In colombia per amore
Non penso, pur non essendone completamente certo, che esistano voli diretti dall’Italia alla Colombia, ma, di sicuro, il modo più economico per giungere in quel Paese consiste nel fare scalo a Madrid–Barajas, che, per inciso, è un aeroporto molto bello e moderno, e da lì prendere un volo diretto a Bogotà. A causa di un guasto all’aereo che mi doveva condurre da Linate a Madrid sono dovuto partire dalla Malpensa, non arrivando così in tempo in Spagna per salire sul volo intercontinentale ed essendo costretto a pernottare una notte in un albergo della capitale spagnola, per fortuna con spese a carico della compagnia aerea Iberia. Dopo una notte ristoratrice in hotel (ero parecchio stanco, in quanto alla mattina mi ero svegliato a Milano prima delle h 6,00) sono finalmente partito alla volta di Bogotà. Il volo dall’Europa alla Colombia dura dieci ore esatte e, secondo la mia esperienza, rimanere in un aeroplano per un periodo di tempo così prolungato è piuttosto sfiancante. Seduto sul sedile di fianco al mio c’era un signore colombiano obeso, nato in Colombia da genitori belgi, con il quale ho potuto scambiare alcune parole durante il viaggio.
Giunto a Bogotà ho poi preso un altro volo diretto a Cali durato non più di quaranta minuti. All’aeroporto di Cali, piuttosto piccolo, se si considera che questa città ha 2.400.000 abitanti, che arrivano addirittura a 4.000.000 contando l’area metropolitana composta dai comuni circostanti, c’era la mia Diana ad aspettarmi con sua madre. Mentre attendevo di ricevere la mia valigia, osservavo attentamente se, all’interno della folla di parenti e amici collocati nella zona antistante l’aeroporto in attesa dei passeggeri dei diversi voli in arrivo, fosse effettivamente presente questa ragazza, poiché, tra i vari pensieri che mi erano balenati per la mente prima di partire per il Sud America c’era quello che Diana volesse solamente farmi un brutto scherzo e che al mio arrivo a Cali non avrei trovato nessuno ad accogliermi. Ci si può immaginare in che situazione mi sarei trovato qualora ciò si fosse realmente verificato e fossi stato completamente lasciato solo al mio destino in un continente diverso dal mio e in un Paese di cui non conoscevo per nulla la lingua ufficiale! Per fortuna, tutto ciò è restato confinato solo nella mia immaginazione e, dal momento del mio arrivo, ho potuto vivere le tre settimane più belle della mia vita in compagnia della ragazza di cui mi ero, e della quale sono tuttora, innamorato. Diana mi ha accolto benissimo nell’appartamento che condivide con la madre e con lei, e grazie a lei, mi sono calato appieno nella vita e nella realtà del posto in cui abita. Premesso che Cali non è una città turistica e che vi è una quasi totale assenza di edifici storici o comunque degni di nota per la loro particolare conformazione architettonica, di questo posto va comunque apprezzato il clima (essendo Cali posta a poche centinaia di chilometri a nord della linea dell’equatore, lì fa perennemente caldo, sebbene si tratti di un caldo assolutamente sopportabile), la gente decisamente cordiale e socievole (nonostante in questo posto e, penso, in quasi tutti gli altri dell’America Latina e del Terzo Mondo, emerga più che da noi la distinzione e la separazione tra i buoni ed i cattivi, e questi ultimi sono cattivi sul serio), i sapori del cibo squisito (difatti ho mangiato in modo sconsiderato durante quelle settimane) e, per finire, la musica (Cali è ritenuta uno dei centri più importanti e significativi per quanto riguarda la salsa, e qui, tutti gli anni a dicembre si svolge la “Feria de Cali”, festival dedicato a questo genere di musica e ritenuto, tra tutte le manifestazioni folcloristiche dell’America Latina, secondo per importanza solo al carnevale di Rio de Janeiro). Mi stava sfuggendo un ulteriore dettaglio che rende Cali particolarmente attraente e famosa: le donne!!! E’ possibile vedere per le strade e nei centri commerciali, dei quali parlerò più approfonditamente nel prosieguo della mia