenticamente artigianali. C’è poi una paccottiglia di pentole e secchi ed una rudimentale scelta di ferramenta, alimentata dall’inarrestabile contrabbando con la Cina. Dall’angolo più sorprendente si leva un’ incessante musica da una radio a tutto volume, che sostituisce l’antico costume della serenata di corteggiamento: i giovani suonano una musicassetta in onore della ragazza corteggiata, che, se interessata, si accosta e mostra di gradire l’omaggio. Così il mercato favorisce anche la conoscenza reciproca ed i matrimoni.

Il confine con la Cina è appena al di là del Fiume Rosso e, sebbene sia rigorosamente controllato a Lao Cai, sul ponte che congiunge le due rive, dove una teatrale porta di marmo segna i confini del Vietnam, è impossibile esercitare una qualsiasi sorveglianza lungo le montagne fitte di boschi di caucciù. Prima di partire per il mercato, a Lao Cai abbiamo assistito ad una scena singolare: alle otto, in Cina, una fragorosa campana annuncia l’apertura del confine ed una fiumana di uomini e donne (soprattutto donne) si precipita, dal Vietnam, di corsa attraverso il ponte, spingendo biciclette sgangherate straripanti di verdure e mercanzia varia da vendere in Cina; a un certo punto, la guardia di confine arresta la marea umana cosicché i ritardatari devono aspettare a lungo prima di poter passare a loro volta. Vediamo perfino una donna che trasporta una ragazza sulle spalle, evidentemente per raggiungere l’ospedale cinese, il più vicino e attrezzato in questa zona. Insomma, i vietnamiti diffidano dei cinesi tanto da aver santificato i generali che, nel passato, ne arrestarono i tentativi di conquista, ma sono inesorabilmente attratti dalla Cina.

Al mercato di Coc Li le bancarelle si accavallano lungo un tratturo fangoso che ci costringe a farci largo cautamente tra la folla di compratori, venditori, facchini e scooter che, incredibilmente, riescono a passare nella calca e persino a guadare un torrente limaccioso che taglia il mercato. I Mong a fiori, etnia prevalente, così chiamati per i costumi vivacemente colorati e ricamati, sono gentili, soprattutto le donne che cercano di vendere le loro merci; anche se compriamo poco, guardiamo con interesse la gente e gli improvvisati posti di ristoro con pentoloni colmi di zuppa e paioli in cui friggono pastelle di cui non sappiamo definire la composizione.

A Lao Cai torniamo, per un tratto, via fiume, su una rumorosa barca di ferro; le rive, alte e scoscese, sono ricoperte di foresta, qua e là interrotta da piccoli campi di mais al di sopra dei quali si vedono le capanne dei contadini. Dopo un’ora circa di navigazione sbarchiamo sulla proda fangosa e ci arrampichiamo fino alla capanna in cui vive la famiglia del nostro nocchiero; l’abitazione è fatta di assi di legno fra le quali passano luce e vento, ha il pavimento di terra battuta e ci appare nuda e povera; eppure c’è una macchina per cucire, con cui le donne confezionano vestiti da indossare e da vendere; ci sono due letti, c’è uno sbilenco armadio, intorno alla casa razzolano le galline e grufola qualche maialino; insomma, sebbene ci sembri di entrare in un tugurio, probabilmente siamo in una casa in cui non manca nulla, secondo il criterio locale. Poi, dopo aver pranzato in un ristorante a dir poco rustico, ritroviamo il nostro minibus che ci riporta a Lao Cai e di qua a Sapa.

A Lao Cai, davanti al ristorante in cui avevamo fatto colazione e avevamo lasciato i bagagli, fruiamo dell’intraprendenza orientale, che sa inventarsi un mestiere dal nulla. Mentre vengono caricate le valigie, una torma di attempati sciuscià ci scalza e pulisce le nostre scarpe dal fango di cui si erano incrostate al mercato. Pochi centesimi ci risparmiano un lavoro sgradevole.

La strada di montagna, quando siamo ormai a circa 1.500 metri di quota, diventa un tratturo dissestato apparentemente impercorribile. Ma il nostro autista riesce a portarci al di là della frana quando ormai pensavamo di dover tornare indietro. Così arriviamo a Sapa, sollevati, in un accogliente albergo arredato nello stile dell’Indocina francese, con caminetti nella grande hall e comode poltrone che invitano alla conversazione. Dopo che un profumatissimo tè di benvenuto ed un bagno caldo ci hanno rimesso in sesto, usciamo dall’albergo per dare un’occhiata a Sapa, che i francesi frequentavano nei mesi più caldi per sfuggire all’afa delle pianure. Una traccia dell’antica eleganza si riconosce nelle ville coloniali trasformate in alberghi e in qualche elegante bottega che adatta ai gusti occidentali i ricami e i tessuti tribali. Poi, dopo una cena gradevole e raffinata, tutti a letto per il meritato riposo.

18 novembre, mercoledì.

Partiamo in una nebbia che meglio si addice ai grigi, lombardi piani, ma che soffoca e avvolge anche i monti di Sapa. Una strada sterrata ci porta fra i Mong e fra i Tay, minoranze tribali che vivono di agricoltura ed ora anche di turismo. I villaggi sono molto semplici, con capanne di assi di legno coperte, purtroppo, da lastre di eternit, che, evidentemente, vengono smaltite nei paesi ancora inconsapevoli dei rischi ambientali. Il paesaggio, per quanto velato dalla nebbia e aduggiato da un’ insistente pioggerella, è magnifico: il profilo delle montagne aguzze e scoscese è addolcito dai terrazzamenti che ne ammorbidiscono i contorni in curve regolari ed armoniose. Le risaie si arrampicano lungo i declivi fino ad altezze considerevoli; forniscono riso per il consumo e per l’esportazione. I Mong neri sono abilissimi nella costruzione dei terrazzamenti montani e nella cultura del riso; a novembre, terminato il raccolto, hanno tempo per i turisti. Le donne ricamano e cuciono borsette, cappellini, cuscini per gli stranieri e per sé camicie, gonne, grembiali, fasce per le gambe e per la testa, tutti neri, in cotone, in lana o in un tessuto ricavato dalla corteccia di un particolare arbusto. Il vegetale, trattato, filato e tessuto, diventa una stoffa resistente che si ammorbidisce sempre più con l’uso e con i lavaggi. Di solito, viene tinto con l’indaco che lascia una sfumatura violacea sulle mani e sotto le unghie delle donne Mong.

I Mong rossi sfoggiano un particolare copricapo ricavato da una lunga sciarpa scarlatta adorna di monete e perline. I Tay si limitano ad un vivace copricapo, ma vestono abiti di foggia occidentale con pantaloni di solito neri. Sono la comunità più ricca, che ha rapidamente perduto le più vistose peculiarità tribali. Le capanne Tay di legno, su palafitte, sono più ampie e curate, la scuola è più comoda e i bambini sono meglio vestiti: nessuno cammina a piedi nudi nel fango. Il villaggio Tay è attraversato da una stradina col fondo di cemento, su cui sfreccia qualche motorino guidato da un ragazzetto protervo: insomma, i contatti con gli occidentali, nel bene e nel male sono stati più intensi. Del resto, tutte le comunità appaiono come in mezzo ad un guado: da una parte la tradizione,che sopravvive nell’abbigliamento, nelle capanne, nel lavoro dei campi; dall’altra, l’energia elettrica, la televisione, i telefonini che fatalmente attirano i giovani verso una vita meno faticosa e precaria. Intanto, i turisti contribuiscono a migliorare un poco le condizioni di vita con i loro acquisti. Ritorniamo con le mani cariche di borse, sciarpe, cappellini e cinture. Abbiamo aiutato anche noi l’economia tribale: ma non sappiamo se, facendolo, abbiamo procurato un vantaggio o un danno.

