In India del sud
Forse dovrei restare ancora qualche giorno qui, tuttavia non ho voglia di sforzarmi a trovare quello che forse non c`e`, per cui domani comincero` il mio Gran Tour, da Chennai a Mumbai, passando per il sud e risalendo la costa occidentale.
Mamallapuram e` un paesino in questo momento frenetico per la festa del Pongal, che celebra annualmente il raccolto, tesa a ringraziare divinita` ed animali per il dono di aver avuto dalla terra di che aver da mangiare ancora per un anno. Inoltre c`e` un festival di danza, e la sera stessa assisto ad un meraviglioso spettacolo con ballerine e musicisti, che per due ore trascinano tutto il pubblico in un`altra dimensione, da quella incasinata che sta appena fuori la scena; la vocalist da` di gorgheggi a mo` di Cheila Chandra, per chi la conosce, mentre la ballerina si muove in una maniera cosi` armoniosa che difficilmente ricordo di aver visto in spettacolo analoghi.
C`e`troppo casino, troppa ressa; stamattina me ne andavo in giro per i templi del villaggio, e frotte di famiglie ne affollavano gli spazi coi loro picnic di semplici e gustosi thali, offrendomi da mangiare, augurandomi Happy Pongal, chiedendomi do posare per foto ricordo assieme a loro. Ad un certo punto ho incontrato Stephan, svizzero di Zurigo, autista di tram, anche lui coi turni; forse l`ho preso in simpatia per questo. Che tipo questo Stephan! Caritatevole ed incazzato allo stesso tempo per le continue e spropositate elemosine che si costringeva a dare ai questuanti di professione, che una volta si ed una no lo facevano fesso, con una guida spirituale dell`India sotto braccio, che non sapevo manco esistesse, una Lonely o Routard del pellegrino occidentale in cerca d`illuminazione. Se ne va in giro per i templi dell`India in cerca di una serenita` e pacatezza che evidentemente latitano in lui. Ci ho passeggiato, chiacchierato, posato per delle foto che ragazzi ubriachi da fine Pongal ci chiedevano sulla spiaggia, aspettato il ciabattino che terminasse i sandali su misura che gli avevo commissionato (non avrei potuto trovarli gia` bell`e` fatti, chiaramente), cenato assieme: alla fine mi ha riempito di complimenti, che non merito, credendo di vedere in me quello che sta cercando con troppo accanimento. Domani partiro` per Pondicherry, 100 km. Piu` a sud, la citta` che avrebbe voluto essere stata francese.
Sono stato due giorni a Pondicherry, quest`enclave coloniale francese nell`enorme India britannica. Ci ho passeggiato sotto l`effetto rincoglionitore della cefalea a grappolo che con cadenza annuale mi colpisce., durante il pomeriggio e la mattina seguente.
Me ne sono andato in giro in stato comatoso, sotto al sole, riportando scottature di lieve entita` su collo e capoccia, fra i bei viali della zona francese, dominati dalla presenza dell`Alliance Francese e dalla sede dell` Ashram di Aurobindo e la sua amica, The Mother. La citta` sembra condizionata, almeno nelle sue zone piu` aristocratiche, da questi due enti, con belle case ristrutturate, fuori alle quali ci sono quasi sempre delle guardianie private. E’ stata contesa dai francesi sugli inglesi, e si vanta un poco della sua natura latina, coi nomi di strade, negozi e ristoranti, per turisti e locali ricchi. La zona indiana sta piu` in la`, nella parte occidentale, dove come nelle altre citta` indiane la gente vive per strada, dell’ elemosina dei passanti.
L`Ashram di Aurobindo è un posto molto forte, economicamente: possiede una fabbrica artigianale di carta, un giornale proprio, piu` presumo notevoli ammanigliamenti con la politica locale. Riesco a farmi accettare in una delle sue guest house dipartimentali, dove le regole sono severe: coprifuoco, niente fumo o alcool, niente bambini al di sotto di tre anni piu` altre cazzate. La foto di The Mother e l`Aurobindo sono onnopresenti, come grandi Fratelli orwelliani che sorvegliano dall`aldila` che il pellegrino stia osservando i loro precetti. Comunque, nonostante l`alta moralita` del posto, la cazzimma e` notevole, per cui la mattina, quando ho lasciato la guest house, ho dovuto portarmi appresso lo zaino, che fortunatamente non e` pesante, poiche` sembra che li non ci sia spazio per i bagagli in deposito. Lo abbandono per qualche ora al centro Internet dove spergiuro che non reclamero` furti di soldi o preziosi.