narrazione, donne molto belle ed attraenti, sebbene anche in Colombia, come in ogni parte del mondo, esistano le brutte e non bisogna, pertanto, idealizzare all’estremo il genere femminile latinoamericano. E’ abitudine dire in questo Paese che “las caleñas son como las flores” (traduzione: le abitanti di Cali son come i fiori), affermazione estratta dai versi di una popolare canzone famosa da quelle parti. Il primo giorno della mia permanenza in Colombia sono andato a visitare lo zoo di Cali, e sono rimasto molto ben impressionato da questo posto, in quanto l’area su cui si estende è molto estesa, vi sono diversi ruscelli, laghetti e cascate artificiali, e vi è la presenza di molti animali, sia tipici del continente americano, che di altri continenti. I giorni successivi li abbiamo trascorsi prevalentemente andando in tre centri commerciali, sempre nel tardo pomeriggio, poiché prima avevamo altri svaghi a casa ad intrattenerci (): principalmente siamo andati a Chipichape, che, tra tutti quelli visti, è quello che a me, personalmente, piace di più, ma ci siamo recati due volte anche a Palmetto , ed una ad Unicentro. In Colombia i centri commerciali si discostano, per conformazione architettonica, dal modello tipico italiano: sono molto più estesi dei nostri e possono essere definiti delle cittadelle a cielo aperto. L’assenza di tetto non è totale, nel senso che i negozi e l’ipermercato ne sono provvisti, ma nelle aree dove le persone passeggiano non esiste nulla che li ripari dal sole o dalle intemperie. Vi è, come da noi, la presenza di moltissimi negozi di vario genere, i quali hanno uno standard qualitativo assolutamente in linea con lo standard europeo. Sparsi, poi, per tutta l’area su cui sorge il complesso vi sono numerosi chioschi a forma di poligono regolare (non saprei dire se a forma di eptagono o di ottagono, ma è di scarsa rilevanza questa informazione), separati fisicamente dall’edifico principale dove sono collocati gli altri negozi ed ubicati nella zona dove vi è assenza di tetto. Generalmente, sedute sugli sgabelli posti attorno al chiosco, ci sono molte persone dedite a conversare con altre e a bere birra a fiumi, cocktail ed il famoso Aguardiente Blanco del Valle, superalcolico ottenuto dalla distillazione della canna da zucchero. E’ possibile affermare, almeno secondo la mia esperienza, che i colombiani bevono decisamente più alcool di noi italiani.
Uscendo una sera dal “Centro Comercial Unicentro”, che sorge nella parte sud di Cali, ad un’ora di tragitto dall’abitazione della mia ragazza, che si trova invece a nord, ho sperimentato il contatto con la parte brutta di Cali, con i cattivi veramente cattivi che danno poca importanza al valore della vita delle persone in cui si imbattono. Io, Diana ed una sua amica, Jackeline, siamo saliti sul primo taxi libero che ci è capitato di vedere ed ognuno di noi si è messo a sedere nella parte posteriore dell’autovettura, dando nel frattempo indicazioni al tassista riguardo l’indirizzo a cui ci avrebbe dovuto portare. Dopo alcuni minuti dall’inizio del tragitto il conducente ha accostato l’auto sul ciglio della strada e ha detto a Jackeline, la quale era seduta vicino alla portiera che si apriva verso il marciapiede, di tirare giù il finestrino, di aprire lo sportello dall’esterno e di richiuderlo immediatamente, poiché in precedenza era stato chiuso male. Non appena la ragazza ha abbassato il finestrino, sono arrivati repentinamente due individui, dei quali uno è andato a mettersi a fianco di Jackeline, mentre l’altro si seduto sul sedile passeggero anteriore. Ho potuto vedere solamente la fisionomia di quest’ultimo: era un uomo sui trentacinque anni, un pochettino tarchiato e indossava degli occhiali da vista. Lo stesso ci ha puntato una pistola e ha urlato con tono minaccioso: “Cierra los ojos, Cierra los ojos”. Diana mi ha detto di chiudere gli occhi, questo significa infatti “cierra los ojos”, e da quel momento è iniziato quello che in Colombia chiamano “el paseo milionario” (la passeggiata milionaria).