19 novembre, giovedì.

Il tempo continua ad esserci ostile: la nebbia nasconde le montagne e la pioggia non cessa di aduggiarci. Stamane scendiamo per una interminabile scalinata di pietra fino ad una valle stretta tra ripidi picchi terrazzati, sul cui fondo scroscia un limpido torrente che forma una bella cascata ampia, divisa dalle rocce in larghi veli d’acqua. Col sole il paesaggio sarebbe magnifico e la passeggiata gradevolissima; sotto la pioggia, dobbiamo stare attenti a non scivolare e lavorare di fantasia. I Mong neri, che abitano il piccolo villaggio lungo il corso d’acqua, hanno costruito un teatrino accanto alla cascata Cat Cat e vi si esibiscono in danze e canti. Lo spettacolo è rustico nel senso che esprime la cultura contadina, ma bello e raffinato nei costumi, nelle movenze e nella grazia delle danzatrici e dei danzatori. Poi risaliamo dal versante opposto, che è più agevole perché alterna alle scale un sentiero lastricato e non troppo ripido, al termine del quale ritroviamo il nostro minibus, che ci riporta al centro di Sapa. Qui, fino all’ora di pranzo, girelliamo per il mercato, molto vario ed interessante perché vi convengono tutte le etnie per vendere e comprare manufatti. Il reparto alimentare offre frutta, carne, pesci e molluschi di fiume, rane e chiocciole; c’è, poi, il settore della medicina naturale, con barattoli colmi di indefinibili misture animali e vegetali.

Nel pomeriggio, su un minibus adatto alla strada stretta ed impervia, scendiamo in un’altra vallata terrazzata, fino a un villaggio abitato dai Mong rossi. Poiché non ci sono altri visitatori, le donne ci stringono d’assedio fin dall’aprirsi delle porte del minibus, ci pongono le solite domande (di che paese siamo, quanti figli abbiamo, qual è la nostra età) e ci accompagnano, in folto gruppo, fino alla scuola, dove i bambini stanno provando, sotto la pioggia, una serie di danze e coreografie per l’indomani, festa degli insegnanti. I piccoli sono impegnatissimi, ma hanno gli occhi ridenti e si divertono visibilmente nel danzare in gruppo; la nostra presenza, anche se è motivo di eccitazione e di curiosità, non provoca reazioni indisciplinate. Noi, da una parte proviamo tenerezza per gli scolaretti, che indossano o il costume tribale o sgargianti abitini di fattura cinese, ma dall’altra ci turba che debbano sopportare la pioggia ed il freddo; ciò sembra preoccupare solo noi e, del resto, Phat ci assicura che, con o senza osservatori stranieri, le prove devono essere eseguite. Poi, dopo aver doverosamente comprato qualcosa, suscitando le inevitabili proteste delle venditrici escluse, ci mettiamo in viaggio per Lao Cai, donde partiremo per Hanoi col Victoria Express.

E qui nasce un intoppo. Invece delle cabine doppie che credevamo di aver prenotato, ci toccano cuccette a quattro. Nonostante le vibrate proteste e le telefonate ad Hanoi, dobbiamo rassegnarci. Solo Gianni ed io ci ritroviamo, fortunosamente, in due. Per gli altri, deve passare la nottata.

20 novembre, venerdì.

Albeggia appena quando il treno si ferma ad Hanoi; bene o male, la notte è passata, non piove e ci aspetta un’accogliente camera all’hotel Intercontinental. Ci ristoriamo con una doccia calda, ci cambiamo, facciamo una ricca colazione e ci ricongiungiamo con Giulia, Fiamma e Massimo arrivati ieri ad Hanoi. Non sembrano troppo provati dal viaggio: o, meglio, la notte in albergo li ha rigenerati. Alle 8 partiamo per Ha Long, dove ci imbarcheremo su una giunca. La baia di Ha Long, nel nostro immaginario, è luogo di sogni, di avventure e di pirati; il meraviglioso labirinto di cocuzzoli calcarei coperti di vegetazione ed orlati, talvolta, da una striscia di sabbia dorata, talaltra strapiombanti in mare senza possibilità alcuna di approdo, ha la concretezza della roccia che lo forma, ma anche la natura mutevole dell’elemento liquido da cui emergono e da cui sono stati modellati gli isolotti che mutano nel numero, nel disegno e nelle proporzioni col lento muoversi della nave. Visitiamo una grotta che, dopo l’ingresso relativamente angusto, si apre in una sala vastissima sorretta da pilastri naturali; dal suolo si levano imponenti stalagmiti, mentre l’immensa volta è modellata dalle onde. Sembra un calco della superficie marina, dice qualcuno. Ora la grotta è asciutta; il mare, abbassatosi durante l’ultima era geologica, ha abbandonato l’immensa cavità, che ha smesso di crescere. Tutta la baia è una testimonianza dei cambiamenti climatici e dell’avvicendarsi di sollevamenti del fondo marino e di innalzamenti delle acque. Ci arrampichiamo anche per un’erta, interminabile scala di pietra su uno dei cocuzzoli, coronato da una piccola pagoda, da cui si gode un magnifico panorama. E’ il tramonto e lo spettacolo sarebbe di indicibile incanto se il sole si decidesse a forare la grigia cortina di nuvole. Ma il miracolo non si compie e dobbiamo rassegnarci ai colori spenti di una giornata uggiosa.

La nostra giunca merita il rispetto dovuto alle vecchie dame che conservano il decoro pur avendo perduto la freschezza della gioventù: la grossa, lenta barca ci offre le sue cabine foderate di bambù, piccole ma abitabili e ci dà il meglio di sé nella cucina, a base di crostacei e mitili, freschissimi, ben preparati e serviti con un tocco di creativa eleganza. E’ il compleanno di Fiamma e Phat, che lo ha percepito, fa servire, dopo cena, una torta con le candeline, accompagnata da un bel mazzo di boccioli di rosa.

C’è la magica baia di Ha Long, la vecchia giunca, non mancano lo champagne e le rose; solo un cielo stellato, che si specchi nelle acque calme, dispettosamente ci si nega, a confermare che la perfezione non è di questo mondo.

21 novembre, sabato.

All’alba, rivediamo il cielo azzurro ed il sole, che illumina e riscalda la nostra gita in barca. Attraverso un arco di roccia, appena affiorante dall’acqua, passiamo all’interno di un cerchio compatto di cocuzzoli calcarei: ci troviamo entro una vastissima piscina naturale, rotonda, su cui incombono le pareti erte tappezzate di alberi e cespugli che si ancorano alle fessure della roccia, contribuendo, con l’acqua e con il vento, al lavoro incessante dell’erosione. Le barche sono grandi tinozze di giunchi intrecciati e calafatati, mosse lentamente a remi; il sole ci scalda, sfiora le cime e dona all’acqua un bel colore verde. Mentre galleggiamo pigramente, la fantasia corre ai pirati cui, certo, in passato rifugi introvabili assicuravano impuni rapine.

Torniamo poi sulla giunca, che, in pieno sole, rivela tutte le sue magagne. La mattinata si dipana in una pigra navigazione di ritorno, con la compagnia di una venditrice di perle, che, durante la nostra gita, ha allestito un banco nel salone e offre con discrezione la sua merce. Nel complesso, non ci siamo allontanati più di tre o quattro miglia dalla costa, pur avendo navigato per circa 24 ore. Peccato che la baia di Ha Long sia gestita con i peggiori criteri di sfruttamento turistico: l’imbarco e lo sbarco rivaleggiano con la ressa di ferragosto al molo Beverello, la crociera è pensata per far spendere il più possibile al turista col minimo sforzo economico ed organizzativo; la costa è già infestata da oltraggiosi palazzoni in cemento, che qui vengono interpretati come meraviglie tecnologiche. Non c’è, ad esempio, la possibilità di un giro in elicottero o in mongolfiera, che permetterebbe un colpo d’occhio panoramico su un paesaggio incredibilmente complesso e suggestivo, che evoca sogni d’amore e rimpianti d’avventura, cibo per l’anima di occidentali oppressi dalle quotidiane necessità di lavoro e di guadagno.