All`Ashram non c`e` molto da fare, a parte venerare la tomba dei due, o comprare foto riprese nel momento del loro maggior stato di inartapecorimento, poco prima dell morte, credo; c`e`anche da buttar soldi in libretti vari per desiderosi di rivelazioni su salute, sesso, lavoro, paure generiche, e addirittura sul favoloso umorismo dell`Aurobindo. Fortunatamente a Pondicherry c`e` il lungomare, con le famiglie che passeggiano, a mangiare gelati rilassate, dove seguo il loro esempio, in attesa del treno che mi portera` stanotte a Madurai, 400 km piu` a sud.
Il percorso da Pondicherry a Villipuram junction, da dove partiro` in treno per Madurai, e` breve; ho il tempo di mangiare in una bettola, lungo i binari 1 e 2, dove preparano vaschette di alluminio da distribuire in treno. Alla faccia dell`Aviaria, mi faccio un doppio chicken byriani, e siccome il treno ritarda, c`ho il tempo per un caffe` e una sigaretta fuori la stazione. Ci sta passando un carrettino con sopra dei monaci, mi sembrano, che benedicono con terra bianca e rossa, e petali di fiori quelli che porgono la fronte: lo faccio anch`io, come buono augurio per la notte che passero` in treno, sperando che il mio mal di testa si mantenga su livelli accettabili. La notte passa in bianco, ma senza ulteriori complicazioni cefaloidi, per cui, quando sbarco alle 05.30 dal treno, decido di posare le mie cose in albergo ed andare subito al tempio Sri Meenakshi, motivo principale per cui io e migliaglia di pellegrini stiamo passando da queste parti. E` vicino, pochi minuti dalla stazione e dall`albergo, ed e` gia` aperto. Sta per albeggiare, e i primi fedeli lentamente cominciano ad affollare questo luogo mistico; ci cammino forzatamente lento per la stanchezza del viaggio, ma e` un buon modo per guardarmi attorno. Man mano le persone aumentano, vengono aperti locali contenenti raffigurazioni di divinita`, in sembianze umane ed animali, mentre sale un mantra cantato da alcuni in un angolo e diffuso in tutto il tempio da altoparlanti. Incrocio una carovana con in testa alcuni che tengono una portantina, altri accompagnano la processione con delle trombette ed acuti di piatti metallici battuti fra loro. Intorno ad un tempietto si forma un trenino di persone che gli gira intorno, con lo sguardo infervorato. Piu` in la` c`e` l’enorme vasca con l’acqua sacra dove ci si bagna; e` tutto cosi` incredibile da osservare, e a volte da` un sospetto di un leggero fanatismo.
Il problema principale a Madurai e` che ogni pochi passi c`e` un conducente di riscio`, oppure un appiedato, che tentano di coinvolgerti in qualcosa, dal giro sul triciclo, all`acquisto di stoffe, siccome intorno al tempio e` pieno di negozi di questo tipo; ci sono le giovani madri che chiedono i soldi coi figli in braccio, o, se questi gia` si reggono in piedi, mandano loro a farlo. A volte do` l`elemosina alle persone piu` anziane, quelle che sembrano non avere piu` alternative, e devono solo portare a termine questa vita di sofferenze. Ce ne sono in ogni angolo, e spesso occorre non pensare alle condizioni di questi miserabili per mantenere una sorta di equilibrio, camminando in mezzo a questa incredibile poverta`.
A Madurai c`e` un museo alla memoria di Ghandi, ricordato per aver indossato per la prima volta qui la veste indiana, e successivamente per aver rifiutato di entrare nel tempio senza che fosse permesso anche a degli intoccabili con cui stava insieme. Il posto racconta della storia della colonizzazione, cominciata con la venuta degli inglesi nella meta` del `700 per cominciare i traffici di spezie, poi si sofferma in particolar modo sul periodo del Mhatma, la sua storia, le sue parole, quello che ci ha lasciato. Il finale del percorso e` una stanza nera non illuminata, con dentro una teca contenente il lenzuolo sporco di sangue che Ghandi indossava al momento del suo assassinio. Anche se non avessi fatto questo viaggio da solo, non avrei potuto commentare quello che stavo vedendo.
Sto aspettando di partire per Kollam, sulla costa occidentale, stavolta. Stasera un treno alle 23.15 partira` da Madurai, portandomi sul posto, dove ci sarebbero delle chiatte per il trasporto del riso che fanno la spola con un`altra cittadina costiera, piu` a nord, via lagune limitrofe al mare. Il pomeriggio lo passo cazzeggiando dentro e fuori il tempio, a gustarmi ancora un poco della fede degli altri, mentre l`unico che posso provare e` un sentito rispetto per quello che questa gente crede.
