In Mongolia per l’Eagle Festival
Un viaggio fuori dal tempo nelle praterie infinite della Mongolia, fra panorami primordiali e mandrie di cavalli, cammelli, yak e pecore che pascolano in completa libertà. Nel silenzio assoluto della steppa si possono passare giorni interi senza incontrare anima viva. Si tratta di una delle mete più inesplorate del turismo.
Da tempo pensavo di visitare questo Paese… la vasta Mongolia.
Ho scelto questo periodo, anche se un po’ freddino per i miei gusti, solo per poter assistere alla festa delle aquile sui monti Altai. Il Festival si svolge il primo fine settimana di ottobre: ancora poco turistico, è un tuffo nel passato. Dall’Italia arriviamo a Ulaanbaatar via Istambul con un volo che c’è solo da qualche mese con Turkish-Air. Dopo circa 5 ore di volo facciamo scalo a Bishkek nel Kirghizistan, 1 ora di sosta, e poi altre 4 ore per arrivare nella capitale più fredda al mondo, Ulan Bator o UB (così chiamata da tutti ), 1350 m sul livello del mare e 2° città più inquinata al mondo, le ciminiere si sono sostituite agli oltre cento templi distrutti all’inizio del secolo, quelli che sono rimasti sono considerati musei. Il nome UB le è stato attribuito dal 1924 e significa “Eroe Rosso”. Qui visitiamo il Museo di Storia Naturale, Museo di Belle Arti Zanabazar e la piazza Sukhbaatar dove è posizionata la statua di Gengis Khan con alle spalle il Parlamento. E’ una bella giornata di sole, un po’ ventosa… il vento ci accompagnerà per tutta la durata della vacanza.
Vedo l’ora di “scappare” da questa capitale piena di contasti quasi surreali fra il vecchio ed il nuovo, da farla sembrare una città russa di provincia distesa in un’infinita vallata tibetana, per rincorrere il mio sogno di Mongolia di distese senza orizzonti.
Appena fuori da UB si ha l’impressione di essere stati catapultati in un altro secolo. Pochi minuti di Uaz (i famosi camioncini russi), ed arriviamo al Gandan Khiid (monasteri), oltre a essere una delle principali attrattive turistiche, questo monastero, tra i più importanti del Paese è cuore pulsante del buddismo tibetano in Mongolia, dove passato, presente e futuro della Mongolia convivono in suggestiva armonia. Il tempio principale apre alle 9, ed al mattino è pieno di monaci che vanno a pregare… si riparte, e dopo un’ora di Uaz, abbandoniamo l’asfalto ed iniziano le distese ed il nulla. Dopo un paio d’ore incontriamo lungo la pista una decina di gher, alcune delle quali fungono da ristorantino e ci fermiamo per la sosta pranzo. Primo contatto con il cibo locale e soprattutto con i sapori forti e l’igiene che lascia un po’ a desiderare. Bisogna girare pagina quando si arriva in Mongolia: dimenticare i frenetici tempi occidentali, le corse, la nostra alimentazione, la doccia calda e… bisogna sapersi adattare molto.
Ripartiamo e il prossimo incontro ce l’abbiamo con i cammelli Battriani, 2 gobbe, i mongoli li usano per i loro spostamenti soprattutto verso il Gobi.
La sera campeggiamo al Middle Gobi camp a 1380 mt, la mia prima notte in una gher, …sono emozionata!
La gher, la casa bianca dei mongoli, vero capolavoro di design nordico, circolare per deviare i venti, 20mq che contengono l’universo. All’interno: profumi, colori, predominante l’arancio, antichi riti, feticci, al centro la stufa di ghisa, ai lati i letti ( a sx verso ovest uomini ed ospiti, protetti dalla grande divinità celeste Tengger, a dx verso est letto coniugale e donne, protette dal sole), sgabelli, tavolo, credenze, un piccolo altare non manca mai, spesso anche un televisore e una radio. La porta (khalga) posizionata sempre a sud, quasi mai chiusa, attenti a non inciampare o calpestare lo stipite (bosgot). Le pareti esterne si ammantano di feltro (esgi) e pelli impermeabili come a terra con aggiunta di tappeti. Costruita con materiali locali, assicura isolamento termico, ventilazione ed impatto minimo sull’ambiente naturale.