Il pomeriggio se ne va per il trasferimento all’aeroporto di Hanoi, con il riempitivo della sosta in una fabbrica di ceramiche, che offre il peggio delle cineserie da mercatino rionale. Ripetiamo anche la visita ad un grande emporio di oggetti d’artigianato, dalle statue di marmo ai ricami, veramente ammirevoli, che riproducono quadri o fotografie. Poi, un volo tranquillo e un riposo finalmente rilassato perchè ci è concesso l’agio di due notti nello stesso albergo.

22 novembre, domenica.

Partiamo con comodo, per visitare la città di Hoi Han che, risparmiata dai bombardamenti, ha conservato il vecchio quartiere con la stretta trama di vicoli e le basse case dalla facciata di legno annerita dal tempo e le tegole di terracotta verdi di muffa. Finalmente vediamo un po’ di Vietnam così come doveva apparire ai francesi nella prima metà del novecento. Nelle viuzze ferve il mercato, poiché ogni piano terra ospita una bottega; come in tutte le città orientali, alcune stradine sono riservate alla frutta, alle verdure, ai polli e alle oche che sembrano aspettare con rassegnazione il loro triste destino; altre ospitano gli artigiani del legno, che eseguono intagli belli e complessi o mobili scolpiti ed intarsiati di madreperla. C’è anche qualche galleria d’arte: una espone tronchi e rami di legni di sandalo scolpiti con maestria e con una creatività che nasce dal sentimento della natura che, per i vietnamiti, è sacra sia nelle sue grandi manifestazioni, sia negli aspetti quotidiani come la pianticella di riso o il tronco degli alberi. Il mercato è bello, animato, interessante, ma paga il suo tributo alle incoerenze di un paese in crescita. Ancora si fanno strada nella calca le venditrici apparentemente fragili nella loro struttura esile e minuta, capaci di bilanciare enormi ceste cariche di frutta alle due estremità di una lunga pertica appoggiata ad una spalla; il largo cappello conico di bambù intrecciato, gli ampi calzoni sbrindellati, le ciabatte infradito ai piedi, affrontano il sole, la pioggia e le inondazioni con lo stoicismo di un popolo avvezzo al sacrificio e la rassegnazione di chi crede di scontare le colpe di una vita precedente e spera in una più favorevole reincarnazione. Ma fra le ceste di frutta e verdura, le stie di volatili, le montagnole di fischietti di terracotta, strombazzano e zigzagano pericolosamente gli scooter guidati da giovani vestiti all’occidentale in genere protetti dal casco, incuranti della disarmonia inflitta alla tradizione e del fastidio cui sono condannati i pedoni. Montiamo poi ognuno su un “cyclo”, il risciò a pedali che ci porta per le stradine del quartiere cinese. Le case sono al tempo stesso abitazioni, depositi, empori e garage perché i motorini vi si accampano accanto allo sbilenco tavolo e alle sedie scompagnate. Anche gli edifici un po’ più grandi, circondati da un giardinetto, hanno un’aria trascurata, come di accampamento precario più che di casa di famiglia; non un’aiuola fiorita, ma solo utensili, mobili sgangherati e, talvolta, le grandi ceste circolari che fungono da barche o delle canoe canadesi di fabbricazione molto artigianale. Sconcerta la trascuratezza sistematica, direi quasi culturale con cui è gestita la casa, considerando il fortissimo senso della famiglia che caratterizza i cinesi e, in genere, gli orientali. Bisogna arrivare a livelli sociali molto elevati perché le abitazioni siano decorose: ed in genere lo sono solo nella zona riservata al ricevimento, perché la cucina rimane un antro fumoso pieno di pignatte scompagnate e di piatti sbeccati ed il bagno un buco fetido e scomodo. Visitiamo infatti, la casa di un ricco mercante, che ha un bel salotto col soffitto in legno e le travi scolpite, ma, nel retro, dove sono i servizi, è, per i nostri criteri, un tugurio. Inoltre, poiché la porta posteriore dà, in genere, su un fiume o su un canale, che, nella stagione delle piogge esonda, tutti i piani bassi vengono sommersi ogni due o tre anni. Fra inondazioni e piogge monsoniche, è inevitabile che le pareti siano nere, muffite e scrostate.Visitiamo anche il centro culturale cinese, che è una via di mezzo tra una pagoda e un luogo di ritrovo; come al solito, ad oggetti belli ed antichi si affiancano sgargianti sgabelli di plastica, decorazioni e lampadine policrome, in uno sconcertante guazzabuglio estetico. Poi, dopo un pranzo a base di pesce, in cui le sette portate sono, come qui si usa, assaggi e spilluzzichi, proseguiamo per Da Nang. La città in sé è un coacervo di case in cemento, costruite negli ultimi dieci anni. Sebbene le facciate mostrino le più stravaganti differenze, la struttura è unica in tutto il Vietnam: gli edifici sono strettissimi e profondi, sicché il fronte sulla strada è largo appena quanto il portone di ingresso, che in genere sembra la saracinesca di un garage; le finestre si aprono solo davanti e dietro, perché sui lati l’edificio tocca i confini della stretta striscia di suolo edificabile e deve, quindi, lasciare la possibilità al vicino di costruire appoggiando le sue mura alle proprie. Anche chi può comprare un suolo più vasto preferisce costruire, diciamo così, più fette di case, affinché ogni figliolo possa abitare la propria, con il medesimo accesso sulla strada, che ne determina il valore perché consente di impiantarvi un’attività commerciale. Inoltre, ci fa notare An, la giovane che qui ci fa da guida, molti vietnamiti in origine abitavano sulle barche, così che la forma lunga e stretta dell’abitazione risulta loro congeniale.

La vastissima spiaggia, orlata verso l’interno da palme da cocco, è tutta un cantiere: sono in costruzione numerosi grandi alberghi che cementificheranno la costa, ma tutti sembrano considerare l’esplosione edilizia come un’opportunità di sviluppo.

An ci mostra anche il quartiere dei marmisti, dove si scolpiscono statue grandi e piccole e ci fa salire per un’infame scalinata rivestita di schegge di marmo, in cui ogni gradino è diverso dall’altro e può essere alto anche cinquanta centimetri, fino alla cima di una collina boscosa che si apre in una sorprendente serie di suggestive grotte, nelle cui pareti sono state scolpite immagini di Buddha in meditazione o in riposo. Le statue sono belle ed ancor più lo sono le grotte, veri santuari naturali, tornati alla loro sacertà dopo che la guerra le aveva profanate piegandole alla funzione di postazioni antiaeree occulte. La regione di Da Nang subì bombardamenti con i defolianti che ancor oggi provocano cancroe malformazioni, ma i vietnamiti assicurano di non provare rancore: del resto sono ben accolti i turisti americani, fra cui molti sono reduci di guerra che vogliono rivedere, in pace, il paese cui hanno inflitto e da cui hanno ricevuto sofferenze e ferite durante il periodo bellico. L’attuale ambasciatore americano, ci dice An, è stato prigioniero di guerra in Vietnam ed è sposato con una vietnamita. Anche le lacerazioni familiari sembrano non aver lasciato strascichi, sebbene vi siano stati casi di parenti stretti militanti nei campi opposti. Addirittura, i figli del governatore della provincia, ovviamente comunista, lavorano tutti per gli americani, conclude con una punta di amarezza An.