La notturna da Madurai a Quillon non e` stata malvagia. Siccome il treno e` solo di seconda, al suo arrivo c`e` stato l`assalto alla diligenza di quelli che avevano solo il posto a sedere, mentre per altri, come me, con la cuccetta assegnata, il problema non si è posto.
Avrei potuto perfino dormire, a dispetto delle croste di sporco, del fatto che si era in otto in qualche metro cubo, del tanfo di urina proveniente dai cessi ad ogni fermata; ma quello per cui ho messo una croce sopra sono stati i ventilatori a pieno regime che baccagliavano a pochi centimetri dalle mie orecchie, attaccati al soffitto del vagone. Tirato fuori il kit anticefalea, camicia e berretto di pile, nonche` mascherina per gli occhi anti neon sparati in faccia, ho preso sonno un`oretta prima di arrivare a destinazione. A Quillon non c`e` niente da fare, eccetto prendere di filato il barcone che porta i turisti fino ad Allaphuza, piu` a nord, via lagune interne adiacenti la costa. Lungo il tragitto, un otto ore piacevoli e rilassanti, i turisti fanno foto ai pescatori ed ai locali sulla riva, come fossero allo zoo. Un cazzone, in particolare, lancia gadgets ad ogni bambino che urla la sua richiesta di present: prego tanto che ci finisca anche lui in acqua, oltre a quella paccottiglia che elargisce compiacendosi della generosita`.
Anche ad Allaphuza non c`e ` da fare niente, solo cenare e dormire in un cottage appena ai limiti della citta`, per poi prendere la mattina dopo un bus che di buon ora parta a Kochi .
Kochi e` una posto piacevole, raccolto, dove la solita comunita` di viaggiatori colonizza le parti piu` ospitali e carine, creando ambienti urbani fatti di ristorantini, bar, centri Internet. Ci sono da visitare un paio di chiese, una sinagoga antica, un palazzo reale, la spiaggia dove sono fissate le reti da pesca cinesi; li` dei soggetti offrono una dimostrazione dell’utilizzo, dietro una ricompensa, che potrebbe essere anche una birra. La sera prendo il ferry per la parte nuova della citta`, chiamata Ernakulam, di fronte alla storica Fort Kochi, per assistere ad un’esibizione dell`antica forma di teatro Khatakali; c`e` la fase del trucco, che dura un`ora circa, una dimostrazione di alcune espressioni tipiche di questo teatro, infine una rappresentazione di scene tratte dal Mahabharata. I posti che ospitano queste rappresentazioni sono perlopiu` piani superiori di case private, climatizzati ed attrezzati a modesti teatri di poche decine di metri quadri. La vecchia tenutaria dello show c’ha proprio la faccia come il culo, indicandomi all`uscita una donation box in cui versare soldi. Le dico: ma ti sei gia` scordata delle 130 rupie donate pagando il biglietto? La prende a bene, facendosi una grassa risata sopra.
Lì vicino c`e` un antitesi indiana del Mac Donald`s: un fast food dell`orrido che si chiama candidamente Bimbi`s, dove per poche rupie posso riempire la pancia con sbobba varia. C`e` giusto il tempo per prendere l`ultimo ferry che mi riporti a Fort Kochi, attraversando il porto addormentato, dove navi illuminate a giorno da fari da stadio caricano e scaricano containers, sovrastate da enormi gru.
Ho gia` i biglietti del trenino a scartamento ridotto che di mattina presto mi portera` ad Hooty, sulle montagne, via Coimbatore, raggiungibile invece in bus, domani.
Per arrivare ad Hooty dalla costa e sfruttare il viaggio panoramico in treno occorre fare tappa a Coimbatore, dove la mattina presto c`e` un treno per Mettapulayam, e da questo paesino prendere la ferrovia a scartamento ridotto, che risale la montagna, fino a 2.200 Mt.
La Blue Mountain Railway e` costituita da un trenino a scartamento ridotto, con una locomotiva a vapore che spinge su i tre vagoni, fra fumarole nere di carbone bruciato e bianche di vapore espulso dalla caldaia. Il treno sobbalza, trema, ed impone ai corpi dei viaggiatori il movimento dei suoi stantuffi, e tutti si muovono all`unisono, con le teste che ciondolano insieme, allo stesso tempo. Si attraversano viadotti, gallerie, foreste di palme, delle colline coltivate a tè, infine si arriva ai paesini dell’altipiano, con le mucche che pascolano in un ambiente che sembra alpino.