Ad onor del vero, prima di partire dall’Italia avevo consultato il sito www.Viaggiaresicuri.It , gestito dal nostro Ministero degli Esteri e che consiglio di guardare con attenzione a tutti coloro che hanno intenzione di recarsi all’estero, in particolare a quelli che vogliono andare nei paesi in via di sviluppo e del Terzo Mondo. Uno dei consigli offerti dal sito al viaggiatore che deve recarsi in Colombia è quello di non fermare mai i taxi per strada, bensì di chiamarli sempre al telefono (il servizio di Radiotaxi in Colombia è attivo ed è anche molto efficiente), proprio perché esiste il rischio concreto, come io stesso ho sperimentato, di subire rapine.
Poiché io mi trovavo in quel momento con persone del posto, non ho pensato a questa evenienza e mi sono fidato a salire su di un taxi fermato per strada. Il viaggio, o meglio, il safari, come lo ha ribattezzato scherzosamente Diana, è durato all’incirca un’ora. Mentre noi avevamo gli occhi chiusi il rapinatore sedutosi sul sedile posteriore ci ha tolto tutti gli oggetti di valore che avevamo: in primis, il portafogli con i soldi e le carte di credito, gli orologi, i telefoni cellulari ed ogni altra cosa che fosse da loro ritenuta preziosa. Mi hanno fatto anche togliere le mie scarpe, erano delle Puma da ginnastica, ma poi, non so per quale motivo, ma con mio grande sollievo, me le hanno fatte rimettere. Per fortuna, avevo lasciato il mio telefonino, gli occhiali da sole graduati di Prada e gli occhiali da vista belli nell’abitazione di Diana, sennò mi avrebbero portato via anche quelli, ma non ho potuto impedire che mi togliessero l’altro paio che portavo in quel momento.. Il rapinatore con la pistola ci ha imposto di dirgli i PIN delle carte di credito e per un momento ho avuto paura, poiché Diana non si ricordava il PIN di una delle sue carte e quindi diceva al tipo che la carta non aveva un codice segreto. Il rapinatore, dal canto suo, forse per farle pressione, ribatteva: “Se non mi dici il codice, sparo nella rotula dell’italiano (si era informato prima circa la mia nazionalità)”. Fortunatamente, poi, si è convinto della sincerità delle parole di Diana, forse perché aveva già altre carte a disposizione ed il bottino della sua scorribanda era già consistente, e non ha più insistito. I tre “gentiluomini” ci hanno lasciato al termine del “paseo milionario” in un quartiere chiamato Barrio Sucre (barrio in spagnolo significa, appunto, quartiere), situato nel distretto de La Olla, un posto abitato da gente povera e, di conseguenza, pericoloso. Diana aveva chiesto ai rapinatori, ancora quando eravamo sull’automobile, di lasciarci in un posto tranquillo, ma i tre tizi, pur acconsentendo verbalmente, nei fatti non si sono dimostrati di parola. Siamo scesi dalla macchina con l’ordine di non aprire gli occhi sino ad un loro segnale e di non voltarci indietro per osservarli, un po’ come accadde ad Orfeo nell’Ade. Ci hanno anche dato la garanzia di ritrovare i nostri documenti sul ciglio della strada, nel punto in cui il tassista aveva effettuato la fermata per consentirci di scendere: in questo caso i malfattori si sono rivelati sinceri e, in effetti, quando la mia ragazza è tornata nel posto dove ci avevano lasciati ha ritrovato i nostri portafogli contenenti i nostri documenti di identificazione. A quel punto, però, ci trovavamo soli e di sera in un posto non ben identificato, poiché i rapinatori non ci avevano detto il nome del luogo in cui ci avrebbero lasciati, l’abbiamo scoperto poi, e andavamo incontro a qualsiasi eventualità, presumibilmente ad eventualità per noi spiacevoli, visto che a primo acchito il posto non sembrava dei più tranquilli ed accoglienti. Le ragazze piangevano a dirotto, mentre io ridacchiavo come un cretino senza un perché, forse perché il pericolo maggiore era per me ormai scampato. Forse ignoravo che qui in Colombia il solo fatto di entrare in un quartiere malfamato senza essere un suo abitante equivale spesso ad una condanna a morte, come poi ho appreso tempo dopo leggendo un quotidiano, dove un articolo raccontava che un ragazzo di 20 anni, mentre andava a fare degli acquisti in bicicletta, era stato ucciso per la sola ragione di aver sconfinato in un barrio che non era il suo.