La prima tappa di oggi è Erdenedalai, ci fermiamo per visitare l’antico monastero di Gimpli Darjaalan Khiid, lungo la strada si incontrano diversi ovoo, sono dei cumuli di pietre o legni di forma piramidale a cui vengono appesi teschi di animali e drappi di seta blu di chiara provenienza sciamanica (il blu è il colore di Tengger, lo spirito del cielo). Passiamo per Bayanzag, diventata famosa perché sono state ritrovate ossa e uova di dinosauro ed arriviamo a Red Cliff per vedere il tramonto e campeggiare.
Questa mattina ci regaliamo una bella passeggiata a circa 2300 mt nella Yolyn Am (la bocca dell’avvoltoio), una gola che spezza il deserto dei Gobi e da inizio ad un paesaggio bellissimo quanto insolito per i suggestivi dirupi rocciosi e i canyon stretti e oscuri. I pika, piccole creature simili a topi la abitano indisturbati convivendo con il ghiaccio che per quasi tutto l’anno ricopre il canyon. Qui c’è la possibilità di affittare anche dei cavalli, riprendiamo i mezzi per attraversare la Dugany Am, una gola molto stretta e spettacolare, dove le Uaz passano a filo. Notte allo Juulchin Gobi 2 a 1400 mt.
Questa mattina facciamo la salita ad una duna delle Khongorin Els o Duut Mankhan (dune che cantano), sono alte fino a 300 mt, larghe 12 km e lunghe circa 120 km. Saliamo al ritmo di 1 passo avanti e 2 indietro, saliamo la cresta fino alla cima… è stata dura… ma che meraviglia la vista da quassù, ne è valsa veramente la pena.
A Onglin Khild visitiamo i resti di 2 monasteri e la notte siamo al Saikhan Gobi camp.
Questa mattina la temperatura è davvero bassa… poca voglia di uscire dal sacco a pelo, ma bisogna, c’è un’altra giornata piena di cose da vedere ed emozioni da provare. Questa emozione ce la potevano anche risparmiare, nell’unica pozza di tutta la Mongolia una Uaz la centra in pieno e rimaniamo bloccati circa 3 ore. Nel pomeriggio visitiamo il primo monastero buddista della Mongolia: Erdene Zuu (Cento Tesori), sorto dalle ceneri dell’antica capitale imperiale scomparsa, ma mai dimenticata, Karakorum, costruita per volere di Ogodei, figlio di Gengis Khan e rasa al suolo nel 1382. Il monastero è situato all’interno di un immenso complesso murato di 108 candidi stupa (per i buddisti 108 è un numero sacro), disposti a intervalli regolari. I tre templi del complesso che sopravvissero alle distruzioni degli anni ’30 sono dedicati alle 3 fasi della vita del Buddha: infanzia, adolescenza ed età adulta. All’esterno delle mura del monastero si trovano 2 tartarughe di pietra, una volta erano 4 e segnavano i confini dell’antica Karakorum e fungevano da protettrici della città (le tartarughe sono considerate un simbolo di eternità). Il sole è ormai tramontato, notte all’Anar camp.
Durante la notte la temperatura scende ancora di qualche grado… chi me l’ha fatto fare… Oggi ci regaliamo una bella passeggiata alla cascata di Orkhon , finalmente c’è poco vento e si sta bene poi saliamo di nuovo nelle ns Uaz per arrivare fino al monastero di Tovkhonin. Nascosto tra le montagne del Kangai, questo monastero è incredibilmente scenografico è diventato meta di pellegrinaggi mongoli provenienti da ogni parte del paese. La salita è un po’ impegnativa attraverso boschi di larici dai colori autunnali ed il sentiero è un po’ imbiancato da neve fresca. Che dire…., peccato che abbiamo poco tempo per sostare in cima, la vista sulla valle a 360° è stupefacente. Notte al Tsenkhr camp. Ottima la cena ed un’altra cosa molta apprezzata di questo campo è la piscina termale, deliziosa.