Ad ogni stazione i macchinisti fanno incetta di carbone, e riempiono la caldaia con acqua nuova; poi con erogatore d‘olio lubrificano le bielle esterne che danno il movimento alle ruote. Sono un sei ore di questa solfa, che sono riuscito a spezzare facendo l’ospite della locomotiva, fra una stazione e l’altra. Ho offerto delle sigarette ai tre macchinisti, e loro mi hanno accolto in quello che mi è sembrata l’anticamera dell’inferno. Lo spazio è angusto, pieno di leve e ferri roventi che si manovrano con l’aiuto di pezze e di martelli; ogni minuto o meno, con la schiena piegata, uno spala dentro la fornace quintali di carbone, ma non quello con cui si fa il barbecue: sono delle cazzo di pietre pesanti ed oleose che danno al fuoco un’energia che nemmeno credevo avesse. Un altro, sincronizzato ai movimenti dello spalatore, facendo leva, apre e chiude lo sportello d’acciaio che imprigiona il fuoco, con un rimbombo metallico e cupo. Un fuoco che potrebbe distruggere all’istante qualsiasi cosa con cui venga a contatto, e che credevo potesse esistere solo all’inferno. Fa caldo, molto, e quando sopraggiungono le gallerie mi indicano di proteggermi la bocca con lo straccio e di non respirare, perché per qualche secondo siamo tutti avvolti da un buio che sembra solido, appena trafitto dalla luce proveniente dalla fessura della fornace. I macchinisti conoscono il tragitto a memoria, e quando arriviamo a quella che poi ho capito essere una galleria più lunga, mi dicono di abbassarmi, comando che all’inizio non capivo. Ci ho messo pochi secondi, tuttavia: in quel lasso di tempo che sembrava un’eternità, il calore restava imprigionato nella galleria e ci avvolgeva, e l’unica per sopportarlo era di sfruttare la parte bassa della locomotiva, per non fare la fine del pollo arrosto.
Finita l’esperienza, sudato, nero e contento, ritorno al mio posto, con una frescura che un minuto prima mi sembrava non potesse più esistere. C`e` poco da stare allegri, comincia una crisi che si rivelerà la più forte da quando sono cominciate, in coincidenza con l’inizio del viaggio, e che mi costringerà parte della giornata a riposo. La reazione secondaria è stata il fatto che appena messo piede fuori della stazione di Hooty, ho potuto ignorare con estrema naturalezza le offerte di passaggi su risciò, trekking, giri a cavallo, erba da fumare, degli avvoltoi che aspettano ogni giorno il trenino coi turisti per rompere i coglioni. Le loro voci mi rimbombavano nella testa come quelle che ascoltava Rocki Balboa dopo la mazzata nel primo film della serie.
Ripigliatomi, almeno parzialmente, mi faccio un giro per la cittadina, che forse una volta doveva essere carina, ma che man mano, con lo svilupparsi di un edilizia incontrollata, è diventata un cesso. Ci si potrebbe fare qualche passeggiata in giro per i monti, magari a visitare qualche etnia particolare, ormai ammaestrata dalla presenza di turisti, ma col freddo che fa e nelle condizioni in cui mi trovo preferisco levare le tende, e prendere l’indomani un bus per Mysore.
A Mysore ci sono due ragioni principali per venirci, il palazzo reale ed una veisita ad un tempio situato in cima ad una collina, anch’esso meta di pellegrinaggio, ed oggeto di andirivieni di bus, risciò, e devoti a piedi, che salgono su per la collina. Ho scelto di prendere un bus all’andata, e farmi il ritorno scendendo i mille e più scalini che portano alla base della collina, e già così mi sono ritrovato col polpaccio destro infiammato. Purtroppo, come sempre succede in situazioni del genere, ci sono sempre dei paraculi che tentano di approfittare dell’ingenuita` del turista, e fanno bene, visto che la maggiorparte glielo fanno fare.
E` capitato che al deposito delle scarpe, da lasciare sempre prima di entrare in un tempio, un furbetto mi piazzasse in mano la statua di legno di Shiva, credo, più dei fiori per l`offerta rituale, facendomi accompagnare da un ragazzetto a visitare un tempio minore, quello dove non c’è ressa, e il raggiro può essere compiuto ad arte. Mi sono preso un gusto speciale a visitare il tempietto, fare l’offerta e poi mandare a cagare i due, che almeno speravano di farsi pagare i fiori, senza successo.
Ho avuto pure il culo di capitare a Mysore il 26 gennaio, giorno d`indipendenza dell`India. Mi sono goduto la visione del palazzo reale illuminato da decine di migliaglia di lampadine, con tutti quegli indiani e quei turisti che si attardavano sull’enorme spiazzo lì davanti. Non eravamo solo persone in gita di piacere., però.
