In viaggio nello Yemen, ossia Welcome to Yemen

Siamo a SANA’À! Piove. Oddio, a dirla tutta c’è un tempaccio davvero inaspettato: piove a scrosci, tira un forte vento, fa freddo ed il cielo è illuminato da frequenti lampi. Saremo davvero atterrati a Sana’à, capitale dello Yemen, giù giù nella penisola Arabica, in basso a sinistra? All’aeroporto veniamo a lungo trattenuti, uno dei...
Scritto da: rossparente
in viaggio nello yemen, ossia welcome to yemen
Partenza il: 01/08/2006
Ritorno il: 23/08/2006
Viaggiatori: in gruppo
Spesa: 2000 €
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Siamo a SANA’À! Piove. Oddio, a dirla tutta c’è un tempaccio davvero inaspettato: piove a scrosci, tira un forte vento, fa freddo ed il cielo è illuminato da frequenti lampi. Saremo davvero atterrati a Sana’à, capitale dello Yemen, giù giù nella penisola Arabica, in basso a sinistra? All’aeroporto veniamo a lungo trattenuti, uno dei componenti del gruppo ha lavato il passaporto in lavatrice. Risultato: la foto sembra posticcia e il passaporto manomesso. Mentre aspettiamo che la controversia si appiani ho tutto il tempo per guardarmi attorno. L’aeroporto non ha niente di notevole, potrebbe essere un qualsiasi aeroporto di un non specificato paese arabo non troppo ricco. Ma ecco i primi yemeniti, tutti uomini e alcuni bambini, che si aggirano in attesa di non so cosa. Gli uomini, alcuni in pantaloni e altri in tunica o futah, non sono belli, portano tutti il pugnale rituale, la jambia (il solo fodero perché in aeroporto non si entra armati), ma non hanno facce che incutono timore e si mostrano premurosi e attenti verso i bambini e le bambine che portano con sé. Ci siamo: si sono decisi a far entrare Alberto, hanno dovuto far da garanti il corrispondente ed una viaggiatrice del gruppo, ma finalmente possiamo venir fuori e andare a Sana’à. In realtà il nostro albergo è fuori città, in un palazzotto di nuova costruzione che non ci fa una bella impressione, ma si può andare a dormire.

L’albergo non è bello, ma è pulito e la dormita è stata piacevole. Hanno servito la colazione all’ultimo piano di questo palazzotto, in una sala che si apre con ampie finestre sulla città. La Sana’à vecchia è però lontana, il panorama che si gode dall’alto non è particolarmente affascinante, anche se è reso esotico da qualche palma e dai minareti che spiccano alti sull’abitato. Ma ecco la solita marmellata di fragole, chissà perché immancabile sulle tavole delle colazioni di mezzo mondo.

Finalmente ha inizio il giro, la temperatura è buona e quasi in orario siamo partiti per la nostra prima visita: il wadi DAR la nostra meta. Il gruppo si muove con tre mezzi, due fuoristrada ed un pick up che ci accompagneranno per tutto il viaggio. La vista dall’alto di questo letto del fiume in secca non ci riserva forti emozioni. E’ qui però che avvengono i nostri primi contatti con i bambini yemeniti che per pochi soldi ci offrono uova sode, da insaporire in una granulosa mistura gialla, foto con fucile e anche l’emozione di esplodere alcuni colpi. Scendiamo nel wadi, il percorso al suo interno è più interessante: ecco si vedono i primi villaggi e la nostra guida, Salah, si ferma per farci visitare il DAR ALHAIR PALACE. E’ il palazzotto, costruito su uno spuntone di roccia, che si vede nella prima di copertina della Lonely, è la foto cartolina dello Yemen. Saliamo su per delle alte e strette scale per visitare i diversi ambienti, il palazzo si sviluppa in altezza come tutte le costruzioni tipiche di questo paese. Interessanti le nicchie frigorifero dove gli abitanti del palazzo tenevano, sospesi a dei ganci, gli alimenti in fresco. Bella la sala per la masticazione del qat, il mafrai, che posta all’ultimo piano tra tappeti, cuscini e larghe finestre offre un’ampia vista sulle case e sul verde wadi. Questo sito, oltre i tanti turisti, ospita bellissimi piccoli mici che sembrano essere in ottime condizioni. Eppure nella guida è scritto che nello Yemen gli animali non hanno una vita facile e che troppo spesso vengono maltrattati. Invece eccoli qua: tanti mici che in ottima salute giocano a rincorrersi o si dedicano a ristoratrici pennichelle. Un piccolo gatto, con una macchia sul muso che gli disegna dei baffetti che ricordano quelli di Hitler, dorme all’interno di una foglia di fico d’india che lo accoglie come una culla: belli questi contrasti cromatici creati dal bianco e nero del gatto e dal verde brillante della foglia.

Siamo a BAYT BOWLES, Salah ci ha lasciati sul crinale che si erge di fronte al villaggio. Ci aspetterà lì mentre noi andremo a visitarlo. Attraversata la scarpata intraprendiamo il giro di questa cittadina ormai abbandonata. Entriamo da una delle porte della città, gli stipiti sono a terra, lo stato di abbandono è fin troppo evidente. Il villaggio ci riporta alla memoria un altro posto in un’altra nazione: Hait Benaddou in Marocco. Anche lì quello che doveva essere stato un centro fiorente di commerci, affollato da gente indaffarata, è ormai quasi disabitato e ridotto a poco più di un mucchio di macerie. Macerie che, viste da lontano, davano però ancora un bell’effetto. Una ragazzina del posto ci invita ad andare a casa sua, la seguiamo curiosi ed entriamo in una povera casa dove una scala, in basso alla quale sono ammonticchiati secchi e pentolame, porta ad una stanza con materassi posti su poveri tappeti. C’è disordine, poche le cose che hanno e che nessuno ha rassettato. La mamma e la bimba tentano un rapido riordino di cuscini, coperte e alcuni utensili prima di offrirci del tè, ma noi, ringraziandole, decidiamo di andarcene: abbiamo perso gli altri e non vorremmo farli attendere. Rientrati sulla cresta di fronte al villaggio l’atmosfera si fa magica: il muezzin sta chiamando alla preghiera i fedeli e nel cielo pomeridiano alcuni uccelli volteggiano alti su Bayt Bowles.