Fortunatamente, dopo aver percorso solo pochi passi, ci siamo imbattuti in un signore molto grasso che sostava sulla soglia della sua casa e le ragazze gli hanno chiesto il favore di poter usare il telefono per chiamare il soccorso della polizia e, contestualmente, gli hanno chiesto il nome del posto in cui ci trovavamo, apprendendo quindi che ci avevano lasciato nel Barrio Sucre. La casa di questo signore, il quale viveva con la moglie ed i figli, era brutta e fatiscente sia all’esterno che all’interno, come ho potuto constatare quando il tipo ci ha fatto entrare durante l’attesa dell’arrivo della polizia, la quale, nell’arco di pochi minuti, ci ha raggiunti nel luogo in cui ci trovavamo. Sono arrivati, prima, due poliziotti in motocicletta: uno di questi, un meticcio con tratti somatici molto autoctoni, mi ha detto: “Non ti preoccupare, questa è stata solo una disavventura, ma la Colombia è un posto fantastico”, e mentre proferiva queste parole ha alzato il dito pollice della sua mano, come si usa quando si vuole affermare che qualcosa, in questo caso il suo Paese, è a posto, che va assolutamente bene. Dopo un’attesa di un’altra manciata di minuti è sopraggiunta una camionetta con a bordo degli altri poliziotti, i quali ci hanno fatto salire sul mezzo, non prima, però, di aver salutato e ringraziato i nostri primi soccorritori. Purtroppo, durante il tragitto tra il Barrio Sucre e la centrale di polizia non ho potuto vedere bene, anzi, in realtà ho visto molto poco l’ambiente in cui transitavamo, essendo io molto miope e non avendo, come già ho detto, gli occhiali. Diana mi ha raccontato il giorno successivo che per strada c’erano molte prostitute della peggior risma, ossia grasse, anziane e brutte. I poliziotti si sono dovuti fermare due volte durante il tragitto: la prima, per rincorrere ed acciuffare un tipo che ricercavano, uno un po’ suonato in testa, e la seconda per raccogliere un nero che se ne stava disteso a terra appoggiando la schiena ad un palo della luce e che ansimava fortemente, quasi rantolava, poiché era stato ferito allo stomaco da una coltellata. I due nuovi “passeggeri” sono stati sistemati nella parte posteriore dell’autoveicolo, una specie di baule senza sedili, separato dalla parte anteriore dove noi eravamo seduti da una grata con fori molto piccoli. In pratica, era una cella ricavata sulla camionetta. L’individuo che era stato rincorso ed arrestato continuava a dire frasi sconclusionate e senza senso ai poliziotti: si percepiva, come ho già affermato, che non aveva tutte le rotelle a posto. L’altro, invece, proseguiva nel suo rantolo. In ogni caso, dopo qualche minuto di viaggio siamo giunti dapprima di fronte ad un ospedale dove è stato scaricato il ferito e poi, finalmente, alla stazione di polizia, da dove abbiamo chiamato un taxi con il telefono, un taxi “buono” questa volta, che ci ha portati a casa di Diana. Jackeline ha fatto la stessa cosa e se n’è andata con un altro taxi, siccome abitava in un’altra zona della città. La mia ragazza, una volta giunti nella sua abitazione ha pianto di nuovo mentre raccontava alla madre quello che ci era accaduto ed ha vomitato per la tensione nervosa, ma poi, dopo una notte di sonno ristoratrice, tutto è stato metabolizzato e non abbiamo più dato molto peso alla disavventura capitataci.