Tanti bambini, con l’arte consumata del commercio, le tentavano tutte per piazzare arachidi, foto cartolina, statuine ed altra roba. Con alcuni non c’era rifiuto che tenga, te li tenevi appiccicati per lunghi interminabili minuti, cercando di eludere i tentativi di smercio. Dalla loro parte, i bambini avevano la consapevolezza che non c’erano alternative a quello che stavano facendo, messi sulla strada a lavorare dai quattro anni in su, cercando di fare leva sulla pietaà dell’occidentale. E` tosta tirare diritto in situazioni del genere, però è l`unica da fare, provando a non alimentare lo sfruttamento.
In altre situazioni c’è ben poco da decidere, quando ti trovi davanti storpi e mutilati di ogni genere possibile, lebbrosi o portatori di handicap che non credevi esistibili. A Chamundi Hill, nella zona del tempio, un cristo si trascinava a terra a quattro zampe, con delle protesi alle gambe e alle braccia fatte con copertoni riciclati. Vagava apparentemente senza neppure cercare la carita`. Di fronte a quella bettola dello RRR Restourant, un vegetale mi guardava colla faccia inebetita, accovacciato a terra, cogli occhi che sembravano illuminati da un qualche dio indù, risparmiandogli forse la sofferenza della consapevolezza. Una vecchietta con un inglese terribilmente forbido, nascondeva dal sari i suoi capelli facenti una massa unica di sporchizia, rivelazione del suo stato di abitante della strada. Mi chiedeva di seguirla non so dove per mostrarmi qualcosa; me la sono poi ritrovata riversa sul marciapiede vicino l`albergo, poco dopo. Che fare? Tenersi stretto lo stomaco e dare qualcosa a questi disgraziati, nell’ordine dell’elemosina indiana, senza strafare, per non alimentare anche qui una dipendenza verso l`occidentale, ricco ed onnipotente, e poi continuare per la propria strada, ringraziando ad ogni passo tutti i santi del paradiso per aver avuto la fortuna di avere avuto altre possibilità.
A Mysore ci sono due motivi principali per venirci, il palazzo reale ed una veisita ad un tempio situato in cima ad una collina, anch`esso meta di pellegrinaggio, ed oggeto di andirivieni di bus, riscio`, e devoti a piedi, che salgono su per la collina. Ho scelto di prendere un bus all`andata, e farmi il ritorno scendendo i mille e piu` scalini che portano alla base della collina, e gia` cosi`mi sono ritrovato col polpaccio destro infiammato. Purtroppo, come sempre succede in situazioni del genere, ci sono sempre dei paraculi che tentano di approfittare dell`ingenuita` del turista, e fanno bene, visto che la maggiorparte di essi glielo fanno fare.
E` capitato che al deposito delle scarpe, da lasciare sempre prima di entrare in un tempio, un furbetto mi piazzasse in mano la statua di legno di Shiva, credo, piu` dei fiori per l`offerta rituale, facendomi accompagnare da un ragazzetto a visitare il tempio minore, quello dove non c`e` ressa e il raggiro puo` essere compiuto ad arte. Mi sono preso un gusto speciale a visitare il tempietto, fare l`offerta e poi mandare a cagare i due, che almeno speravano di farsi pagare i fiori, senza successo.
Ho avuto pure il culo di capitare a Mysore il 26 gennaio, giorno d`indipendenza dell`India. Mi sono goduto della visione del palazzo reale illuminato da decine di migliaglia di lampadine, con tutti quegli indiani e quei turisti che si attardavano sull`enorme spiazzo li` davanti. Non eravamo solo persone in gita di piacere. Tanti bambini, con l`arte consumata del commercio, le tentavano tutte per piazzare arachidi, foto cartolina, statuine ed altra roba. Con alcuni non c`era rifiuto che tenga, te li tenevi appiccicati per lunghi interminabili minuti, cercando di eludere i tentativi di smercio. Dalla loro parte, i bambini avevano la consapevolezza che non c`erano alternative a quello che stavano facendo, messi sulla strada a lavorare dai quattro anni in su, cercando di fare leva sulla pieta` dell`occidentale. E` tosta tirare diritto in situazioni del genere, pero` e` l`unica da fare, provando a non alimentare lo sfruttamento.
In altre situazioni c`e` ben poco da decidere, quando ti trovi davanti storpi e mutilati di ogni genere possibile, lebbrosi o portatori di handicap che non credevi esistibili. A Chamundi Hill, nella zona del tempio, un cristo si trascinava a terra a quattro zampe, con delle protesi alle gambe d alle braccia fatte con copertoni riciclati. Vagava apparentemente senza neppure cercare la carita`. Di fronte a quella bettola dello RRR Restourant, un vegetale ti guardava colla faccia inebetita, accovacciato a terra, cogli occhi che sembravano fossero stati illuminati da un qualche dio indu`, risparmiandogli forse la sofferenza della consapevolezza. Una vecchietta con un inglese terribilmente forbido, nascondeva dal sari i suoi capelli facenti una massa unica di sporchizia, rivelazione del suo stato di abitante della strada. Mi chiedeva di seguirla non so dove per mostrarmi qualcosa; me la sono poi ritrovata riversa sul marciapiede vicino l`albergo, poco dopo. Che fare? Tenersi stretto lo stomaco e dare qualcosa a questi disgraziati, nell`ordine dell`elemosina indiana, senza strafare, per non alimentare anche qui una dipendenza verso l`occidentale, ricco ed onnipotente, e poi continuare per la propria strada, ringraziando ad ogni passo tutti i santi del paradiso per aver avuto la fortuna di avere avuto altre possibilita`.