Si direbbe che qui vale alla lettera la battuta creata dopo il crollo del muro di Berlino: il comunismo è la via più lunga per il capitalismo.

23 novembre, lunedì.

Lasciata Da Nang, percorriamo 100 km tra le colline, fino a un valico che ci porta nella provincia di Huè. Siamo nella zona più bella del Vietnam centrale: a ovest le alture coperte da una fitta foresta, a est il mare e le lagune costiere. Tanto per cambiare, il tempo grigio non esalta i colori del mare, degli alberi, delle risaie: ma ci siamo rassegnati e, almeno, non piove né fa freddo, come ci aveva preannunciato An, che oggi ha un’inclinazione a fare la Cassandra. A causa del traffico disordinato e dei limiti di velocità, impieghiamo circa tre ore per coprire il percorso. D’altronde il paesaggio agreste, i villaggi, la costa meritano di essere guardati con agio. La regione centrale ha patito molto per la guerra: tonnellate di bombe al napalm sono state scaricate sulla foresta, in prossimità del sentiero di Ho Chi Min, le mine infestano ancora il 50% delle campagne, le città sono state devastate da entrambi gli eserciti, che non hanno risparmiato neanche le pagode ed il palazzo reale. Tuttavia, sono in corso restauri, come dicono qui, ricostruzioni come le definiamo noi, finanziate dal Giappone e dalla Corea con mano d’opera vietnamita. Ci fermiamo a visitare i mausolei degli ultimi re, che dominarono fino ai primi del novecento. Il complesso più recente è una pretenziosa scalea di marmo che si slarga in due piattaforme: sulla prima sono schierati soldati, mandarini e generali, con elefanti e cavalli, scolpiti in pietra. Questo mini esercito ricorda, nella sua modestia, quello, meraviglioso, di terracotta a Xia’n in Cina ed evoca l’antico costume di sacrificare i servitori, i soldati, i funzionari perché servissero il re anche nell’aldilà. La seconda piattaforma ospita la tomba, in un palazzo le cui sale sono decorate, alla maniera vietnamita, con mosaici fatti non di tessere, ma di cocci di maiolica, di ceramica e di vetro. I pannelli che rivestono le pareti ricordano lo stile liberty, ma l’affastellamento di mosaici, di intagli, di affreschi è tale che il risultato, invece di essere grandioso, è un informe guazzabuglio figurativo. Inoltre le pareti, le balaustre, gli intonaci sono neri di muffa, scrostati o caduti: il defunto re, perduta la monarchia e la vita, sembra destinato a perdere anche la tomba. L’altro mausoleo, che è formato dal palazzo per la vita e dal palazzo per la morte, presenta più o meno la stessa situazione. L’umidità devastante non ha pietà dei monumenti per curare i quali il governo profonde pochi soldi e poche energie. Il palazzo reale, invece, è stato in parte ricostruito, con fondi stranieri; tanto basta a far rimpiangere che la barbarie dell’uomo abbia cancellato un significativo ricordo della storia vietnamita. Il complesso era simile alla città proibita di Pechino, con una duplice cinta muraria ed i quartieri per il re, per le mogli e le concubine, i magazzini, gli uffici, il teatro, la biblioteca. La protezione dell’ Unesco, che lo ha dichiarato patrimonio dell’umanità, sembra un tardivo risarcimento per gli irreparabili danni provocati dalla guerra. Attraversiamo, troppo rapidamente, la città di Huè, che sembra piacevole, con vasti giardini ben curati che formano un bel lungofiume e qualche grazioso edificio di costruzione francese. Quasi un’ora ci viene sottratta da un’inutile navigazione su un raccapricciante barcone camuffato da drago, sul quale, sostanzialmente, siamo alla mercè della famiglia che vi abita e che cerca di venderci paccottiglia incollocabile. Sul fiume una flottiglia di chiatte-drago sbarca il lunario con questo presunto servizio turistico. Con la barcaccia approdiamo ai piedi di una pagoda bella e funzionante, nella quale alcuni monaci in tonaca rossa officiano una funzione ritmando in coro una melopea scandita dal suono delle campane e del tamburello. Qualche fedele si prostra in preghiera sul pavimento di legno, altri lasciano offerte. L’ambiente sobrio ed intimo custodisce ed alimenta un’autentica spiritualità. Siamo lontani dalle pagode del nord, simili più a baracconi di luna park che a luoghi di culto.

Infine, stanchi, ci ritiriamo in albergo, rassegnati alla levataccia dell’indomani.

24 novembre, martedì.

Un breve volo al mattino presto ci sbarca a Saigon, la vera capitale del Vietnam, sebbene ragioni politiche l’abbiano spostata ad Hanoi. La città ospita otto milioni di abitanti e, ahimè, quattro milioni di motorini, che fungono anche da taxi. Qui i sovraccarichi sono di natura più urbana che rurale: non si vedono i poveri maiali o le stie di polli precariamente sospese al sellino, ma intere famiglie di tre o quattro persone ed enormi fagotti di merci che vengono spostate dai magazzini agli esercizi al minuto. Durante le ore di punta i motorini sciamano come una maledizione biblica che reca il doppio flagello del rumore e del puzzo. Eppure tutti si servono di questo agile mezzo di locomozione che sgattaiola nel traffico e riesce ad arrivare alla meta in tempi ragionevoli. Il nostro autobus, uscendo dall’aeroporto, rimane per un certo tempo bloccato a causa di lavori in corso e An ne approfitta per raccontarci qualcosa delle vicende belliche. E’ in certo senso agghiacciante la tranquillità con cui rievoca eventi atroci, come la casa due volte bruciata, una dai Francesi, l’altra dagli Americani o l’addestramento militare cui tutti i bambini venivano sottoposti, fin dalla più tenera età, sia maschi che femmine, o la fame seguita alla guerra. In realtà dopo il duemila il paese, grazie alleaperture economiche del governo, che ha consentito la proprietà privata, ha conosciuto uno sviluppo rapidissimo, con tutti gli squilibri ecologici e la corruzione connessa all’improvviso arricchimento sostenuto da un partito unico. Lungo la strada per l’albergo, visitiamo il War Museum. Il cortile d’ingresso è un polveroso caos di carri armati, di blindati, di aerei ed elicotteri da guerra americani, fra cui parcheggiano le automobili delle autorità in visita. Il pretenzioso e sporco cubo di cemento ospita, al primo piano, una vera fiera degli orrori con insostenibili fotografie di ustioni e mutilazioni inflitte ai bambini dal napalm, dalle bombe a frammentazione e dalle mine antiuomo. Al piano superiore sono esposte immagini dei reporter di guerra di tutto il mondo, che spesso hanno perduto la vita per documentare gli eventi; sono foto sconvolgenti, ma bellissime. Un’altra sala espone manifesti e pubblicazioni di solidarietà al Vietnam, diffusi dai paesi europei durante il conflitto. Nel complesso , più che di un museo della guerra si tratta di un documento antiamericano che si può comprendere ma che stride con il capitalismo cui visibilmente il paese aspira. Nel pomeriggio, facciamo un giro nel mercato cinese, gigantesca Forcella di tonnellate di merce affastellate in innumerevoli antri-magazzino vegliati da cinesi accosciati a fumare o a mangiare; ne riportiamo l’impressione di un ineluttabile dominio di questo popolo, che prevarrà su tutti gli altri senza far guerra, semplicemente con la tenacia, lo spirito di sacrificio ed una frugalità che tocca la sordidezza. Poi, un giro in “cyclo” che è più emozionante delle più spericolate montagne russe: il fragile triciclo si infila nel traffico sfiorando camion ed automobili, mentre gli scooter gli sfrecciano intorno scansandolo al millimetro. Mezz’ora di fiato sospeso, mentre An, in sella ad un motorino taxi, controlla, come un cane da pastore, che nessuno si disperda. Poi il nostro bus ci porta nella Piazza del Municipio, sulla quale si affaccia il mitico Hotel Rex, dal cui tetto un elicottero americano portò in salvo gli ultimi reporter. Poco lontano il teatro dell’Opera, ricordo dei tempi coloniali, e le vie dello shopping. A Saigon il traffico, sia pure caotico, mostra qualche indizio di una maggiore disciplina: ai semafori il rosso provoca una certa percentuale di fermate, almeno nel centro cittadino, trasformando l’attraversamento della strada in un’attività pericolosa ma non letale. Ci dicono che il Vietnam ha un’altissima percentuale di morti per incidenti stradali, ma è sorprendente che non ci sia toccato di assistere a nessuno scontro o investimento, considerando il caos di veicoli a due o quattro ruote, fra cui si infilano biciclette e risciò e l’incredibile volume e peso dei carichi cui gli scooter sono sottoposti. Ci concediamo, prima di cena, un po’ di shopping al centro; poi doccia e restauro in hotel e cena in un buon ristorante.