Al mattino dopo la piscina termale: un incanto, non ci si riusciva a rimanere sott’acqua, dall’acqua troppo calda, partenza per Tsetserleg. Qui visitiamo uno dei più interessanti musei dell’ aimag (provincia) ed il monastero , posto su una collina. La notte campeggiamo al Taikhar camp. Vicino c’è la formazione rocciosa di Taikhar Chuluu, intorno alla quale ruotano diverse leggende locali illustrate dalla nostra eccellente guida mongola Sanjaa.
….brrrrr, 4° nella gher questa mattina. Prima di partire dal campo ci danno una benedizione a noi ed alle Uaz con latte di yak. Partiamo, lungo la pista vediamo un gruppo di gher e ci facciamo fermare per vedere la mungitura e lavorazione del latte. Loro più sorpresi di noi ci lasciano curiosare anche all’interno delle loro case, i bimbi hanno le guance color mattone bruciate dal sole e dal vento. I mongoli sono una popolazione molto ospitale, che sopravvive ai secoli con uno stile di vita essenziale, orgogliosa, una vita cadenzata dai ritmi della natura, amica e spietata insieme. Ti offrono tutto quello che hanno. Io non ho avuto il coraggio di assaggiare l’airag, la loro bevanda tradizionale fatta con il latte di giumenta fermentato, leggermente alcolico, un po’ acido con sapore di latte cagliato, l’odore è nauseabondo, esperienza che il vostro stomaco non dimenticherà. Ho provato l’aarul, la cagliata di latte essiccata, tanto dura quanto insipida.
All’esterno delle gher, ci sono dei pannelli solari e una parabolica. Volenti o nolenti, anche i nomadi entrano nella modernità. Il programma del governo mongolo “un miliardo di luci per i nomadi”, ha permesso a molti di essi d’ acquistare a prezzo abbordabile, un piccolo pannello fotovoltaico che produce l’energia per alimentare una lampadina che illumina la gher ed è sufficiente anche per alimentare un televisore. Sorprendentemente, i nomadi mongoli sono molto informati, quasi tutte le famiglie dispongono di una radio a onde corte per avere accesso ad informazioni interne ed internazionali. La densità della popolazione è la più bassa dell’intero pianeta: meno di 2 persone per km quadrato, eppure la ricchezza delle sue genti è straordinaria. Il 98% della popolazione è alfabetizzato.
Mi piace il ritmo di questo viaggio.
Ripartiamo e la nostra prossima sosta la facciamo alle gole di Chuluut, poi saliamo a un vulcano e facciamo il giro della bocca del vulcano. Il silenzio qui in Mongolia è rotto solo dal vento. …madre mia quanto vento quassù. Il più bel tramonto c’è stato stasera, complice le nuvole ed i riflessi nel lago.
Al mattino la temperatura nella gher è scesa ancora, 3° prima di accendere la stufa. Quasi tutte le mattine una persona del campo ci veniva ad accendere la stufa con cartone, piccoli legni e soprattutto sterco di animale essiccato. Vivendo queste scene, mi sembrava di essere dentro ad una fiaba. Oggi bighelloniamo nei d’intorni del Teukhiin tsagaan nuur (lago bianco), moltissimi yak pascolano indisturbati, un uomo a cavallo si avvicina con in mano la urga (una specie di lazzo collegato ad un lungo bastone), controlla che vada tutto bene, raccoglie delle cacche secche e se le mette dentro al del (specie di cappotto, loro abito tradizionale), gli serviranno nel caso in cui qualche yak decida di scappare dalla mandria per riportarlo con il gruppo.
Al campo arriva una capra che verrà uccisa ed eviscerata alla maniera mongola. Con un cannello a gas bruciano il pelo, la pelle deve rimanere intatta per poter essere cotta tra i sassi e le braci. A noi invece l’hanno preparata: tagliata a pezzi, messa in una grande pentola a pressione con verdure, poca acqua, intervallate da sassi prima messi ad arroventare nella stufa. Ottima, era pronta per cena.