Non avendo altro da fare a Mysore, ho preso un bus la mattina per Mangalore, sulla costa, e, giusto il tempo di mangiare una cosa, a seguire un treno per Canacona Junction, la stazione ferroviaria più vicina al paesino di Palolem, all’estremità meridionale del Goa.
Ci sono arrivato la sera sul tardi, trovandomi immerso nella situazione più tipicamente turistica stile backpackers. Un unico viale arretrato rispetto la spiaggia, costellato di negozi di artigianato, bar, ristorantini, guest house, laundry, e più ne ha più ne metta, per soddisfare il bisogno occidentale del turista. Non c’è niente di autentico in questi posti, per chi viene da visitatore, mentre al contrario la vita indiana scorre nonostante tutto. Se a Kochi qualche stradina era stata impostata al gusto occidentale, qui invece tutta la massa dell’abitato è stata trasformata per rendere piacevole e confortevole la permanenza dei villeggianti, condizione essenziale affinché sfilino le rupie dai loro portafogli. Tutta una falsa prospettiva delle cose, un adeguamento o una imitazione di quello che ci potrebbe essere al di là dell’oceano. I ragazzi del west sembrano sapere perfettamente come muoversi, cosa fare, come comportarsi, perché non c’è niente di più facile che farlo qui, dove tutto o quasi è permesso, basta aprire il portafogli. I casini, le depressioni, i problemi familiari, col lavoro, le esistenze mal riuscite, qui non hanno ragione di esistere, perché si tratta di un mondo fittizio dove sentirsi da leoni quel tanto che può durare. In ogni posto che ho visitato, ho trovato delle situazioni simili, dato che alla fine tutto il mondo è paese, e l’indiano, come il peruviano, il malgascio, il nepalese, sa, oppure intuisce, il bisogno occidentale, così pacchiano nel mostrarsi eppure così fragile nell’essere. L’israeliano deve fare il macho con la moto presa in affitto, occhiali da sole incollati in fronte, e magari trattare da pezzente l’indigeno; il francese è più a modo, gentile, bohemien, si potrebbe dire, trattalo bene e ti darà il meglio di sè; gli anglosassoni sono disinvolti, sono i veri progenitori del turista indipendente, quelli che la sanno lunga, e più degli altri, sono tanti Leonard Di Caprio in quella boiata di The Beach, film rappresentativo della questione.
L’italiano, a meno di sorprese è un idiota, viaggia in gruppo per farsi forza, per non soccombere alla paura del diverso; scherza con battute tristi e generalmente non capisce una mazza di quello che gli sta intorno, di quello che sta vivendo. L’importante che il cibo rassomigli il più possibile a quello che ha lasciato dalla mamma, perché lo stomaco è debole e la cagarella in agguato.
Tuttavia, le rare volte che capitano, incontro degli italiani che possono dar lezioni di vita a tutto quest’ammasso indistinto di rincoglioniti, con la saggezza che deriva da un approccio realistico e disincantato della vita; da una presa di coscienza di quello che sta facendo e vivendo, senza esaltarsi troppo per delle esperienze che si comprano così a buon mercato. Siamo qui non per merito nostro, ma per quello della vagina da cui siamo nati, trovatasi casualmente in un mondo ricco, quantunque fossimo disoccupati o precari.
Almeno mi sto abbronzando un poco.
Ieri sono venuto qui a Panaji la capitale del Goa, per visitare i quartieri latini della città, coi loro nomi portoghesi, nonché a mangiare qualche specialità culinaria locale, finalmente diversa dalla solita sbobba sud indiana. C’è anche la vecchia capitale, con delle belle chiese ancora in piedi, ma è tutto qui, per cui fra un poco prendo un bus per un’altra spiaggia, più a nord, in attesa di Bombay.
