In India c’è un’isola di felicità dove si vive rilassati tra mucche e bagni al tramonto
(Premessa: questo diario andrebbe letto dopo i miei racconti di viaggio sul Triangolo d’oro e su Varanasi. Offre spunti di riflessione sulla società indiana che non avrei colto se avessi viaggiato solo tra Nuova Delhi e Varanasi).
Dopo Varanasi, avrei voluto andare a Mumbai, ma Lele mi ha gentilmente fatto presente che in vacanza è utile ogni tanto riposarsi e quindi ho prenotato per Goa.
L’arrivo a Goa equivale a un cambio totale di prospettiva, come se avessimo cambiato stato. Intanto fa più caldo (siamo 3 ore di volo più a sud di Delhi) e le strade sono meno affollate, anche se ci sono molte più mucche. In più il clacson è usato come da noi: non al posto della freccia, ma per mandare a quel paese un altro automobilista.
Dopo il drink di benvenuto e il check-in nell’hotel che ci promette fresco e relax, attraversiamo (rischiando la vita, ma sulle strisce) la strada e, superate file di negozietti e agenzie di viaggio, raggiungiamo la spiaggia.
Anche qui siamo gli unici non indiani, ma non basta: i locali fanno il bagno interamente vestiti e coperti, mentre io ho ovviamente il mio bikini striminzito da europea. Lele chiede a una ragazza se posso fare il bagno anche in costume e lei risponde che ogni tanto di turisti se ne vedono; quindi, forse non sarà un vero scandalo se mi metto in bikini. Ovviamente si sbagliava: gli sguardi lascivi degli uomini si sommavano agli sguardi infuriati di mogli e madri (mogli e madri dello stesso uomo, perché in India devi spostarti col corredo completo di donne al seguito).
Decido che dopo tanto caldo e tanto caos non mi importa e faccio il bagno in un’acqua non proprio paradisiaca: ma non ci sono le Maldive dall’altro lato dell’Oceano? mi chiedo. Birra al tramonto e relax: non è la vacanza che avrei fatto per tutto il tempo, ma dopo tante emozioni dirompenti ci sta in pieno.
La sera scegliamo un ristorante in cui cenare, come se fossimo in un posto qualsiasi delle nostre coste. La concierge ci suggerisce il Fisherman’s Cove e ci informa che bisogna andare presto per non trovare troppa gente: è un posto gettonato. Niente più famiglie da venti persone ammassate ai bordi di una bancarellina di street food, niente più piatti di plastica per terra e mani unte da riso e spezie, niente più tappeti di rifiuti con gli animali che banchettano. Qui siamo in un ristorante, con tavoli, sedie, i rarissimi tovaglioli e addirittura un sottobicchiere.
Non solo! Per intrattenere la fortunata clientela abbiamo musica dal vivo di un giovanotto che con basi preregistrate riesce a far cantare e ballare la gente nell’attesa dell’ordinazione.
Questa è un’India più facile, certamente più felice, e vale la pena arrivare fin qui a vederla solo per rendere giustizia a un popolo che conosce alla fine tante stratificazioni sociali.
Al Fisherman’s Cove ballo con gli indiani mentre Lele contratta con il cuoco per la sua aragosta freschissima a 30 euro (alle Maldive però ci costava 10 euro, pescata da ore) e chiede di poter assistere alla preparazione. Il cuoco si presta a posare per il mio reel, ci spiega come funziona il tandoori, sorride dietro la retina con cui tiene fermi i capelli e poi ci saluta in attesa della cottura. Dopo poco, un piattone con pomodoro intagliato a forma di fiore con dentro una candelina annuncia che l’aragosta è pronta.
Il giorno dopo decidiamo di provare una delle escursioni proposte dalle tante agenzie viaggi. Per fortuna esiste Tripadvisor e scopriamo che le fantomatiche escursioni per snorkeling e diving sono in realtà una trappola: per un tempo limitatissimo di bagno si deve aspettare per ore sulla barca, perché il singolo istruttore deve accompagnare le persone ad una ad una.
In più, il mare non sembra promettere fondali da sogno e il costo è piuttosto elevato. Non ne vale la pena.
Prendiamo un tuk tuk e andiamo nel punto in cui partono le barchette per l’avvistamento dei delfini. Anche qui, pubblicità enormi riproducono delfini festosi che saltano allegri vicino ai turisti. Di fatto, i delfini indiani sono timidi e si fanno appena intravedere nell’acqua (lo avevamo già visto alle Maldive e in Amazzonia: i delfini non sono tutti uguali).