Siamo nuovamente a SANA’À, ci perdiamo per un intero pomeriggio, fino ad ora di cena, nei suq della città vecchia. C’è il suq delle spezie, quello degli intagliatori di legno, dell’uva passa, dei monili d’argento e pietre dure, delle stoffe, delle jambia, dei legumi e cereali, della mirra e dell’incenso. Le due resine odorose hanno fatto guadagnare allo Yemen l’appellativo di Arabia felix. Sì, perché in tempi in cui non si officiava nessuna funzione religiosa senza che venisse bruciato dell’incenso o mirra, non si celebrava nessun funerale senza che l’aria non si riempisse di questi profumi, la via dell’incenso passava di qui. E i romani, erroneamente, ritennero lo Yemen l’unico produttore di queste resine e per questo motivo lo battezzarono “Arabia felix”. San’à è bella, ma è anche polverosa e decadente come tante, troppe città arabe. Forse bisognerebbe riuscire a vederla con occhi diversi, non occidentali. C’è sporcizia, parti della città sono ormai ridotte in macerie e lì abbandonate, tutto è eseguito da mani approssimative e tutte queste cose, rubano fascino a questa città, unica. E’ di nuovo l’ora della preghiera, è sera, ma non possiamo entrare nella moschea che si apre davanti a noi e rimaniamo fuori ad osservare i fedeli che vi accorrono. In questa bella moschea di Sana’à sta lavorando un gruppo di italiani, sono dei restauratori. Facciamo conoscenza con uno di loro, lavora agli intarsi in legno, lui può entrare all’interno della moschea e ci racconta che al termine di ogni giornata di lavoro si rilassa masticando il qat, come fanno gli yemeniti.

Oggi è il mio compleanno e in un negozio, dove siamo rimasti a lungo bloccati da Antonio, intento all’acquisto mai portato a termine di una Mauser (pistola tedesca), e da una pioggia torrenziale, Gigio, mio marito, mi compera una bella collana d’argento a grani. I festeggiamenti sono continuati anche durante la cena consumata in un ristorante libanese. Piacevole il momento in cui, andata via la luce, Martina ha intonato “buon compleanno a te”, subito imitata da altri del gruppo e da alcuni yemeniti che hanno preso parte al coro con un “happy birthday” davvero gradito. Un bel narghilé e dei pasticcini, ottimi quelli al formaggio profumati al gelsomino, hanno chiuso tra sbuffi di fumo e morsi odorosi il giorno del mio 41° compleanno.

Sveglia alle sei del mattino: visiteremo il mercato di KAMIS BANY, un villaggio che si trova a metà strada tra Sana’à e la città di Al Hodeida, sul mar Rosso. Il villaggio è davvero piccolo, poche case misere che si sviluppano lungo la strada principale. Il mercato è giù in una breve scarpata che porta al greto di un fiume. Poche bancarelle mettono in mostra delle mercanzie per i locali. Impressionante il banco del macellaio: appesa ad un gancio, all’aria aperta in bella mostra, una povera capra appena uccisa. Tutto intorno, per terra, scarti di animali precedentemente macellati. L’uomo lavora con fare energico: su un ceppo seziona, assestando poderosi colpi, la carne per servire i numerosi avventori. Un micio si avvicina con circospezione ad un povero resto, è piccolo ma con determinazione rosicchia la pelle di un animale scuoiato. C’è un buon odore di frittata nell’aria, in una padella un venditore ne sta friggendo una. Gino gli scatta molte foto, un vero servizio fotografico per il quale lui posa con fierezza. Una bella porzione di frittata è il sentito ringraziamento che il cuoco da campo ci offre. Quante macchine, tutti fuoristrada, sono parcheggiate nel fiume che qui, lungo il villaggio, ha un letto ampio dove scorre lento e poco profondo. Tutti i fuoristrada sono stracolmi di merci, di uomini, di animali. Credo che, su qualcuno di questi, alcune famigliole stiano consumando il loro pasto. Al mercato ci sono anche tanti bambini e donne. Donne con enormi cappelli di paglia dalle larghe falde, occhi splendenti, zigomi alti. Andiamo via da Kamis Bany. Un enorme stradone, addobbato con lampioni, larghi spartitraffico e insegne luminose, di quelle che noi utilizziamo a Natale o durante le feste patronali, ci conduce ad AL HODEIDA. La strada è deserta, sembriamo gli unici viaggiatori da e per il mar Rosso. Che caldo infernale, anche lì l’umidità sarà così alta come a Al Hodeida? L’albergo ha una brutta hall, nella camera, sporca, abbiamo anche un tavolinetto a specchio, rotto. Anche la città è brutta, moderna e sporca, e il caldo è sempre più infernale. Alla ricerca di un ristorante consigliato nelle relazioni di viaggi precedenti, attraversiamo a piedi l’intera città immersa nella calura pomeridiana. Dopo quasi due ore, con il gruppo ormai allo stremo, alle quattro del pomeriggio ecco finalmente apparire il ristorante. Aragoste, gamberetti, kingfish, riso speziato, fagioli in padella… questo l’agognato premio che abbiamo conquistato con l’estenuante camminata. Lungo la strada che ci riporta all’albergo alcuni decidono di fare il bagno: il mar Rosso è pur sempre il mar Rosso, anche a Al Hodeida… forse. Gli uomini del gruppo fanno il bagno in costume, le donne vestite di tutto punto. Nonostante questa precauzione, il rinfrescante bagno pomeridiano richiama molti yemeniti, tutti uomini. Si forma una tal quantità di gente, che si gode lo spettacolo dalle pietre/spalti che delimitano il lungomare di questa cittadina, che rimangono solo posti in piedi. Ci avviamo verso l’albergo, tutte le bagnanti sono grondanti, ma fa talmente caldo che tranne per il rivolo che si lasciano alle spalle, non c’è alcun problema. Altra sosta sul lungomare in un lido attrezzato per famiglie. L’ingresso è controllato, all’interno molte donne, giovani e vecchie, e tanti tanti bambini. Ci sediamo sotto un gazebo posto vicino al mare, tra chiacchiere, sorsi di bibite e sbuffi di fumo attendiamo il tramonto. Alcune giovani donne vestite con il tradizionale abito nero, con viso e capelli coperti, si avvicinano, ci attorniano, sono tante, chiacchierone e allegre. Solo una di esse ha il viso scoperto e ci dice, ostentandolo, che “lei è saudita”. Alcune di loro fumano con piacere dal nostro narghilé, faccio amicizia con una delle più ciarliere. Prima di andarsene vuole mostrarmi il volto, si scopre, ha un bel viso tondo, aperto e un bel paio di occhi neri, maliziosi. Ci facciamo alcune foto assieme che non le potrò spedire perché nessuna di loro ha un indirizzo e-mail e poi la ritraggono a viso scoperto! Insiste nel lasciarmi scritto, sul quaderno che ho sempre con me, il suo nome (Aiat Malli) e il numero di telefono (40 20 08), spera forse che la chiami? Si fa tardi, le donne sciamano via in piccoli gruppi tra saluti e risatine e noi riprendiamo la camminata per raggiungere il nostro albergo. Ma come dicevo, il mar Rosso è pur sempre il mar Rosso, facciamo un bagno notturno in costume. L’acqua è caldissima, ha una viscosità che mi ricorda quella del mar Morto. Ma sarà davvero la forte salinità di queste acque che dà questa spiacevole sensazione di oleoso o c’è del vero olio che vi galleggia, visto che stiamo facendo il bagno accanto al porto della cittadina? Stamane sveglia all’alba per andare a vedere il mercato del pesce. Scendiamo rapidamente e, fa già un gran caldo, allunghiamo il passo verso il mercato che è poco distante dall’albergo. Anche l’ingresso al mercato è controllato: la guardia, con in mano un manganello, si mostra restia a farci entrare. Fatichiamo un po’ per convincerlo varcando, poi, rapidamente l’ingresso. La struttura dove si tiene il mercato non è affascinante, è un enorme capannone in cemento, ma all’interno si offre, si vende, si contratta, si trasporta, si guarda il pescato. Pesci di tutte le dimensioni e di tutti i colori, a strisce, con pois, anche razze sono in bella mostra sui banchi, nei cesti in fibra naturale, in cassette di plastica, nelle carriole. Fuori, lungo la banchina, la variopinta flotta dei pescherecci, una bella macchia di colore contro questa alba che l’umidità rende livida.