A Vagator le cose vanno un poco diverse che a Palolem. Fortunatamente qui la situazione è più sul familiare indiano, e sulla spiaggia principale del paesino la maggior parte degli avventori è indiana. Sto qui in coincidenza del fine settimana, e i parcheggi sono pieni di bus e minibus provenienti dai dintorni, per portare in giornata famigliole in gita. C’è però chi ci viene in aereo o in treno da Bombay, Bangalore o addirittura Dheli; appartenente alla middle class indiana; ci si parla in inglese, se non si ha la lingua locale in comune. Sono rilassati, vestiti alla maniera tradizionale, le donne, oppure a quella occidentale, truccate, decorate, belle.
La spiaggia è una fantasia colorata di sari, una allegra confusione di ragazzi che giocano a cricket, si tuffano in mare; di vacche che litigano coi cani, e poi se ne vanno a passeggiare sulla sabbia, più in là, di combriccole che se la spassano a botta di whiskey sotto il sole di mezzogiorno. Bisogna solo svegliarsi dal torpore da solleone, quando delle tipe particolarmente insistenti rompono per venderti a tutti i costi la frutta o i tessuti.
La frutta invece l’ho comprata da una donna che con la sua minuscola bancarella si è posizionata sulla discesa che dà sulla spiaggia; all’inizio non volevo, poi ho apprezzato l’idea di una bella bevuta di cocco propedeutica al pomeriggio sulla spiaggia. Ho contrattato un poco sul prezzo, così, più per abitudine che per reale bisogno, e mi sono accomodato sulla sedia che la donna mi ha offerto. Accanto a me c’era quello che, secondo le indicazioni della tipa, doveva essere lo scemo della famiglia; ogni volta che un bus ci passava accanto affumicandoci col suo scarico, rideva come un pazzo per il divertimento, ed io appresso a lui. I due scemi del villaggio. Ad un certo punto la donna ha cominciato a dirmi del fatto che aveva sei bambini, che il marito era morto, che doveva sopportare delle spese per delle cure mediche; mentre sorseggiavo il cocco mi chiedevo se ci stesse provando, se voleva farmi fare la fine di Stephan lo svizzero, a Mamallapuram. Invece poi ha cominciato a piangere, sommessamente, nascondendosi il volto col sari, e lo scemo a cercare di asciugarle le lacrime, a confortarla, e lei a schernirsi. Erano lacrime di disperazione e solitudine, come ne ho viste in altre situazioni, diverse, ma ugualmente sofferenti. Tutto era improvvisamente cambiato, passavano i motorini coi turisti sopra ma era come non esistessero: come potevano, del resto? Come poteva la donna sola con i sei figli, col suo ignobile guadagno di poche rupie a vendita, poter solo immaginare cosa significava avere soldi per noleggiare una moto e spassarsela, per comprare un vestito alla moda, degli occhiali da sole ray ban, e acquistare in un colpo solo tutta quella sicurezza che i soldi ti danno? Quella ricchezza le era lontano anni luce, e tutto quello che le passava sotto il naso non avrebbe mai avuto importanza, non potendo realmente cambiare la sua situazione.
Ho tirato fuori il portafoglio prendendo un biglietto da 100 rupie, una elemosina da 50 a 100 volte superiore a quella che normalmente elargisco. Ma quella non era un’elemosina; erano due euro date per solidarietà un gelato mancato a Mati, un caffè in meno offerto al collega, 10 marlboro non fumate. Non erano niente. Solo un gesto di solidarietà verso qualcuno che sta male. Non le voleva accettare, ritraeva la mano, ed invece gliele ho messe dentro, piegandola a forza. Poi sono andato a smaltire la depressione sulla spiaggia, fra una nuotata ed una tintarella. Di lì a poco è arrivata una coppia di giovani, uno più bello dell’altro, pantaloncini corti e magliette aderenti. Hanno sistemato le loro cose e si sono buttati in acqua, come due star in un film di Bollywood. Ad un certo punto lui mi ha chiesto di fare loro una foto, ed erano così gioiosi che io, a mia volta, ho chiesto di farne una con la mia macchina. Lei con la testa china sulla sua spalla, e lui forte e sorridente; di Bombay. Ci siamo messi a chiacchierare un poco, poi ho preso la mia strada verso l’albergo, evitando di incontrare la venditrice di frutta, per non imbarazzarla.
Oggi invece l’ho salutata, chiedendole come stava, se meglio di ieri; mi ha offerto a forza delle banane, anche se non volevo, che avrei mangiate più tardi, mi ha detto. E’ l’ultimo giorno qui: domani mattina farò ancora un poco di mare, poi nel pomeriggio mi avvierò verso la stazione di Thivin, a pochi km, per il viaggio notturno alla volta di Bombay. Non senza essermi concesso un massaggio ayurvedico, probabilmente non autentico, ed una mangiata a base di gamberoni, che mi auguro saranno freschi.