25 novembre, mercoledì.

Oggi attraversiamo le campagne intorno a Saigon fino a Tai Nin, diretti alla chiesa madre del Caodaismo. Il Caodaismo, fondato all’inizio del novecento, è una forma di sincretismo che assume i simboli più vistosi e colorati delle principali religioni. Il tempio ha pianta a croce latina come una chiesa cristiana, ma ostenta colori e simboli da tempio indù. Vi si entra a piedi nudi come nelle moschee e si può assistere alle funzioni da una sorta di matroneo sorretto da colonne di cemento coperte da draghi rossi e azzurri che vi si attorcono dal pavimento al soffitto. A mezzogiorno in punto entra una processione di uomini e donne biancovestiti, che si dispongono a destra e sinistra nella navata centrale, in ordine rigoroso; i più anziani hanno un copricapo giallo o rosso, apparentemente di carta, simile ad una mitra vescovile. Sopra l’ingresso principale un palco, collocato dove nelle chiese c’è l’organo, ospita un gruppo di musici che suonano strumenti tradizionali e cantano una melopea. Ogni tanto i biancovestiti si prostrano fino in terra come nelle funzioni islamiche. Il tutto dura circa un’ora, dopodiché i fedeli sciamano fuori, quelli che calzano la mitra se la tolgono e vanno via in motorino. Però qui c’è un parcheggio ordinato, ampi viali, giardini curati. Insomma, il complesso sembra un parco di divertimenti ampio e ben tenuto, ma i fedeli appaiono convinti, sono pacifici e non disturbano nessuno.

La regione di Tai Nin è stata forse la più bombardata del Vietnam perché vi si nascondeva una vasta trama di gallerie sotterranee, costruite già al tempo dei francesi ed usate poi dai vietcong come centro logistico, come ospedale, come rifugio, come deposito di munizioni ed armi. Attraversiamo l’incrocio dove fu scattata la celebre foto della bambina nuda ustionata dal napalm che piange disperata: allora la strada tagliava risaie e lembi di foresta; ora c’è una ininterrotta fila di catapecchie in cemento che qui sono considerate case decorose, ciascuna col suo negozio-tugurio al piano terra. Ci si chiede dove siano finiti i vietcong, disposti alla morte o ad una vita da topi nei cunicoli sotterranei per l’ idea socialista, tra una popolazione che aspira al modello occidentale e al libero mercato.

Quando torniamo a Saigon, sulla città si stanno rovesciando cascate d’acqua: il temporale tropicale allaga le strade, ma non ferma le compatte legioni di motorini, che riescono a procedere in trenta centimetri d’acqua, con autisti e passeggeri coperti da svolazzanti mantelli antipioggia. Gli impermeabili formano un instabile patchwork rosso, giallo, blu, che ricopre la strada fino alle soglie dei negozi, lasciando emergere, come isole minacciate dalla tempesta, automobili, autobus e risciò. Poi il diluvio si placa, le strade perdono l’aspetto di torrenti fangosi e, per un po’, la temperatura e l’umidità sono meno soffocanti.

Prima di cena facciamo un giro nel mercato centrale, pieno di merci di ogni sorta, ma più ordinato e pulito del mercato cinese; poi, dopo una sosta in albergo, andiamo a cena all’ “Indochine”, che, anche nel nome, rievoca le raffinatezze coloniali del Tonchino. Ed infatti il cibo è presentato in fantasiose composizioni di frutta, fiori e foglie, per soddisfare l’occhio prima che il palato. E’ la nostra ultima sera a Saigon che, di notte, con i centri commerciali illuminati, molti negozi ancora aperti ed il traffico finalmente placato, ritrova la sua dignità di capitale dell’Indocina francese, come una matura dama dalla bellezza sfiorita ma non cancellata dal tempo.

26 novembre, giovedì.

Partiamo per il Delta del Mekong, dove ci aspettiamo di trovare un Vietnam più vicino alle origini contadine. In verità, i circa trecento chilometri di strada sono ininterrottamente fiancheggiati da case e catapecchie in cemento che hanno sostituito le capanne di legno col tetto di paglia. Di tanto in tanto spicca nello squallore una costruzione più pretenziosa, la consueta fetta di casa profonda e strettissima, che ostenta un tetto a cuspide e brillanti ringhiere di lucido acciaio. Alle abitazioni si mescolano botteghe, officine e capannoni industriali, in una farragine brutta e malsana, che riversa sulla strada tutta la sua confusione. Sulle sponde del Mekong e ancor più sui canali sorgono vere e proprie favelas, con baracche di legno, lamiera ed eternit, sostenute da sbilenchi e pericolanti tavolati puntellati da pali di legno e di cemento che, sprofondando nella melma, mettono a repentaglio tutta la costruzione. Solo il luogo dove facciamo una sosta a metà mattinata, una sorta di autogrill, dà l’idea di come, fino a dieci anni fa, doveva apparire il paesaggio: boschi, risaie e canali tagliati dagli ingegnosi e semplici ponti tradizionali: un tronco su cui appoggiare i piedi ed un palo, più in alto, cui afferrarsi come ad un corrimano. In tarda mattinata facciamo anche un’escursione sui canali con una lunga piroga munita di tettoia e di sedie di bambù. Sull’acqua vecchi barconi ospitano le famiglie che vi abitano e vi commerciano; una lunga pertica a poppa funge da insegna, inalberando un grappolo di ortaggi o di frutta; le baracche sull’acqua sono anche depositi di merci ed officine artigiane. Sbarchiamo in un villaggio che, pur avendo ricevuto dal turismo una certa prosperità, conserva ancora una struttura tradizionale: le capanne di legno, allineate lungo un sentiero pavimentato a lastroni di cemento, sono anche negozietti di artigianato e piccoli laboratori per la lavorazione del cocco, delle arachidi, del riso soffiato e delle sfoglie di riso, sottilissime, in cui si racchiudono gli involtini primavera e altre preparazioni orientali. In tutto il villaggio lunghi graticci di bambù, esposti al sole, sono ricoperti dalle sottilissime grandi ostie, che verranno poi impacchettate ed esportate. Assaggiamo di tutto: croccanti di arachidi e di riso soffiato, zenzero candito, latte di cocco, correndo impavidamente l’alea. Poi, non contenti, andiamo a pranzo in un bel giardino di agrumi sul retro di una villa coloniale dell’ottocento, restaurata ed abitata da una famiglia vietnamita che vi gestisce una sorta di agriturismo. Stavolta il pasto è un po’ diverso dalla solita, anche se gustosa sequenza: ci viene servito un pesce fritto, sorretto da bastoncini di bambù che ne evidenziano la forma bizzarra. Un ragazzo ne taglia un pezzettino, lo avvolge nell’ostia di riso con fettine di cetriolo e di ananas e lo serve con i bastoncini. Il tutto forma un amalgama di sapori sorprendentemente gradevole. Ci sono poi gamberi di fiume e calamaretti fritti. Insomma, mangiamo di gusto prima di riprendere il viaggio. La strada continua a scorrere lungo una cortina di brutti fabbricati fino al tardo pomeriggio, quando finalmente le costruzioni si diradano e si apre la vista sulle risaie in cui si specchia il sole al tramonto. Traghettiamo poi su una barca sudicia e puzzolente di tutti fetori d’ Oriente; la breve traversata è resa necessaria dal crollo del ponte costruito dai giapponesi. L’incidente causò, qualche anno fa, cento vittime: la notizia ci viene riferita con la solita, sconcertante rassegnazione. Il fondo fangoso, non l’imperizia umana fu causa della catastrofe: An difende, decisa, la sua convinzione contro le nostre obiezioni. A sera arriviamo a Chau Doc, in un bell’albergo coloniale sul fiume, l’hotel Victoria. I legni lucidi, i divani di cuoio, il menù personalizzato ricordano un raffinato club inglese ai tropici. Ma l’incalzare del viaggio ci consente una sola notte di sosta. Domani saluteremo il Vietnam ed An: ci aspetta la Cambogia.