Qualche giorno dopo, non ricordo se la prima o la domenica successiva a questo accadimento, Diana ed io ci siamo aggregati ad una comitiva formata da sua madre e da alcuni suoi amici ed amiche, tutte persone di una certa età, diciamo oltre la cinquantina, ma non per queste persone noiose e sgradevoli, anzi, tutt’altro, e tutti insieme siamo andati a fare una gita che aveva come destinazione finale la Hacienda El Paraiso (hacienda in spagnolo significa più o meno fattoria), ubicata a più di due ore di viaggio in automobile da Cali, nella campagna del Valle del Cauca (il Valle del Cauca è la regione cui appartiene Cali). L’escursione ha avuto come mete intermedie dapprima Buga, una piccola cittadina vallecaucana, e poi un’altra hacienda, quest’altra chiamata Ginebra, dove abbiamo sostato per pranzare. Buga è famosa per una chiesa in mattoni rossi e con il tetto argentato dedicata a “Nuestro Señor de los Milagros” e meta di pellegrinaggi da parte dei fedeli; nel momento in cui siamo giunti si stava celebrando una funzione religiosa.
L’ Hacienda Ginebra è un agriturismo circondato dalla natura, che una volta, penso nel XIXo secolo e per buona parte del XXo, era una fattoria a tutti gli effetti, come si evince chiaramente dal nome. Gli edifici e gli arredamenti della fattoria risalgono ancora ai secoli scorsi.
Discorso analogo va fatto per l’altra hacienda, quella chiamata El Paraiso, sebbene quest’ultima abbia una fama ed una storia ben più importanti della Ginebra. Qui infatti visse un importante scrittore colombiano del XIXo secolo, tale Jorge Isaacs, a noi italiani, suppongo, sconosciuto, il quale in questo stesso posto ambientò il suo unico romanzo intitolato “La Maria”. E’ un romanzo in parte a contenuto autobiografico e narra la storia d’amore che l’autore, che nel racconto assume l’identità di un uomo chiamato Efrain, visse con una ragazza chiamata Maria, da cui il libro trae il suo titolo. A circondare la villa, che ora è diventata un museo, vi è un ampio giardino, ben curato, in cui spuntano fiori di vario colore e scorre un ruscello artificiale. La visita alla hacienda è guidata e, all’interno dell’abitazione, appesa ad una parete, vi è una fotografia che ritrae la famosa Maria (purtroppo, non ricordo se nella realtà questa donna avesse un altro nome, ma poco importa).