Sono stato a Mumbai tre giorni, ed ora sto per recarmi all’aeroporto per la partenza in nottata. Me la sono fatta da sopra a sotto, quartieri turistici, mercati, passeggiate sul lungomare, ed ora ho le vesciche ai piedi. Stavo fantasticando di buttare a mare questi scarponi da montagna, che qui non hanno molto a che fare, però trovare il mio numero in India è missione impossibile, per cui resisterò ancora 10.000 km.
Dal Goa sono arrivato in treno alle 6 di mattino, e quel cazzimmoso del receptionista ha provato a farmi pagare una mezza giornata in più per l`orario extra mattutino; gli ho lasciato il bagaglio e mi sono avventurato con la notte che ancora avvolgeva la città, in giro per le strade di Mumbai. Se alle otto di mattina qui non succede ancora nulla, perchè tutto comincia a funzionare verso le 10 o giù di lì, le 6 è un orario da oltretomba, e tutto e tutti stanno nelle braccia di morfeo. Ci sta la popolazione che dorme per strada, madre, padre , bambini, zii e nonni; così come i single, che non so se per fortuna o meno stanno da soli. I loro beni stanno messi in ordine come si conviene ad una casa ben sistemata: gli stracci per adagiarsi qua, le bacinelle e i secchi per le abluzioni là, e i più fortunati c`hanno anche qualche stoviglia.
Mentre cammino comincia a schiarire, e quando sono al Gate of India, ormai albeggia. Dedico la prima giornata a fare tappa ai posti turistici elencati dalla Lonely, non facendo parsimonia di km percorsi a piedi. La botta finale è la mega passeggiata per il lungomare della città , cominciata di pomeriggio e terminata con il sole calato. Una via Caracciolo estesa a dismisura, con lo struscio di famiglie e coppiette, bambini e vecchi. La spiaggetta che ci sta balla fine è un must per i massaggi al capo e per assaggiare il famoso piatto di Mumbai, il Dhalpuri, una sbobba immangiabile fatta di ingredienti che solo un demente può aver pensato di mettere assieme. Quando al massaggio al capo, ho dovuto faticare più del previsto per allontanare quei rompiballe che si proponevano a farli, peggio di mosche fastidiose in un pomeriggio assolato. Preferisco farmeli fare dai barbieri, che qui in India ho scoperto non aver nulla da invidiare per bravura e tecnica a quelli arabi.
A Mumbai in questo periodo c’è un festival di musica, danza, readings ecc, che si svolge nella parte centrale della città. Ci sono stato ieri, e per un paio d’ore mi è sembrato di trovarmi a Napoli, in una di quelle occasioni dove è radunata un bel pò di intellighenzia. Donne ben curate, all’occidentale, uomini attempati di una certa levatura intellettuale, ragazzi che sembravano dei quartieri bene di qualche metropoli europea. Mi sono gustato uno spettacolo di danza, che pur non capendoci molto, mi è sembrato eccezionale. Ma appena fuori dalla zona dedicata, la realtà torna prepotentemente alla ribalta, e già i senza casa sono riversi nei loro spazi a dormire, a consumare un pasto, a chiedere soldi. I bambini di qualche mese, incoscienti, dormono nudi sull’asfalto, presi in carico da chi non può curare nemmeno se stesso. Me ne vado alla mia stanza d’albergo, dove devo camminare con la testa inclinata, siccome il soffitto è meno alto che io.
La terza giornata l’ho dedicata agli acquisti, maniera pratica per non farmi pesare troppo l’emozione del ritorno. Ormai manca poco per avviarmi all’aeroporto, e tutto sta lentamente prendendo parte di un vissuto già trascorso, di cui, una volta tornato, resterà il bel ricordo di un’India bella da vedere e dura da digerire; tante volte queste scene che ho provato a descrivere mi hanno fatto pensare al titolo di quel film di Marco Tullio Giordana, Quando sei nato non puoi piu` nasconderti, che qui ha una valenza tutta speciale.
La dignità umana intesa alla maniera occidentale qui fa ridere, non serve e non è giusta; la ragazzina col figlio in braccio, che si prosta a terra, ti tocca per attirare l’attenzione e si porta la mano alla bocca per dirti che ha bisogno della tua elemosina per mangiare, non sa cosa sia la nostra dignità, perchè il bisogno primario è riempire la pancia, e ìaltronde nessuno neanche glielo ha insegnato. Tutto quello che vuole sono poche rupie per mangiare. Ce ne sono tanti messi male, senza che nessuno si prenda cura di loro, o almeno li aiuti a migliorare un poco la loro situazione; girando per l’India si prende coscienza della durissima realtà di questa gente.
Questo è un viaggio fatto dentro se stessi, oltre che a visitare le bellezze del continente indiano. Per quello che può valere.