27 novembre, venerdì.

Ci destano, all’alba, i rumori della vita fluviale che si risveglia. E’ tempo di imbarcarci per Phom Penh. Una lancia veloce ci porta alla meta in 3 ore circa. Naturalmente è necessario fermarsi e sbarcare per le formalità di frontiera, che sono, però, meno lunghe e noiose di quanto ci aspettassimo. Tutta la navigazione è piacevole. La Cambogia è assai meno abitata del Vietnam: le rive del grande fiume sono verdi e coltivate, come le isole che emergono appena dall’acqua; nei pochi villaggi, dalle capanne di lamiera o di legno, i pescatori, tenendosi in equilibrio su lunghi tronchi sorretti da un’artigianale impalcatura, bilanciano una grande rete a coppo in cui la corrente spinge il pesce, che non manca mai, neanche sulle mense più povere. A Phom Penh veniamo accolti da Claudio Bussolino, un professore e giornalista che si è trasferito in Cambogia e vi vive scrivendo libri e facendo la guida per gli Italiani. Dopo le acrobazie linguistiche di An, è un vero sollievo ascoltare un italiano fluido e corretto ed un’esposizione informata, piacevole e sintetica sulla ricca storia della Cambogia e sui rapporti fra Oriente ed Occidente. Così la visita al Museo Nazionale è più significativa e ci prepara alle escursioni ai siti archeologici dei prossimi giorni. Anche il palazzo reale è assai più godibile dei pochi rutilanti esemplari che abbiamo visitato in Vietnam. Il grande complesso che ripete, in muratura, il primitivo palazzo di legno è ancor oggi usato come sede del capo dello stato (il re), del governo e per le solennità ufficiali. Oltre alla sala del trono, è notevole la “Pagoda d’Argento” così definita perché pavimentata con piastrelle, appunto, d’argento: i mattoni sono bellissimi, ma assai poco pratici, perché si anneriscono, si ammaccano e si sconnettono. Ma tant’è: l’Oriente preferisce in genere la bellezza alla comodità. Nella pagoda si conservano i doni dei fedeli che i monaci hanno voluto accettare, apprezzando lo spirito della donazione più che il valore dell’oggetto. Perciò la collezione è ricca ed eterogenea: si va dall’umile dono di una ciotola di legno ad un grande Buddha d’oro e diamanti offerto dalla corporazione degli orafi cambogiani. Il tesoro della pagoda non ha bisogno di particolari misure di sicurezza, perché è considerato proprietà e simbolo del popolo e, dunque, sacro ed inviolabile per ogni cambogiano. Infine, ci ritiriamo in albergo, da cui, prima che calino le tenebre, usciamo per una sortita al mercato, che tocca uno spigolo della piazza su cui affaccia il nostro hotel Intercontinental. Sebbene ci siano frutta, carni, pesci in abbondanza e sebbene i volti siano belli ed espressivi, fuggiamo scoraggiati dagli effluvi di marciume, dalla melma che ci invischia le scarpe e l’orlo dei pantaloni e dall’infernale confusione di merci, persone e motorini. Ben decisi a non muoverci più, ignoriamo le promesse di vita notturna che si svolgerebbe sul lungofiume. In realtà, considerando che la nazione da appena dieci anni è uscita da una lunga serie di guerre, la ripresa è quasi miracolosa ed è comprensibile che i giovani abbiano voglia di divertirsi. Ma noi, che non siamo né giovani né cambogiani, preferiamo dormire.

28 novembre, sabato.

Alle 7.30 partiamo da Phom Penh per Siem Reap, la cittadina più vicina ad Angkor. Percorreremo i circa trecento chilometri in autobus invece che in aereo, su suggerimento dei corrispondenti locali della nostra agenzia. Potremo così visitare in itinere il sito archeologico di Sambor Prey Kik che ci avrebbe altrimenti costretto a tornare indietro di centocinquanta chilometri. A metà mattinata ci fermiamo in una sorta di motel dove si vendono grossi ragni vivi o fritti oltre a cavallette ed altre leccornie. La strada si snoda fra campi coltivati, villaggi, fiumi, stagni e pagode. Prevalgono le risaie, le cui distese, verdi o allagate, sono interrotte da pochissime colline calcaree, di cui quella chiamata Phnom Krom, sacra, è anche una cava di pietra, che viene lavorata in loco, dagli abitanti che si sono specializzati nel mestiere di scalpellino o di scultore. Ci siamo prima fermati fra le rovine di Kuk No Kor, tempio buddista del VII – VIII secolo “adottato” dai monaci dell’attiguo convento. Il sito è oltremodo suggestivo, perché ancora sentito come luogo sacro dagli abitanti, sia monaci che laici, dell’insediamento moderno, che lo curano e lo vigilano. I conventi sono di necessità comunità miste, perché ai monaci Biku (mendicanti) è consentita la sola cerca: non possono cucinare il cibo che ricevono crudo, non possono toccare il denaro che viene loro donato; perciò è indispensabile che una comunità di laici viva in simbiosi con loro e che al venerabile priore si affianchi un amministratore laico, l’Anchar. I bambini, che subito ci circondano incuriositi, ci lasciano poi educatamente godere della bellezza del luogo. Entriamo nella vastissima sala, sostanzialmente una piattaforma di legno coperta da una tettoia, che funge da refettorio, da sala studio e riunione, accolti con gentilezza, come sempre presso i monaci buddisti. Poi proseguiamo per Sambor Prei Kik, un grande tempio buddista del XIII secolo, diruto dal tempo e dagli uomini, che lo hanno perfino bombardato negli anni ’70, ma che conserva il suo fascino; le grandi torri sacre di mattoni sorgono in mezzo alla foresta; uno degli edifici più piccoli è stato completamente avvolto dalle radici di un albero immenso, che lo racchiudono in una gabbia vegetale al tempo stesso soffocante e protettiva. Un veterano di guerra, mutilato di un braccio, si è autoeletto guardiano del sito, accoglie i visitatori e mantiene un certo ordine tra le frotte di bambini che inseguono su sgangherate biciclette i pochi autobus turistici e offrono colorate sciarpette di cotone. Rispettano però un mutuo patto con i visitatori: la lotta per la vendita si scatena solo a visita finita, che essi annunciano sottolineando “tempio finito” dopo averci accompagnato per tutto il percorso. Il viaggio continua tra risaie e canali fino a Siem Reap, dove non possiamo fare altro che cenare e andare a letto, stanchi, ma paghi delle esperienze della giornata.