I restanti giorni della mia permanenza a Cali sono trascorsi all’insegna dell’ozio più totale (d’altronde, mi trovavo in vacanza, sì o no?). Ho fatto, in altre parole, la vita del Michelasso, personaggio immaginario nominato anche dal Manzoni nei suoi “Promesse Sposi”, le cui uniche attività svolte nella vita erano “mangiare, bere ed andare a spasso”. Il fatto di aver detto che ho mangiato mi permette di aprire una breve parentesi per parlare del cibo che si trova in Colombia: si mangia molto riso, mentre quasi non esiste la pasta, o comunque non è usata abitudinariamente come da noi in Italia. Non c’è, come invece accade nel nostro Paese, una chiara distinzione tra i primi, i secondi ed i contorni: i pasti in Colombia sono serviti generalmente nella forma del piatto unico, con carne o pesce accompagnati da riso, verdure e salsine piccanti. Una cosa che ho sofferto è stata l’assenza di pane durante i pranzi o le cene, poiché questo alimento si consuma solo a colazione, sicchè ad ogni pranzo o cena dovevo fare una richiesta specifica di pane, suscitando un po’ lo stupore di Diana, in quanto da loro è una cosa del tutto inconsueta. Si mangia, però, spesso lontano dai pasti, una specie di pane chiamato pandebono, il cui impasto è condito con del formaggio ed ha un sapore squisito. Il pandebono ha una forma circolare ed ha un buco al centro, e nella forma ricorda i famosi doughnuts statunitensi. Una variante del pandebono, senza buco al centro, è l’almojabana, anch’esso delizioso. Mi è piaciuto molto anche il chontaduro, un frutto tropicale, il quale, dopo essere stato sbucciato, si cosparge di sale e di miele e si mangia (ci crederete o no, è buonissimo). Le bevande sono le stesse che ci sono da noi, eccezion fatta per una bibita gassata che si chiama Colombiana e che ha un sapore particolare, non paragonabile a quello di nessun’altra bibita che si trova in Italia.
Durante la mia terza settimana di permanenza in Colombia io e Diana siamo stati per cinque giorni a Cartagena de Indias, città marittima nel nord del Paese, per fare una vacanza all’interno della vacanza. Il nostro intento era quello di fare una mini Luna di Miele al fine di suggellare e consolidare il nostro amore. Cartagena de Indias sorge sulla costa atlantica della Colombia ed è una città di circa 900.000 abitanti. E’ considerata uno delle località più importanti per il turismo nel Paese, grazie alla sua posizione sul mare e poiché in essa si possono trovare molti edifici storici, chiese e palazzi costruiti al tempo della colonizzazione spagnola. La parte centrale di Cartagena, ove sono concentrati gli edifici risalenti all’epoca coloniale, è chiamata in spagnolo ciudad amurallada. Questa zona è molto sicura, grazie al forte controllo esercitato dalle forze dell’ordine, e in essa vi è la presenza di numerosi negozi di alto livello, tra cui spiccano boutique e gioiellerie, nonchè di diversi bar e ristoranti piuttosto carini. Un po’ fastidiosi sono i camerieri appostati al di fuori dei locali che invitano con molta insistenza i passanti a sedersi ai tavoli per consumare qualche bevanda, ma ancora più insopportabili sono i venditori ambulanti, i mimi ed i cantanti di serenate che con ancora più insistenza cercano di convincere le persone a fruire dei prodotti e dei servizi da loro offerti.
Al contrario di queste persone, mi è risultato molto gradevole un gruppo folcloristico di ballerini e ballerine di danze africane che si esibiva per le strade della città; il motivo per cui le loro coreografie appartenessero alla tradizione africana era generato dal fatto che Cartagena è stata nei secoli scorsi un importante centro di approdo di navi negriere provenienti dal Continente Nero, l’unica città nel continente americano assieme a Veracruz, in Messico, ad essere autorizzata dalla corona spagnola al commercio di schiavi, e, come conseguenza più evidente di questo suo passato, una percentuale cospicua della popolazione di questa città è di razza nera o mulatta. I ballerini erano vestiti con abiti tradizionali africani ed erano accompagnati da alcuni musicisti che suonavano delle percussioni ad un ritmo frenetico, ma molto trascinante e coinvolgente per chi si trovava ad assistere a quella esibizione. I danzatori facevano molte acrobazie e piroette che risaltavano la loro notevole prestanza fisica e, di tanto in tanto, emettevano dalla loro bocca dei suoni molto acuti, che potevano ricordare quelli emessi dai berberi in segno di giubilo (almeno così credo).
Nel parte centrale di Cartagena si possono ammirare, tra le altre cose, alcune sculture di artisti colombiani e non.