Non solo! I delfini qui hanno il muso rosa e una pinna di forma diversa e non assomigliano assolutamente a quelli delle foto (che sono invece i delfini dei nostri mari).
Nonostante tutto, vedere e conoscere i timidi delfini indiani è stato divertente, anche perché abbiamo pagato solo 3 euro per un giro in barca (da Candolim avremmo pagato 30 euro a testa per la stessa escursione).
Goa è una ex colonia portoghese e gli edifici che sono nella capitale ne sono la testimonianza. Nel quartiere latino sembra di essere a Burano, con le casette colorate, il reticolato di stradine, i negozietti. La Cattedrale di religione cristiana che ricorda in modo pazzesco quella di Porto completa il quadro: qui l’europeo si sente a casa (a voi la scelta sul se sia una cosa positiva o negativa).
Il giorno dopo andiamo a Calangute, la spiaggia più bella di Goa nord, che resta comunque discreta e non memorabile. Il lettino ci è offerto perché beviamo una birra e una donna tuttofare si presta a farmi un massaggio vista mare di 30 minuti per 5 euro (all’uomo massaggia solo i piedi, sono estremamente pudichi). Per farmi massaggiare mi metto in bikini e solo il giorno dopo scoprirò che le indiane si fanno massaggiare con la pressione delle mani, sul saree. Insomma, uno scandalo perenne il mio mare in India (penso che in molti mi abbiano fotografata come evento dell’anno).
La sera facciamo un pub crawl a Panaji, la capitale di Goa, ridente cittadina che ci trasporta di colpo in Europa. Anche qui, i pub sono simili ai nostri: birra di vario tipo (ma ancora non si trova la IPA), cocktail, comitive di amici e studenti e musica dal vivo (di gusto indiano).
Candolim, la cittadina in cui dormiamo, mi ricorda l’Emilia-Romagna degli anni 80, con i ristoranti uno dietro l’altro sulla strada principale e le pubblicità dei locali con la musica dal vivo.
Goa non è niente di memorabile, se non per questo: qui si vedono indiani che fanno turismo, che si pagano le vacanze, che dormono in albergo e noleggiano un taxi, che mangiano al ristorante (con tovaglioli e posate!), che ridono e scherzano, che postano foto ricordo sui social. Le famiglie che vivono per strada, sul marciapiede, sono lontane. I bambini non sono abbandonati ai margini delle strade e le mucche sono un po’ più in carne (la concentrazione umana è molto ridotta). Addirittura, compare la raccolta differenziata al posto del tappeto di rifiuti di Delhi.
Tutte le famiglie felici si somigliano tra loro, ma le famiglie infelici sono infelici ciascuna a modo suo. Questo incipit, il mio preferito, mi ritorna in mente per tutto il tempo del soggiorno a Goa. La povertà indiana non è come la nostra, il loro dolore non è il nostro, la nostra speranza non gli è concessa. Per i villeggianti, però, i sorrisi e il relax sono esattamente come i nostri (costumi a parte).
Le caste, il divario sociale, la distanza incolmabile tra ricchi e poveri, la rassegnazione alla posizione in cui si è nati, i racconti sulla società indiana che mi si parano davanti di colpo.
Solo per questo consiglio GOA, a chi vuole unire un po’ di mare prima del rientro a casa (anche se con un po’ di sforzo in più si può arrivare in mari migliori).
Sono tornata dall’India da qualche giorno, con il mal di pancia da brodaglie indiane e il ritmo frenetico della mia quotidianità, ma la mente torna sempre costantemente a ciò che ho visto. Guardo le infinite foto che ho fatto e ogni volta mi sembrano più belle. Le mie amiche dicono che loro in India non ci andrebbero mai e che comunque non mangerebbero certo liquidi che vengono colati da secchi enormi serviti da uomini a piedi nudi. Altre persone riescono a capire il senso profondo di questo viaggio: in fondo ci sono italiani che ci tornano ogni anno o ci si trasferiscono, per cui così male non deve essere.
Per me resta uno dei viaggi più significativi, quello che metto nella cartella delle esperienze interiori, insieme alle Filippine e all’Amazzonia. Non credo che ci tornerò a breve, ma so che non la dimenticherò