29 novembre, domenica.

Stamattina cominciamo a visitare i siti archeologici intorno ad Angkor: Bakong, Lolei, Preah Ko. Dell’antica capitale del regno Khmer rimangono solo gli scheletri dei templi costruiti in mattoni ed arenaria. Delle case e delle strutture in legno il tempo non ha risparmiato nulla. I templi di Bakong e di Preah Ko,del tardo IX secolo sono in mattoni; il tempio di Lolei, bellissimo, è in arenaria ed è circondato da un grande fossato pieno d’acqua, attraversato da un ponte con i parapetti in forma di serpente. Il complesso simboleggia l’antico mito di creazione, secondo cui dal mare primigenio di latte sorse un serpente che, ritorto dalle schiere contrapposte degli dei celesti e dei demoni sotterranei, come la zangola rapprende il burro, formò dal latte primigenio Visnù e poi la dea madre che recò agli uomini un vaso pieno di doni. Il mito ricorda quello greco di Pandora e della lotta tra gli dei olimpici ed i Titani figli della Terra; ed infatti sulla Teogonia di Esiodo molto si studia alla ricerca di concordanze e derivazioni da miti orientali, approdati con i mercanti sulle coste del Mediterraneo. Il tempio di Lolei, che risale alla fine del IX secolo, sorge su un’altissima piattaforma piramidale da cui si domina tutto il territorio e che svetta sulla foresta, come i templi Maya. Si suppone che tale modulo costruttivo, che i Khmer usarono qui per la prima volta, sia stato mutuato da Borobudur, il grande centro religioso di Giava che, nel tardo IX secolo, dominava il Mar della Sonda. Anche in quest’area, accanto ai templi antichi, sorge spesso un monastero, che attesta il permanere nello stesso luogo della percezione del sacro. Così è sia a Preah Ko che a Lolei, dove i monaci ci accolgono con gentilezza e ci consentono di entrare nella lunga stanza del refettorio durante il pranzo di mezzogiorno. Poi andiamo a pranzo anche noi, assai meno frugalmente, al Bopha ; mangiamo in una veranda di legno col tetto di tegole in cui l’arredo accattivante, la presentazione curata dei cibi ed il garbo delle cameriere che indossano un bel costume tradizionale rendono il nostro pasto assai diverso da quello semplice e modesto dei Biku. Poi ci trasferiamo sul Tonle Sap, il grande bacino centrale della pianura cambogiana, che da maggio a settembre si riempie per le piogge e lo scioglimento di ghiacciai himalayani da cui nasce il Mekong, mentre cala nei mesi invernali, quando cessano le precipitazioni e gelano i ghiacciai. Questa cadenza straordinaria ha determinato i costumi delle popolazioni costiere. Esse vivono in case montate su barche o zattere che, incagliate sulla terraferma nella stagione asciutta, prendono a galleggiare quando il terreno su cui poggiano viene sommerso dalle acque. Si nutrono soprattutto di pesca e praticano l’itticoltura: quando le acque del Mekong, gonfie per le piogge monsoniche e lo scioglimento dei ghiacci, si riversano nel bacino, il boat people intercetta il pesce trascinato dalla corrente con grandi reti che lo guidano in gabbie di bambù, dove i pesci piccoli vengono allevati per tutto l’inverno. Viene praticato anche l’allevamento dei coccodrilli ed inoltre il turismo contribuisce oggi decisamente all’economia. I villaggi galleggianti contano circa ottomila abitanti, che vivono come nomadi sul lago. Conservano uno stile di vita tradizionale: sulle case galleggianti abitano, commerciano, hanno scuole, templi e perfino una chiesa cattolica. Le case si dondolano fra le chiome degli alberi sommersi, che emergono dalle acque come cespugli ora che, finita da poco la stagione delle piogge, il bacino è al suo massimo e ha l’aspetto di un mare. Mentre ci avviciniamo ad uno zatterone che funge da negozio, da bar, da piattaforma panoramica, con una spericolata manovra una piroga a motore ci abborda ed un bambino piccolo ed agilissimo salta in velocità sulla nostra lancia con una cassetta di bibite al collo. Rimaniamo senza fiato per l’abilità e per lo sprezzo del rischio sia di chi guida la piroga sia, soprattutto, del minuscolo pirata che così si guadagna da vivere. Lasciamo poi il lago con la sua fresca brezza e torniamo in città per un giro nel mercato, che offre sia alimentari sia oggetti di legno, di bronzo, di argento, di pietra, tessuti di seta e di cotone, sciarpe, camicie e minutaglia pseudo antica. Poiché comprare è sempre appagante, qualcosa acquistiamo, anche se la qualità degli oggetti è ordinaria. Ci ripromettiamo di meglio dalla scuola di artigianato che si fregia del marchio “Les Artisans d’Angkor”. Poi, in albergo, a cenare con i resti del buffet che giapponesi e coreani, voraci predatori pomeridiani, ci hanno graziosamente lasciato.

30 novembre, lunedì.

Oggi siamo passati di meraviglia in meraviglia. In mattinata abbiamo visitato i templi induisti di Banteay Samre e di Banteay Srei, il primo dedicato ad una casta di guerrieri, i Samre, il secondo alle donne. Il tempio dei guerrieri, in parte restaurato, cioè ricostruito, è circondato dalla foresta, al di là di un fossato colmo d’acqua; il modulo costruttivo è a pseudo volta, come la tomba di Atreo a Micene, con il triangolo di scarico sull’architrave coperto da lastre di arenaria scolpite con storie del Ramaiana. Le mura di cinta sono in laterite ed il tempio prevalentemente in arenaria. I visitatori sono pochi e possiamo con tutta calma goderci la visita, ascoltando Sebastiano che, in sostituzione di Claudio Bussolino, ci illustra i bassorilievi. Ci spostiamo poi a Banteay Srei, che è il tempio dalle sculture più belle, costruito nell’arenaria più dura e resistente; ha conservato le finissime decorazioni, quasi un ricamo di pietra che, incorniciando le figurine femminili ritratte intorno e sopra le porte, ricopre tutte le pareti. Intorno, un vasto fossato su cui galleggiano le ninfee e la foresta dagli alberi altissimi accrescono l’incanto del luogo, anch’esso relativamente risparmiato dall’assalto dei turisti. Fra un tempio e l’altro, ci fermiamo presso un piccolo villaggio in cui si lavorano giunchi e foglie di palma per ricavarne cesti, panieri, contenitori, stuoie e belle nasse da pesca finemente intrecciate; naturalmente compriamo, ma ammiriamo anche le ben tenute capanne di legno e giunco in cui anche i bambini, con la loro grazia, offrono gli oggetti lavorati dai parenti. Samy, una sorta di ranger che ci accompagna nelle visite, ci rassicura: i bambini vanno a scuola, alcuni nel turno mattutino altri nel pomeridiano. Nel pomeriggio, sempre attraversando risaie verdi o lembi di foresta, andiamo a Ta Prohm, il tempio che è stato lasciato così come gli archeologi lo trovarono, in una meravigliosa unione simbiotica con i giganteschi alberi che hanno abbracciato le rovine, strisciando al di là delle muraglie, avvolgendo le sculture, affacciandosi da portali e tetti. E’ uno spettacolo così straordinario che non ci meravigliamo di trovare una folla di visitatori. Sembra di essere su un pianeta in cui, scomparsi gli uomini, la natura abbia inglobato, a poco a poco, l’opera orgogliosa di sovrani e di popoli cancellando il suggello della ubris umana. Toccati e commossi da tanto armoniosa antinomia, ci spostiamo a Ta Keo, dall’altissima torre centrale, quasi priva di decorazione. Questo tempio fu lasciato incompiuto, forse a causa di un incidente interpretato come presagio funesto o per la morte del re committente (Suryavarman I, fine X inizi XI secolo). L’imponente costruzione precede di circa un secolo l’incantevole Ta Prohm, che si colloca tra la fine del XII e l’inizio del XIII secolo. Attraverso una ripidissima scalinata, non senza difficoltà, saliamo sulla cima della torre, donde si gode la vista panoramica della foresta; la cella al vertice è considerata ancor oggi un luogo sacro, anche se a Buddha invece che alla Trimurti. Un ulteriore segno del tollerante sincretismo buddista e della tendenza a considerare gli antichi templi come nodi di numinosa sacralità, che ancora come tali devono essere vissuti e rispettati. Il sole calante indugia sulle antiche pietre avvolgendole in una luce calda e dorata: Sebastiano ci fa passare davanti ad Angkor Tom, al Bayon e ad Angkor Wat. Pensavamo di aver visto già il meglio del sito: ma l’immensa terrazza degli elefanti, il ricamo dei rilievi sulle torri altissime del Bayon e l’ingresso maestoso di Angkor Wat, col grande ponte che illustra il mito di creazione e la porta dai quattro volti colossali di Buddha, dorati dal pulviscolo luminoso del tramonto, mentre l’ultima luce indugia sul vasto bacino in cui si specchiano gli alberi secolari, ci lasciano senza fiato. A domani la gioia di visitare questi siti meravigliosi.