Andiamo via da Al Hodeida alla volta di BAT AL FAQUI, dove si tiene ogni venerdì il mercato più famoso di tutto lo Yemen. All’arrivo scendiamo in una piazza invasa da motocicli di ogni tipo, forse un’esposizione dell’usato, in un assordante trambusto dal quale velocemente ci allontaniamo dirigendoci, guidati da Salah, verso il mercato. Ancora caldo, un gran caldo, tanta polvere. Ed ecco il famoso mercato: banchi di stoffe, esposizioni di frutta e verdura, montagne di spezie, sacchi di cereali e legumi e tanta gente; e ancora polli trasportati sotto il braccio, capre condotte per le zampe, dromedari indolenti, macellai con le loro carni, grandi calderoni neri in cui friggono cose, e sempre tanta gente. E poi i salassatori. In una strada un po’ appartata del mercato piccole botteghe ospitano questo mestiere antichissimo eseguito qui con nuovi strumenti: non più le viscide e vive sanguisughe ad eseguire il prelievo ma all’opera inanimati e freddi coni di plastica. In cura, presso queste botteghe, solo uomini: alcuni seduti, altri in vario modo sdraiati. Questi pazienti vengono qui perché credono che nel loro corpo, nelle parti doloranti, ristagna del sangue marcio che va eliminato. Il salassatore li fa accomodare in modo opportuno, con mani esperte disinfetta la parte dolente, se necessario rasa a zero la zona, pratica uno o più tagli e applica rapidamente dei coni nei quali, con una piccola pompa aspirante, crea il vuoto. Ed ecco sgorgare, violento, il sangue, quello ritenuto infetto. Rapidamente si colorano di rosso i trasparenti coni. Antonio ruba qualche foto a questo posto, al suq dei salassatori, che ricorderemo come un posto mai immaginato ma fin troppo reale.

Lasciamo la calda e polverosa Bat al Faqui per dirigerci verso ZABID. La cittadina è conosciuta in Italia perché Pasolini vi ha girato alcune scene del film “Le mille e una notte”. Ma la vera fama viene da molto più lontano: Zabid è stato per secoli un centro di studi islamici noto in tutto il modo arabo. Ora, di questo illustre passato, rimangono a testimoniarlo delle mederse, molte chiuse, e tante moschee. La città, quasi sospesa nell’intensa calura pomeridiana, ha bianche moschee immerse in ampi cortili delimitati da muretti, sempre bianchi. Percorriamo rapidamente le stradine della cittadina che, incuneandosi tra basse case color biscotto, ci portano alla casa di Pasolini. Il cortile d’ingresso è povero, sporco ed anche semicadente. Mentre ci accingiamo a salire le scale che portano alle stanze superiori, dove sono state girate alcune scene del film, un gruppetto di donne fa capolino da una porticina invitando Martina e me ad entrare. Ed eccoci in un altro cortile. Le donne ci indicano una stanza dove accomodarci. Qui, lungo tutto il perimetro, alti letti disfatti, i materassi sono posti su torreggianti reti di legno. Su uno di questi giacigli una giovane donna spettinata sta guardando, sullo schermo di un televisore sintonizzato su Al Jazira, gli ultimi notiziari. Sono questi i giorni del bombardamento israeliano sul Libano in risposta al rapimento di due dei loro soldati. Tutto il mondo arabo è in fermento, anche lo Yemen. Per strada, ai semafori, s’incontrano venditori che propongono foto ritratto di Nasrdallà, il capo degli Hezbollah. Dai lunotti posteriori, dai finestrini laterali il viso tondo del capo dell’armata di dio, ci sorride, ci osserva. La gente, per strada, ci chiede la nazionalità e solo dopo essersi accertata che siamo italiani, ci accoglie dicendoci “welcome to Yemen”. Alcuni poi ci tengono ad aggiungere, a sottolineare, che gli israeliani e gli americani non sono affatto brava gente. Ma torniamo a Zabid, a questa casa piena di donne preoccupate per quanto sta accadendo ai loro fratelli libanesi. Indicando le immagini trasmesse dall’emittente araba, fanno smorfie e gesticolano per farci capire il loro terrore, la loro riprovazione. Spavento che in una di loro diventa orrore non appena si accorge che Martina ha sul corpo numerosi piercing e che addirittura c’è n’è uno che le trafigge, da parte a parte, la lingua. Scoppiano risate, tentativi di spiegazioni, linguacce fatte per far inorridire, e ancora risate e facce stupite e domande. Una delle donne mi dipinge sulla mano un tralcio dalle ampie volute con un piccolo bastoncino che intinge in una pasta scura, l’henne. Gigio è preoccupato: non mi vede venir fuori e non sa cosa mi è capitato nel cortile che mi ha inghiottito. Capisco dai gesti delle donne che sta cercando di sapere se è tutto a posto. Dopo aver accettato dei datteri dolcissimi e del tè, ci accomiatiamo lasciando loro dei soldi e risaliamo rapidamente le scale. In una stanza, che sembra essere la versione ripulita e opulenta di quella appena lasciata, troviamo tutti gli altri. Ancora alti letti che percorrono tutto il perimetro, ma qui i materassi sono ricoperti da bei tessuti, ci sono dei cuscini di varia foggia un po’ ovunque a rendere più comoda la seduta e dalle finestre, a vetri policromi, filtrano fasci di luce colorata.