I giorni passano velocemente attraverso paesaggi incredibili, e pensare che prima di partire qualcuno mi ha detto: cosa vai a fare in Mongolia che non c’è niente? Io in questo momento ho bisogno del niente, del silenzio, del mio sguardo che si perda nell’immensità di questi paesaggi stupefacenti, orizzonti e vallate sembrano non avere mai fine ed il loro silenzio è spezzato solo dall’implacabile vento.
Alla sera nel nostro albergo di Khovd veniamo coccolati con uno spettacolo di musiche e canti tradizionali allestito per noi. Per la prima volta, almeno per me lo è stato, ho avuto modo si ascoltare il loro canto di gola (khoomii), nato come mezzo per comunicare a distanza tra i soldati di Gengis Khan, che imitava versi di animali e suoni della natura. E’ incredibile che cosa sanno fare con le corde vocali. Questi canti erano accompagnati da musicisti che suonavano il morin khuur, il singolare violino a sagoma squadrata, dal riccio a forma di testa di cavallo (i mongoli ritengono che averne uno a casa porti fortuna alla famiglia). E’ un bel oggetto d’arte decorativa. Arriviamo a Olgii, la cittadina sui monti Altai a mt 1700 dove si svolgerà il festival. La gara si svolge a Sayat Tube (collina del cacciatore). Il tutto è molto “ruspante” e per questo l’ho trovato ancora autentico.
La caccia con le aquile è una tradizione kazaka che risale a circa 2000 anni fa. Le aquile che vengono utilizzate sono quasi sempre femmine, perché pesano circa un terzo più dei maschi e sono molto più aggressive. I giovani volatili, vengono catturati, domati ed addestrati a catturare marmotte, lupi e volpi ed a portare la preda al cacciatore, che la finisce con un colpo. Parte della carne poi viene data alle aquile come ricompensa. Ogni cacciatore indossa un guanto molto spesso di feltro, che arriva fino al gomito, e serve per difendersi dagli enormi artigli dell’aquila. Dei lacci legati attorno alle zampe, tengono salde le aquile al braccio del cacciatore, esse indossano un cappuccio che impedisce loro di vedere, in questo modo non vengono disturbati da ciò che accade tutto intorno. Il cappuccio le viene tolto solo al momento della caccia.
Le aquile sono degli animali stupendi, enormi, pesano circa 15 kg, alte circa 70 cm con un’apertura alare di oltre 2 m.
I concorrenti-cacciatori si iscrivono. Si inizia con la sfilata dei partecipanti assieme alle loro aquile e poi inizia la prima gara. L’aquila viene portata a metà collina, le viene tolto il cappuccio che le copre il capo e lanciata verso il suo proprietario che, correndo a cavallo nel campo di gara, la chiama. L’aquila deve posarsi sul suo braccio mentre questi continua a cavalcare. Il pubblico incoraggia i propri beniamini. Oggi le gare finiscono prima del previsto ed alla sera andiamo nel teatro nazionale di Olgii per assistere ad uno spettacolo molto bello di danze e musica kazaka e mongola.
Nella seconda e ultima giornata del festival le aquile vengono portate dai propri cavalieri sopra la collina. Da qui, si domina il campo di gara dove un cavaliere a cavallo traina una pelle di volpe attaccata ad una corda. Quando il cavaliere parte al galoppo il proprietario indica alla sua aquila la preda e la lascia libera. L’aquila deve lanciarsi sulla pelle ed artigliarla. Nell’intervallo giriamo per la valle dove hanno allestito delle cucine da campo e ci sono dei rivenditori di souvenir. Nel pomeriggio la gara di kokbar ad eliminazione diretta, consiste nel contendersi una pelle di volpe fra due cacciatori a cavallo, una sorte di tiro alla fune, vince chi strappa la pelle dalle mani dell’avversario. Ultima gara la tenge il, consiste nel raccogliere un sasso gettato per terra a mani nude, rivestito di stoffa rossa sempre in groppa al cavallo.