Durante la nostra permanenza in questa città, io e Diana ci siamo iscritti un pomeriggio ad un’escursione organizzata alla collina su cui sorge il convento “de la Popa”, così soprannominato per la conformazione della collina che può ricordare quella della poppa di un’imbarcazione. Il tragitto dal nostro hotel al convento si è svolto al di sopra di un “chiva”, tipico pullman sudamericano senza portiere e finestrini e verniciato con colori molto vivaci e sgargianti. Mentre salivamo con l’autobus verso la cima della collina ho potuto vedere le baracche dove abitano alcuni dei molti poveri che vivono a Cartagena: individui a torso nudo e a piedi scalzi, privi di ogni comodità e comfort che abbiamo noi europei nelle nostre abitazioni. A presidio dell’incolumità dei turisti che transitano sulla piccola strada che conduce al monastero e che potrebbero essere vittime di rapine ed aggressioni da parte di chi vive nelle baracche c’erano due militari che imbracciavano un fucile ciascuno. Dal termine del mio viaggio in Colombia mi sono interrogato sul perché sulle colline delle città sudamericane si concentrino le case delle persone appartenenti alle classi sociali più umili, quando da noi, al contrario, avviene che siano i ricchi a costruire le loro ville in altura. Tuttora non sono riuscito ad avere alcuna risposta a questo mio interrogativo. Tra l’altro, quando piove in abbondanza e ci sono degli smottamenti di terreno le abitazioni di questi poveri subiscono dei danni non irrilevanti.
Dal punto in cui si trova il convento, sulla sommità della collina, si può ammirare tutta la città di Cartagena ed il suo porto. La chiesa del monastero è molto piccola e priva di affreschi e sculture, ma in essa si trova un altare costruito interamente in oro che la rende unica nel suo genere. Dopo la visita del monastero, durata non più di mezz’ora, siamo discesi con il nostro chiva di nuovo verso la città e ci siamo diretti a visitare il forte che nel diciassettesimo secolo permise agli spagnoli guidati da Blas de Lezo di respingere l’attacco delle truppe britanniche nettamente in superiorità numerica, che tentavano di conquistare Cartagena per poi spingersi alla conquista dell’intera Colombia.
Il giorno più significativo per la nostra permanenza in questa località è stato quello in cui siamo andati a visitare con un piccolo traghetto l’arcipelago delle Islas del Rosario, a poco più di un’ora di viaggio dal porto di Cartagena. Abbiamo comprato i biglietti per l’escursione da uno dei tanti “strilloni” piazzati al di fuori del piazzale dell’albergo. Sull’imbarcazione priva di finestrini su cui abbiamo viaggiato c’era un gruppo numerosi di neri del Chocò, regione costiera della Colombia bagnata dall’oceano Pacifico e densamente popolata da persone di origine africana. I neri nostri compagni di viaggio erano abbastanza su d’età, con un’età media, occhio e croce, di cinquant’anni, ed erano particolarmente allegri e chiassosi, sebbene il loro chiasso fosse piacevole da ascoltare. Poiché sul traghetto si trovavano delle casse che emanavano musica ad alto volume, gli abitanti del Chocò cantavano e ballavano senza sosta, nonostante le onde del mare non rendessero sempre facile mantenere l’equilibrio. Giunti nei pressi di un’isoletta dell’arcipelago, siamo scesi dall’imbarcazione su una chiatta che ci ha portato fino a riva. Qui ho potuto vedere il mare tropicale che mai avevo visto in vita mia prima d’allora, se non nelle fotografie delle brochure delle agenzie di viaggio e nelle immagini alla televisione. L’acqua era limpidissima ed era possibile vedere con nitidezza il fondale del mare, mentre la spiaggia era costituita da sabbia bianca finissima su cui era molto difficoltoso camminare a piedi nudi, poiché l’illuminazione dei raggi solari la rendeva bollente. Manco a dirlo, anche in questo posto c’erano dei venditori ambulanti insopportabili ancor di più di quelli in cui mi ero imbattuto a Cartagena. Poiché siamo approdati nell’isoletta più o meno all’ora di pranzo, abbiamo mangiato sotto una specie di gazebo situato nelle immediate adiacenze della spiaggia del pesce squisito cotto alla griglia con contorno di patate (il pasto era incluso nel prezzo pagato per l’escursione). Immediatamente dopo la conclusione dell’almuerzo, così lo chiamano in spagnolo, mi sono tuffato in mare e sono stato ristorato dalla tiepidezza dell’acqua. Purtroppo, la permanenza nelle Islas del Rosario non si è protratta molto a lungo e dopo non più di due ore dal nostro sbarco i marinai del traghetto, lanciandoci un messaggio acustico con la sirena, ci hanno invitato a risalire a bordo per rientrare a Cartagena.