Siamo in viaggio per TAIZ. La periferia della città è sconfinata: squallidi palazzi moderni si ergono per chilometri lungo lo stradone d’accesso al centro. Ovunque camion, officine, operai malmessi e indaffarati. Fatichiamo a trovare l’albergo che è seminascosto in una stradina laterale. E’ anche questo un terribile palazzone con una hall semibuia arredata con i soliti divani, scuri e non proprio nuovi, quadretti alle pareti e un televisore perennemente acceso. Dopo esserci sistemati andiamo a spasso per la città che non ci riserva nulla di emozionante. Degni di menzione solo le mura, che sulle montagne, che da un lato si ergono a protezione di Taiz, confluiscono in una fortezza, la porta di accesso alla zona vecchia e una bianca moschea peraltro in ristrutturazione. E, quindi, sotto con chiacchiere, camminate e acquisti: una grande forma di formaggio affumicato (buonissima!) e monili, non d’argento, il nostro bottino. La sera finiamo in un ristorante, caldamente consigliato in alcune relazioni di precedenti viaggi che ha Martina, dove mangiamo del pesce carbonizzato e ci fanno pagare la cena anche per i nostri autisti che, però, non hanno consumato.

La giornata inizia nel migliore dei modi: per la colazione troviamo un baretto dove, seduti intorno ad un tavolino sopra un alto marciapiede, scopriamo i buonissimi frullati yemeniti che accompagniamo con del pane appena sfornato. Tutto squisito. Il programma di oggi prevede la visita di alcuni posti non troppo lontani dalla città di Taiz dove rientreremo in serata. Prima tappa della giornata AT TURBA: un villaggio semiabbandonato e degli atterrazzamenti. Bilancio della trasferta: inutile e faticosa. Lungo la strada ci fermiamo a visitare una bianca moschea: bianco il povero vialetto con degli archetti che sorreggono una conduttura d’acqua, bianche le strutture delle celle, bianche le piscine a cielo aperto per la raccolta dell’acqua, bianco il pavimento battuto e i muri della moschea. Un tocco di colore: le porte in legno intarsiate e gioiosamente dipinte che non ci è concesso oltrepassare. Scendendo dal villaggio, ripassiamo per il piccolo parco, già visitato all’andata, che si articola intorno al BAOBAB più grande di tutto lo Yemen. Adesso c’è tanta gente, ovunque. Scendiamo incuriositi e scopriamo che è in corso un banchetto, al quale prontamente tutto il gruppo viene invitato. Ci sembra di capire che siamo in periodo elettorale (o è da poco passato?) e che il governatore e il capo dell’esercito, in visita a quelle contrade, stanno offrendo ai cittadini il pranzo. C’è tanta gente intorno al baobab, da un camion parcheggiato poco più in là portano giù enormi piatti in terracotta che riempiono di riso alla yemenita (con cannella, spezie e uvetta) e carne di capra cotta: tutto squisito. Si mangia con le mani tra la gente che ci fa largo e che ci offre bibite e frutta. Uno yemenita molto ospitale decide di farci un’attenzione davvero speciale: da un pentolone recupera la testa cotta di una capra, la spacca in due sbattendola sul piatto e, sotto i nostri sguardi inorriditi, pesca a piene mani dal cranio pezzi di cervello che con un sorriso ci offre. Risultato: rapida fuga di tutti gli occidentali che hanno assistito alla scena. A nulla valgono le insistenze, sia verbali che gestuali, dell’improvvisato maestro di cerimonia perché si accetti la succulenta offerta. Gentili davvero, tutti. Un uomo mi fa strada tra la folla per farmi arrivare al cibo. Lo stesso, appena terminato di mangiare, mi indica dove lavarmi le mani e, subito dopo, un ragazzo mi porge un fazzolettino di carta per farmele asciugare. Sono tutti felicissimi di averci lì. Gigio e Antonio, chiamati dai due dignitari, hanno anche rilasciato un’intervista. Che cosa avranno detto? Si sono fatti riprendere e hanno posato per delle foto… il tutto in brache corte e certo non fresche di giornata. Ma la celebrità costa: per intrattenersi con il governatore e il capo dell’esercito sono rimasti a pancia vuota! Antonio ha dimenticato a terra lo zaino che nessuno ha rubato e che, anzi, gli hanno riconsegnato: pare che al popolo yemenita il furto dei beni altrui sia ignoto.

Oggi visiteremo JIBLAH, una piccola cittadina ad alta quota, che raggiungiamo dopo una lunga tappa su e giù da altopiani e montagne con splendidi panorami troppo spesso sospesi in una leggera foschia che ne ruba i colori. La cittadina, immersa nel verde, ci appare subito bella. Sulle sue strade pulite si affacciano alte case solide dalle belle linee. In piazza troviamo ad attenderci Riwa, la nostra guida, una compassata creatura di soli 17 anni che con pacatezza ostenta il suo volto scoperto. Incredibile, una donna yemenita che mostra il viso! Riwa, con tranquillità, ci dice che se una donna vuole andare a volto scoperto e la famiglia è d’accordo nessuno può vietarlo. E lei lo voleva. In realtà non credo che la cosa sia né così facile né che non porti con sé delle conseguenze spiacevoli, anche perché, quando le chiediamo se sta pensando ad un uomo, ad un marito, lei risponde con un no deciso. Non credo che la giovane Riwa abbia una vita facile, penso che per una ragazza che giri a volto scoperto non sia semplice percorrere quelle che sono le tappe che una donna yemenita compie nella sua vita, matrimonio compreso. La nostra intrepida yemenita ci racconta che conosce ben 5 lingue che ha imparato dai turisti con i quali lavora dall’età di 6 anni. Ci racconta queste cose in un chiaro italiano che parla e capisce benissimo. Pare che conosca tutte queste lingue solo oralmente, cioè che non sappia né leggerle né scriverle, ma come si fa a imparare una lingua senza passare attraverso la scrittura e la lettura? In altre parole Riwa è una poliglotta analfabeta! Ci racconta che vorrebbe frequentare l’università a San’à, ma non ha i soldi per farlo. Inoltre, pare che insieme ad un fratello rappresentino l’unico sostentamento di una numerosa famiglia, ma lei spera di poter andare un giorno all’università. “Insciallah” lei dice, e anche noi lo ripetiamo. Ma ritorniamo a Jiblah che, a 2000 metri di quota, dolcemente si srotola lungo dei declivi. La cittadina ha diverse moschee, ne visitiamo una dedicata alla regina Rawa, dove, in un cortile all’aperto, alcuni musulmani sono riuniti in preghiera. Appena al di là ci sono dei bagni con sauna, pubblici, aperti, a giorni alterni, una volta agli uomini, una volta alle donne. Passeggiando lungo le strade notiamo alcune piccole finestre chiuse con lastre di alabastro e un bel minareto non troppo alto, bianco con disegni geometrici color terracotta che l’ornano come dei bracciali infilati lungo il fusto. A Jiblah, proprio in questi giorni, si festeggia la mitica regina Rawa e la cittadina è presa d’assedio sia dalle persone che vogliono assistere ai festeggiamenti, ma anche da militari con i loro mezzi. Nello stadio della cittadina si stanno tenendo delle danze tribali, il pubblico è diviso: da una parte gli uomini e dall’altra le donne rigorosamente in nero, ma con ombrelli colorati che adoperano per ripararsi dal sole. Sulla strada, che costeggia dall’alto lo stadio, un intero drappello di soldati armati quasi tutti baffuti, sempre emaciati, vigilano sull’ordine pubblico. Non c’è, però, tensione nell’aria anche se per noi vedere un tale schieramento di forze, in tal modo armato, crea un po’ di apprensione. Lasciamo la fresca cittadina di Jiblah diretti verso ADEN, il più grande porto dello Yemen, dove qualche anno fa una portaerei americana subì un attentato terrorista che provocò dei morti. Per raggiungerla attraversiamo una lingua di terra sospesa nel mare: acqua alla nostra destra, acqua alla nostra sinistra e anche di fronte, oltre l’abitato. La città è grande e sembra essere operosa: macchine, carrette, gente che lavora, altri che l’attraversano, donne con bimbi al collo che chiedono la carità, uomini ricchi in tunica lunga e bianca, hall di alberghi importanti. Fatichiamo a trovare dove alloggiare, si oscilla tra hotel per ricchi uomini d’affari e stamberghe con bagno in comune nel corridoio. Un po’ fuori, lungo un grande stradone che porta al centro, troviamo dove dormire: sempre la solita hall con divanetti marroni un po’ logori, un televisore e un albero di natale con le lucine accese! C’è un’atmosfera surreale. La città si appoggia a colline vulcaniche marroni e farinose, il pomeriggio è torrido e umido e una fitta nebbia cela le cose: sembra di essere piombati in un girone dantesco. Per andare al mare, a BIR’ALI, ci assegnano una scorta. Abbiamo da poco lasciato la città di Aden, quando ad un posto di blocco fermano il nostro piccolo convoglio e ci fanno accostare. Dopo telefonate, discussioni, fogli sbandierati e letti, altre telefonate e ancora discussioni decidono di assegnarci una macchina della polizia. L’essere scortati crea uno strano stato d’animo che oscilla tra il sentirsi importanti, dal momento che cercano di evitare che ci accada qualcosa di spiacevole, al sentirsi in pericolo, se assegnano una scorta un motivo ci sarà! E allora si inizia a guardare con sospetto assembramenti di uomini lungo la strada, camionette piene di braccianti che vanno o vengono da chissà quale posto e con chissà quale intenzione. Dopo un po’, però, che non accade assolutamente nulla e non si nota alcunché che ci faccia sentire in reale pericolo, ci si tranquillizza e si ricomincia a godersi il paesaggio. Si osservano nuovamente i villaggi e le persone che si incrociano lungo la strada, che a loro volta ci guardano curiosi.