Alla fine della manifestazione a tutti i concorrenti viene dato un premio in denaro. Per concludere la festa, viene liberato una piccola volpe che funge da esca per le 3 migliori aquile, e… viene catturata.
Partiamo da Ulgii per Khovd , percorriamo a ritroso la stessa strada fatta all’andata, attraversiamo delle cime appena imbiancate, il paesaggio è lunare. Notte in hotel.
Oggi la nostra meta è Dorgon nuur (lago) e notte in tenda. La strada da Khovd fino al lago è sorprendentemente magnifica. …. la Mongolia non ha ancora finito di sorprendermi. Il lago è di un piatto unico e da pace e serenità. Ci siamo solo noi con le nostre tendine e nessun locale… peccato! Il tramonto è qualcosa di… indescrivibile, da sogno!
Non ho ancora detto della notte stellata della Mongolia. Io questo cielo l’ho visto solo nel deserto, le stelle ti ricoprono come una coperta e sono molto vicine.
Di notte ha fatto freddo, ed il vento ci ha fatto compagnia, le tende che ci ha fornito l’organizzazione locale non erano delle gher e siamo a 1100 mt. Ci riprendiamo dal freddo della notte con un’ottima colazione e partiamo per Ereen nuur, uno splendido lago attorno al quale si snodano dune sabbiose, alcune così alte da sembrare piccole montagne. Il nostro autista ha visto in lontananza e poi lo abbiamo rincorso un esemplare in grave pericolo di estinzione di antilope saiga. E’ un curioso mammifero, il suo naso è simile alla proboscide del tapiro, utile a riscaldare l’aria durante i zuud (inverni) glaciali mongoli. E’ un susseguire di emozioni questa Mongolia.
La notte la dovevamo passare in tenda ai piedi di una duna vicino all’Ereen nuur, ma quando dovevamo piantare la tenda inizia qualche goccia d’acqua ed un po’ perplessi sul da farsi, faceva anche freddo e c’era anche un bel po’ di vento, di comune accordo abbiamo optato per andare al più vicino villaggio, Jargaland ed abbiamo trovato sistemazione in 2 stanze (19 persone), prima abbiamo cenato e poi trasformato in dormitorio. Stanotte mi sono alzata, coperta bene, sono uscita e sono rimasta incantata da un’altra luminosa stellata, la via lattea nitida, pochi altri cieli oltre a questo sono capaci di donare. Sono i cieli e le notti della Mongolia che non dimenticherò velocemente.
Anche oggi, questo straordinario Paese, ci regala un’altra bellissima giornata limpida, ma fredda. Questo cielo così blu, così terso, così basso da poterlo quasi toccare, con grandi nubi bianche. Ogni giorno trascorso in queste terre, mi allarga il cuore, mi mette in pace con me stessa e con il mondo.
Lungo la strada ci fermiamo alle Turkish Stones, sono un gruppo di figure di pietra risalenti al 1200, siamo a 2200 mt. Ripartiamo, superiamo un passo a 2500 mt, scendiamo in una vallata (Uujmiin Am) e qui ci facciamo una bella passeggiata, scende qualche fiocco di neve e ripartiamo. Nel tragitto per arrivare al villaggio di Tayshir, dove ci fermeremmo a dormire la notte, ci fermiamo lungo un fiume dove ci sono delle formazioni di rocce basaltiche e poi visitiamo anche una diga.
Purtroppo siamo quasi alla fine di questo stupendo viaggio, e la malinconia sale… Dopo una abbondante colazione, partiamo per Altay city. Qui visitiamo il museo dell’Aimag, interessante, e poi ci dirigiamo verso l’aeroporto. Prima di partire vengono pesati sia i bagagli che vengono spediti, che quelli che ci portiamo in cabina e si paga l’extra. Due ore di volo da Altay city per UB.
Qui abbiamo pochissimo tempo e ci facciamo portare dove vendono “l’oro della Mongolia” il Kashmir, uno dei più pregiati al mondo, i prezzi sono poco convenienti.
… è già ora di tornare.