1 dicembre, martedì.

Quando, intorno alle 9, entriamo nella vastissima piazza di Angkor Tom, su cui si affacciano l’immensa terrazza degli elefanti e quella, più contenuta, che nel rilievo illustra la leggenda del re lebbroso, non ci sono folle ad alterarne la percezione ed il godimento dell’armonia progettuale. Lo spazio quadrangolare, enorme anche se oggi in parte ricoperto dai grandi alberi della foresta, era probabilmente la piazza principale di Angkor, dove ferveva il mercato, si celebravano i fasti regali ed i riti degli dei; qualche studioso pensa che la terrazza detta del re lebbroso fosse una piattaforma funebre, riservata alle cremazioni perché intorno e sotto di essa, durante i lavori di consolidamento, fu trovato un muro finemente scolpito e totalmente sepolto, che potrebbe aver rappresentato il mondo dell’aldilà. Ci inoltriamo poi nella foresta, dove un gruppo di capanne ospita un monastero buddista, che convive col sito archeologico. Un monaco sta impartendo un’elaborata benedizione ad un giovane e alla sua moto nuova, con largo uso di acqua lustrale, attinta da un grande secchio di plastica. La cerimonia ricorda l’usanza, molto diffusa un tempo in Campania, di far benedire l’automobile nuova al santuario di Pompei. Accanto alle umili capanne del monastero sorge la rovina di una grande torre: ne rimane la nuda struttura in laterite parzialmente collassata; fra le pietre serpeggiano le enormi radici degli alberi, serrandole in un abbraccio ormai inscindibile. Il suolo, fra le foglie ed i rami secchi, è cosparso dalle grandi lastre di arenaria, scolpite ed incise, che un tempo rivestivano la costruzione. Entriamo poi nel Bayon, il meraviglioso tempio che, da lontano, sembra una serie di cocuzzoli bizzarramente scolpiti e che, da vicino, rivela l’armoniosa simmetria di un progetto di profonda spiritualità e di limpida razionalità. Il tempio fu costruito da Jayavarman VII, che regnò dal 1181 al 1219; con lui l’arte di Angkor tocca il vertice, segnata dalla luce del Buddha, che imprime il suggello della filosofia alla ricchezza decorativa del politeismo induista. Il Bayon sembra un mandala in pietra, una intuizione profonda della vita e della morte, dei rapporti fra umano e divino, che commuove ed esalta lo spirito. L’altissima torre centrale è come il Nirvana, lo stato di perfetta beatitudine che, squarciato il velo di Maya, rivela l’unità nell’apparente molteplicità dell’essere ed irradia la serena accettazione del dolore, della malattia, della morte. I meravigliosi volti di pietra, diversi l’uno dall’altro, sorridono come gli dei di Epicuro, dai quattro lati di ciascuna torre: sono forse fattezze regali, ma il sorriso eginetico manifesta la perfezione e comunica la serenità di uno spirito cui è dolce naufragare nel mare dell’universo. Nel pomeriggio visitiamo quello che qui viene considerato il culmine della bellezza, simbolo della Cambogia: Angkor Wat, dalle tre torri svettanti sull’immenso quadrilatero circondato da lunghissime gallerie a pilastri, che si specchiano nei grandi bacini d’acqua cinti da gradinate quasi cancellate dal tempo. Ma, dopo il meraviglioso equilibrio del Bayon che, come una Divina Commedia in pietra, manifesta l’empito dell’umano verso il divino, questa smisurata costruzione, che annichilisce l’individuo, ci pare il frutto della ubris di un sovrano dimentico del metro dell’umanità. Nella galleria a pilastri che circonda l’edificio, un bassorilievo lungo decine di metri illustra il Ramaiana in un caos figurativo di mischie, duelli, imboscate fra cui campeggia, ad intervalli più o meno regolari, una figura di più grandi dimensioni, l’eroe attorno a cui è costruito ciascun episodio, come in un succedersi di libri epici; di seguito, un bassorilievo altrettanto lungo, ma più regolarmente spaziato esalta le imprese di Suryavarman II (1113 – 1150), costruttore di Angkor Wat, che celebra così la propria apoteosi assimilando la sua caduca regalità all’eroismo divino di Rama. Il caldo è opprimente e le cicale fanno riecheggiare il loro canto, acutissimo, che lacera l’aria torrida con un sibilo simile alla sirena di un antifurto. L’eccesso di dimensioni, di suoni, di calura opprime e sgomenta. Angkor Wat è bellissima da lontano, quando se ne coglie la prospettiva sullo specchio delle acque verdi cinte dalla foresta; ma da vicino sbigottisce l’europeo ammonito dal ” meden agan” (nessun eccesso).

Poi cena e organizzazione per l’indomani. Poiché ci sarà lasciato l’uso delle stanze fino alle 16, ognuno progetta come trascorrere le ore prima della partenza: si spazia tra il bagno in piscina, il riposino, la sistemazione dei bagagli.

2 dicembre, mercoledì.

Con calma stamane visitiamo la scuola “Les Artisans d’Angkor”. E’ un’iniziativa veramente meritevole, perché seleziona nei villaggi i ragazzi più dotati per le attività artistiche ed artigianali e li prepara professionalmente. Alla fine dell’apprendistato, se supereranno l’esame finale, potranno tenere per sé gli strumenti di lavoro ed aprire una bottega che si fregi del marchio della scuola o insegnare nella scuola stessa. L’istituto si prende cura anche degli handicappati: ad esempio le pittrici su seta sono giovani sordomute, cui viene offerta un’opportunità preziosa in una società contadina, che non ha spazi ed occasioni per chi soffre di limitazioni fisiche. I prodotti sono di fattura accurata ed esteticamente molto gradevoli. I capannoni – laboratorio si sviluppano attorno ad un grande cortile centrale che, vicino all’uscita, ospita due negozi in cui si vendono gli oggetti finiti. Ci sono bei bassorilievi in pietra che riproducono quelli di Angkor Wat, sculture in legno ed arenaria, splendide sete e contenitori in rame battuto e argentato. Inutile dire che ognuno di noi calcola quanto spazio può ancora ricavare in valigia: usciamo carichi di buste e pacchetti, sperando nella comprensione della Singapore Airlines.



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