I posti di blocco si succedono a pochi chilometri di distanza l’uno dall’altro. Ad ogni fermata discussioni e cambio della scorta: e così di posto di blocco in posto di blocco, di macchina in camionetta con mitragliatrice, di soldati motorizzati in soldati appiedati saliti direttamente a bordo con noi, siamo arrivati in serata a Bir’Ali. Qui la sabbia è bianchissima e crea un forte contrasto con le nere rocce vulcaniche, sembra di essere immersi in un gelato alla stracciatella: le nere rocce che spuntano sono i frammenti di cioccolata, la bianca sabbia che in parte le ricopre è la panna. E’ bello il colore del mare, va da un azzurro chiarissimo ad un intenso indaco, il cielo è solcato da stormi di uccelli migratori e l’orizzonte è limitato da un’isola piatta, lunga e deserta. Passeremo due notti qui, in capanne sulla spiaggia aperte sul mare. Per dormire un materasso buttato per terra. Divertente il bagno pomeridiano: siamo tornati bambini giocando a tuffarci negli alti cavalloni mentre il Sole, liberatosi delle nuvole, accende i colori del mare. Per la sera è stata programmata una cena sulla spiaggia a base di pesce cucinato sulla brace. Dei due pescioni, enormi, comperati al mattino al mercato uno è andato perso: nelle cucine si sono sbagliati, hanno creduto che uno dei due fosse loro, e lo hanno fatto a pezzetti, marinato, e speziato. Lo hanno reso immangiabile! Le difficoltà continuano: la legna è bagnata, facciamo fatica ad accendere il fuoco e solo l’intervento esperto dei nostri autisti Jaja e Mohamed ci permette di avviare il falò che dovrà produrre la brace per la nostra grigliata. Qualche altra difficoltà nel recupero delle vettovaglie e del vasellame, ma finalmente ci siamo: la cena è pronta. Gigio ha cotto in modo magistrale il pesce che consumiamo seduti intorno a tavoli sotto ombrelloni di fibre naturali. La luna illumina lo splendido panorama che è davanti a noi: sulla sinistra uno scuro promontorio vulcanico, di fronte il mar Arabico, a destra le semplici capanne che ci ospitano e sotto i piedi la bianca sabbia. Andiamo a dormire presto e Salah ferma per la notte il fuoristrada di fronte alla nostra capanna. L’indomani ci svegliamo all’alba e ci regaliamo una lunga passeggiata che ci porta su un basso promontorio vulcanico dove rivediamo gli uccelli che in formazione avevamo visto solcare l’orizzonte: sono a mollo in acqua come papere, forse si stanno riposando prima di riprendere il volo per chissà quale meta. Ogni tanto la quiete di queste centinaia di uccelli viene interrotta da gozzi che, solcando le acque nelle loro vicinanze, spaventandoli li fanno alzare in volo. Che nottata: a tratti un forte vento ha fatto sbattere cose, le tante mosche si sono alzate ancora prima dell’alba, ed un granchio ha trovato interessante il mio piede facendomi svegliare di soprassalto in piena notte. Poco dopo l’alba, disperatamente sveglia, ho trascinato il materasso fuori la capanna e sulla spiaggia, a due passi dal mare, mi sono sdraiata. E’ deciso, stamane andremo alla ricerca di delfini. Una lungo gozzo ci viene a prendere, rozzi e ricci i tre pescatori che ci accompagnano. Viene con noi anche la donna etiope dagli alti zigomi e dalla lucente pelle nera che al mattino, durante la colazione, ha cercato di venderci conchiglie e coralli, inutilmente. Abbiamo, però, diviso con lei, , la nostra colazione offrendole, tra le varie cose, delle uova. Ne ha mangiato ben quattro, una dopo l’altra. L’etiope è l’unica che sbarca sulla piatta isola di fronte alla spiaggia di Bir’Ali. E’ qui che, evidentemente, si procura le sue mercanzie. Ma ecco i delfini, nuotano tra la riva e l’isola mostrandoci il lucido dorso inarcato quando, giocando, s’inabissano.

Abbiamo lasciato Bir’Ali e la strada che ci condurrà ad AL MUKALLAH ci regala degli scorci di una bellezza mozzafiato. Alte dune di sabbia colorano d’oro il mondo che scorre fuori dal finestrino. Mare e ancora mare sulla nostra destra che a volte s’insinua tra alte baie rocciose, altre volte tra morbide dune di sabbia che lo accolgono. E ancora spianate e picchi bruni di chiara origine vulcanica. Lo spettacolo che scorre davanti è sempre diverso e ogni volta è tale che riempie gli occhi e la mente mentre in macchina, a squarciagola, cantiamo la canzone di Jovanotti che recita “o signore dei viaggiatori…” Siamo ad AL MUKALLAH, cittadina sull’oceano Indiano che ci appare un po’ meno sporca e più accogliente della maggior parte delle città o dei villaggi finora visitati: il sud del mondo è sempre più bello! Alcune case di chiaro stile coloniale rivelano il passato di ex protettorato britannico di questo territorio. Molte sono le bianche moschee, accompagnate da alti minareti illuminati da luci colorate. Sbirciando dall’esterno, neanche qui c’è dato d’entrare, si vedono penzolare dagli alti soffitti file e file di ventilatori. Dopo cena, durante una bella passeggiata sull’alto lungomare, scopriamo il passatempo serale degli uomini: sono qui all’aria aperta, seduti o su un tappeto, a leggere il giornale e a commentare le notizie del giorno, o intorno ad un tavolo a giocare. Alcuni giocano a carte, altri al domino, altri ancora ad uno strano biliardo in miniatura dove le palle sono sostituite da piatte pedine che spingono con le dita. Bella è l’atmosfera, piacevole è la brezza e il rumore delle onde dell’oceano che fragorosamente s’infrangono sotto di noi. Ma le donne dove sono? Il paesaggio è completamente cambiato: stiamo attraversando una zona desertica con altopiani, canyon e montagne levigate e rese dolci dagli agenti atmosferici. Chissà che dietro l’angolo non spunti Willy il Coyote! Pochi sono i villaggi che incontriamo, poche le case che li popolano. Le distese sono senza confini, ampia la visuale che lascia i pensieri liberi di viaggiare… anche loro.

Stiamo attraversando l’HADRAMAUT e siamo diretti verso il WADI DAW’N. Qui il fiume nei secoli si è scavato un profondo letto, giù in basso, provocando un’ampia spaccatura tra queste montagne. Al momento del fiume in secca non c’è alcuna traccia e i paesini che sorgono sulle sue sponde sono molto ben tenuti e graziosi. Alcuni hanno tutte le case dipinte a colori vivaci, altri hanno grandi decori floreali e multicolori sulle pareti, tutti sono in ottimo stato. A pranzo ci fermiamo in un locale molto pulito che dà direttamente sulla strada, un sano yogurth sarà il nostro pranzo, un po’ di riso senza pollo fritto per Salah che sta male con la pancia. Ci concediamo una passeggiata sotto un Sole infuocato, belle le massicce porte in legno dell’Hadramaut ornate con grandi borchie, ancora decorazioni floreali sulle pareti e fontanelle pubbliche con acqua refrigerata. Sì, in questi villaggi, che si dice siano finanziati dalla famiglia dei Laden, l’acqua che scorre dalle fontane pubbliche è refrigerata da un sistema ospitato in chioschetti, c’è un rubinetto per l’acqua fredda e uno per l’acqua a temperatura ambiente, ossia caldissima.

Nell’ultimo villaggio visitato, quello di AL HAJJRAIN, è accaduto uno spiacevole episodio: una torma di ragazzini e ragazzine di strada ci hanno lanciato sassi, sputato addosso, mostrato il culo. Siamo stati costretti ad una ritirata rapida e poco dignitosa lungo una stradina in discesa guidati, per fortuna, da un giovanotto del luogo. Giù da basso abbiamo trovato il capogruppo, una compagna di viaggio e le nostre guide che, tranquillamente, facevano chiacchiere. E su di loro abbiamo sfogato la nostra rabbia, la nostra frustrazione per l’attacco subito e perché non abbiamo saputo evitare che la cosa accadesse e che, forse, qualche nostro atteggiamento ha provocato.

Siamo a SEYUN. In questa cittadina dell’Hadrawat, percorsa un tempo da carovane di cammelli che trasportavano incenso, passeremo tre giorni. Fatichiamo non poco a trovare l’albergo, quello consigliato dalle relazioni ha una piscina di quelle che piacciono a me: un po’ demodé, immersa in un giardino un po’ trascurato, non proprio tirata a lucido; ma le stanze sono buie, brutte, vecchie e puzzolenti. A fatica, Martina non è d’accordo, decidiamo di andar via e finiamo in un albergo, stavolta per ricconi, con prezzi esorbitanti ed una piscina molto chic che proprio non mi dice niente. Decidiamo che nemmeno questo fa al caso nostro e visitiamo ancora un altro albergo, in città, anonimo. Ormai si è fatta notte, stanchi e un po’ sfiduciati andiamo a vederne ancora un altro, in periferia. Nel cercare la piscina perdo gli altri, mi smarrisco in un dedalo di corridoi e ritrovo la commissione camere nel pieno delle attività, mentre sta visionando una stanza. Questo grande albergo ha camere ampie e accoglienti ed una bella piscina. La serata, prima di cena, la passiamo a mollo, lungo la stradina che porta alla piscina belle ranocchiette ed alcuni micini.

Oggi, primo giorno nel wadi Daw’n, è venerdì ed è tutto chiuso. Cambiamo il nostro programma e ci dirigiamo verso TARIM dove visitiamo il palazzo di Al Raf. Dalla guida leggiamo che questo palazzotto giallo-ocra è appartenuto ad un uomo d’affari che dopo aver girato il mondo si è ritirato a vita privata qui, dove ha fatto costruire la sua dimora mettendo assieme stili, colori, architetture che aveva incontrato nei suoi molteplici viaggi. Ai miei occhi profani, la casa sembra in puro stile yemenita realizzata com’è in fango e paglia, con scuri intarsiati, vetri colorati alle finestre e stanze con colonne centrali. Terminata la visita del palazzo, per strada, comperiamo alcune pistole ad acqua scatenando, nella calma del venerdì di preghiera, una guerra fratricida che coinvolge, però, anche alcuni divertiti yemeniti, bambini e non. Un vecchietto, con il capo coperto da uno zuccotto, si avvicina per chiedermi di che nazionalità siamo e, saputo che siamo tutti italiani, ci tiene a dirmi, ripetendolo più volte, che ciò che gli americani stanno facendo “non è una cosa buona!”.

Oggi visita al palazzo bianco che è sulla copertina della Lonely, dimora dell’imam di SAY’UN. Il palazzo, nel suo totale biancore, è accecante. Visitiamo al suo interno un museo che in poche stanze mostra reperti neolitici, strumenti, armi fino a giungere a stoviglie risalenti a pochi decenni fa. Alcune stanze sono dedicate a delle nostalgiche foto in bianco e nero di una viaggiatrice che nei primi anni del novecento percorse queste rotte. Passeremo un giorno nel deserto. Riempiamo piccoli zaini col necessario per un giorno e una notte, lasciando le valigie sul pick-up che non verrà con noi. Ci ridistribuiamo, quindi, sui due fuoristrada di Jaja e Salah e partiamo alla volta del deserto. Ad ora di pranzo facciamo sosta in una sorta di autogrill yemenita: un ampio porticato, aperto sul deserto pietroso, con povere stuoie che ricoprono il pavimento in cemento. In questo posto, nei classici tegami di coccio che si trovano ovunque nello Yemen, ci servono la miglior zuppa che io abbia, ad ora, mangiato. Carne trita, verdure, una stracciatella di uova e una crema di grano gli ingredienti di questo piatto unico. Salah è andato a pregare ed io seduta su di una stuoia sono rimasta a guardare il mondo che si muove attorno a me. Donne, uomini e bambini scendono da alcuni autobus, rari a vedersi qui nello Yemen. Le donne spariscono subito dopo, loro non possono mangiare in pubblico e ancor meno all’aperto e vengono inghiottite da una stanza chiusa, al riparo da sguardi indiscreti. Io rimango all’aperto, continuo a guardare cosa accade intorno a me e vengo osservata con curiosità mista a stupore dai bambini, più spontanei degli adulti, uno di loro mi osserva a bocca aperta. Salah ha terminato la preghiera, è bagnato e ha il solo doti che lo ricopre: le abluzioni rituali prima della preghiera. Abbiamo recuperato il beduino che ci farà da guida nel deserto: un tipo losco, un omaccione grosso e ricciuto che non mi piace. Ci spostiamo a lungo in questo deserto, pietroso e sabbioso al tempo stesso, lungo una pista che solo la guida riesce a leggere. Guida che si sposta con il suo pick – up sul quale è salita Martina che, ad una sosta, si lamenta delle mani lunghe del tipo che le tiene la mano, le accarezza il braccio! Altri chilometri ed ecco apparire alte dune sabbiose dalle quali ci buttiamo giù più volte in un gioco pericoloso che mi fa paura. Gigio dice che la pendenza è superiore a 45°. Riprendiamo la folle corsa verso l’accampamento beduino. Eccolo: alcune bianche yurte, dei dromedari e poco altro arredano questo angolo di mondo. Una donna anziana con un lungo abito nero, alti zigomi e kajal nero che le cerchia gli occhi ci accoglie sorridendo. Ci mostra le tende che ci ospiteranno per la notte: semplici stuoie a mo’ di pavimento, duri cuscini ne percorrono il perimetro, niente mobili dipinti o stufe-cucine come si vede nei documentari ambientati forse in posti troppo lontani da qui. Ci avviciniamo ai dromedari mentre la donna dà loro da mangiare, è contenta del nostro interesse per i suoi animali, mi ricorda mia nonna con le sue piante, i suoi animali da cortile, i suoi merli. Scende la notte in questo silenzio, si cena attorno al fuoco acceso, alto, forte. Consumiamo una cena frugale a base di pomodori e tonno in scatola, è Gigio a prepararla. Si va presto a dormire, un po’ di chiacchiere e cominciamo a stenderci attorno al fuoco. Tira un forte vento, la sabbia è dura: impossibile dormire. La notte passa tra una chiacchiera, una risata, una lamentela e un certo numero di sigarette che fumo in tenda con Antonio e il Bolzanino. Il vento è sempre più forte, vado a svegliare Gigio, che è ancora fuori, prima che venga completamente ricoperto dalla sabbia e lo porto in tenda. Che notte, passa quasi tutta completamente in bianco. Al mattino siamo tutti arruffati, polverosi, assonnati. La stessa donna della sera prima ci porta una teiera e dei bicchieri: sono talmente frastornata che a Salah, che vuole versarmi del tè, porgo il bicchiere capovolto.

Siamo tornati a Sana’à nello stesso albergo che ci ha accolto al nostro arrivo in terra yemenita, la stessa stanza ci ospita. Stavolta ne apprezziamo la pulizia. Per ripagarci della polverosa giornata passata nel deserto, per non parlare della nottata, abbiamo deciso di concederci un bagno turco, nella città vecchia, durante il quale già sappiamo che saremo separati: gli uomini da una parte, le donne da un’altra. Nello Yemen i bagni pubblici sono aperti o alle sole donne, che possono portare con sé i bambini, o ai soli uomini, che possono essere accompagnati da bambini sì ma solo maschi, o ancora, a giorni alterni, una volta dedicati alle donne quella successiva agli uomini. I nostri uomini trovano quasi subito un bagno turco che li soddisfa vicino al famoso albergo “Old Sana’à”, per noi donne la ricerca è più lunga, ma non infruttuosa. Ad un antico e fatiscente bagno ci accompagnano due giovani yemeniti. Percorriamo scale buie che ci portano a dei locali sotto il livello della strada. Incrociamo due donne con bambino che, salendo le scale, portano una valigia sulla testa: sono delle viaggiatrici che hanno fatto una sosta per rinfrescarsi o delle donne che vengono al bagno perché a casa loro non hanno la possibilità di lavarsi? Chissà. All’interno di questo posto umido e grigio, per qualcuna di noi puzza di urina, altre dicono che è zolfo, troviamo una bimbetta ad accoglierci. Con lei ci capiamo a gesti, è svelta e determinata: ci dice di spogliarci, di poggiare i panni in una sorta di armadietto fatiscente e ci porge dei teli che annodiamo appena sopra il seno. Sempre lei ci fa spostare dal tepidarium al calidarium, una sala appena più calda. Ci fa segno di lavarci, porgendoci un guanto a maglie larghe dentro il quale infila una piccola saponetta, di bagnarci, versandoci addosso dell’acqua da lattine, e di strofinarci con delle pietre che ci indica. Questo non è il bagno turco al quale va il nostro pensiero di occidentali, non è il luogo dove ci si concede un pomeriggio di lusso, ma è un posto indispensabile alla comunità, alla gente che in casa non ha possibilità di lavarsi. Al termine di questo auto-trattamento di bellezza, usciamo bagnate e andiamo a rifugiarci all’Old Sana’à: il pensiero di una tazza calda di tè già ci riscalda. Ci arrampichiamo su per gli alti gradini che conducono alla sala, quella destinata al consumo del qat. Posizionata all’ultimo piano di questo palazzo storico, la sala si apre sulla vecchia Sana’à, sulle sue alte case, sugli svettanti minareti, sulle luci accese in questa fresca serata. E’ piacevole sdraiarsi sui divani accoglienti, sorseggiare il tè, chiacchierare e godersi la vista della città vecchia in versione notturna.

Quando scendiamo troviamo la piazza ai piedi dell’albergo illuminata a festa da file di lampadine ad incandescenza: in un palazzotto accanto all’Old Sana’à si sta celebrando un matrimonio. Decido di infilarmi nell’edificio trascinando con me la milanese, Gigio e gli altri uomini rimangono giù da basso. Ci arrampichiamo su scale lungo le quali incontriamo degli uomini che ci guardano, ma non ci dicono niente e nemmeno cercano di fermarci. Bambini e donne velate scendono. Ancora scale, un ragazzino urla qualcosa verso l’alto, è come se stesse avvertendo chissà chi del nostro arrivo. Finalmente arriviamo, una stanza spoglia si apre davanti a noi, unico arredo un vecchio armadio a due ante. Quante donne, alcune velate. Ci sono anche dei maschi, ma sono solo dei bambini. Grandi sorrisi illuminano il volto di tutte le presenti, ma non c’è modo di comunicare. Ci fanno entrare nella stanza da letto dei due sposi, ci aprono la porta e scorgiamo dall’altra parte dell’uscio i due in piedi accanto al letto, imbarazzati. Lei bella, castana con i capelli raccolti, gli zigomi alti e un vestito scollato di pizzo; lui brutto, in uniforme, troppo giovane, paonazzo in viso, tanto timido. Rimaniamo ancora per un po’ a questa festa di matrimonio, ci fanno accomodare in un’altra stanza arredata con tappeti e cuscini sul pavimento. Alcune donne siedono per terra in modo affatto femminile, per niente aggraziato: non sono belle, non sono sensuali queste donne yemenite che finalmente riusciamo a vedere in viso. Non c’è niente da mangiare né da bere, non è ben chiaro in cosa consista la festa di matrimonio. Mi sembra di aver capito che dura più giorni e che ha un rituale complesso, ma sono già contenta di aver assistito, anche senza capir nulla, a questo pezzetto della loro festa privata. Per tornare in albergo prendiamo un taxi, troviamo Salah che ci attende nella hall, dice che ha aspettato il nostro rientro perché è tranquillo solo quando tutti i componenti del suo gruppo sono rientrati.

Siamo a THULA, bella e pulita questa cittadina, con tanti negozietti pieni di mercanzie. Hanno porte spalancate e traboccano di tappeti, collane, copricapo ed i negozianti, tutti sull’uscio, invitano le turiste ad entrare chiamandole “signora magra, prego”. Giriamo per un po’ accompagnati da una guida locale che al termine del giro ci invita a salire a casa sua. Che piacere! Cosa c’è di meglio di un invito a prendere un tè in una casa privata yemenita? Ci conduce a casa sua dove, al di là di un portone, si apre un piccolo giardino con un cane alla catena che abbaia festoso. Ci inerpichiamo lungo una scala irta e stretta. Lasciamo le nostre scarpe sulle scale e attraversiamo un paio di stanze spoglie prima di accomodarci nel mafrai. Le ampie finestre che si aprono sulla campagna circostante fanno da cornice ad alti alberi frondosi. Per terra tappeti, sui lati cuscini. Il padrone di casa ci porta da mangiare il buonissimo pane yemenita e della zuppa che io non mangio, perché ho problemi con la pancia, ma che gli altri dicono essere buonissima. Chiacchiere in libertà rendono ancora più piacevole questa inaspettata pausa pranzo. Ma ci aspettano e malvolentieri ci alziamo per congedarci dalla nostra guida che, con fierezza, accetta solo i soldi pattuiti per il giro turistico.

Scendiamo a piedi da un paesino chiamato KAWBADAN. Quando vi arriviamo una pioggia fitta ci impedisce quasi di scendere dalle macchine, ma poi il tempo ci regala un pomeriggio con raggi di Sole che colorano di giallo – arancio i begli edifici in pietra. Per raggiungere il nostro funduk, che è giù nella valle, ci caliamo da un sentiero che si snoda lungo una profonda spaccatura di questa variopinta roccia di arenaria. All’arrivo al funduk alziamo gli occhi verso l’alto per ripercorrere con lo sguardo la strada fatta che, vista da qui, sembra tanta e ritroviamo il paese, dal quale siamo scesi, arroccato molto in alto, lassù. Le tappe, i giorni, i villaggi si susseguono senza soluzione di continuità. Le ore, gli avvenimenti, tutto si è accavallato in questa parte finale del viaggio. Di villaggi ne abbiamo visitati tanti, tutti belli. Shibam, attawila, al hajjarah, manara. Ho da un po’ di giorni problemi con la pancia, non posso mangiare ciò che cucina il ristorante dove ci siamo fermati a cena stasera. Salah mi procura, con non poche difficoltà, del pollo arrosto. Saprò solo in seguito che per girarlo nel forno si è procurato una scottatura sul dorso di una mano. Bella la passeggiata in montagna che si conclude ad AL HAJJARAH. Salah ci accompagna, Salah ci viene a prendere. Qua e là la passeggiata mostra delle difficoltà, ma i paesaggi, gli atterrazzamenti, i villaggi isolati, i prati, le sorgenti ci ripagano delle fatiche e di qualche passaggio un po’ pericoloso. Lucia se ne lamenta, ma al termine della camminata siamo tutti soddisfatti. Nel funduk che ci ospita hanno organizzato, per animare la serata, musiche e balli tipici. Vengo coinvolta nelle danze dal padrone dell’albergo e da Salah, che mi alzano di peso dai cuscini dai quali assistevo alle danze. E’ difficile per me ballare: sono stanca e i passi cambiano in continuazione. Il padrone dell’albergo è un piacevole partner, la musica e i passi sono accattivanti, ma appena mi è possibile imbarazzata mi allontano dalla sala. L’ultimo giorno lo passiamo a Sana’à. Ci perdiamo tra gli alti palazzi ornati di bianchi merletti. Ci guardiamo attorno e veniamo guardati dalla gente: mi sento un notabile accolto al suono di “welcome to Yemen”. Sana’à vecchia sembra non avere mai fine, si susseguono uno dopo l’altro i tipici alti palazzi yemeniti, passeggiamo per ore e sempre altre strade si aprono, nuovi palazzi si mostrano, moschee dagli alti minareti ci sbarrano il passo. Come è difficile salutare tutti quelli che abbiamo conosciuto durante il viaggio, difficile dire addio allo Yemen che so, quasi sicuramente, di non rivedere più. Salah mi dice che la cicatrice che ha sul dorso della mano lo aiuterà a non dimenticarsi di me. E’ un lutto, una separazione a tratti fin troppo faticosa, anche perché gli addii e i rincontri si susseguono più volte, troppe volte.

INSCIALLAH, Yemen. Rossella



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