Cartagena è stata anche teatro di una sfida a scacchi tra me e Diana che si è conclusa con un risultato di pareggio e che da allora non è più ripresa (ma ti sconfiggerò un giorno, amore mio).
Al termine della nostra mini Luna di Miele siamo rientrati a Cali dove sono rimasto un solo giorno, dopodiché ho preso il volo per rientrare in Europa. Grazie al cielo lo scorso 23 marzo 2008 sono ritornato in questo splendido Paese per convolare a giustissime nozze con la mia Diana il giorno 29. Pur dovendo svolgere alcune incombenze per il nostro matrimonio, abbiamo avuto comunque tempo per visitare alcune zone di Cali in cui non ero stato l’anno precedente, oltre a ritornare in altri posti da me invece già visti nel 2007, tra cui il Centro Comercial Chipichape da me tanto amato ed apprezzato. Tra i posti nuovi e significativi ho potuto vedere il Barrio Granada, zona “in” della città di Cali, con diversi negozi, ristoranti e locali decisamente di alto livello. Per noi europei, quantomeno per gli europei dell’Europa occidentale, è molto economico pranzare o cenare nei ristoranti colombiani, basti pensare che il prezzo da me pagato per una cena per due persone in un ristorante assolutamente chic del Barrio Granada ammontava a soli 38,00 € (!!). Poco distante da questo quartiere, a meno di dieci minuti di cammino, si trova la celeberrima, almeno qui a Cali, Sesta Strada, luogo dove si concentrano alcuni locali notturni dotati di un’illuminazione esterna molto ampia e vivace, stile Las Vegas o Moulin Rouge di Parigi. Non sono entrato nei bar e nei disco-pub che si affacciano sulla Sesta, ma, a giudicare da come appaiono dall’esterno, non sembrano posti tanto cool, come poi mi ha confermato Diana stessa: la Sesta era in auge circa vent’anni fa, e andare a rumbear lì – rumbear significa più o meno uscire a divertirsi – allora, era il massimo. Oggi, pur conservando ancora la sua natura di luogo di svago, non più.
Durante la mia seconda esperienza a Cali ho anche assaporato le melodie di salsa che pervadono questa città: nelle mie fuoriuscite notturne ho assistito in un bar all’esibizione di un gruppo di musicisti decisamente validi che eseguivano brani del genere sopra menzionato e, in un’altra occasione, ci siamo recati in un localino stracolmo di persone dove pure si suonava salsa, pieno a tal punto da non poter entrare all’interno e con gli avventori che sostavano sul marciapiede antistante e persino nella strada su cui il locale si affacciava. Il mio nemico principale durante le mie serate caleñe è stato il sonno: non so per quale motivo, forse perché risentivo del cambio di fuso orario, ma quasi ogni sera, neanche tanto tardi, diciamo verso le 11, sopraggiungeva l’abbiocco e dovevo fare una fatica immane per tenere gli occhi aperti e non dormire nei locali dove andavo con Diana, con conseguente e puntuale irritazione da parte sua.
Il 29 marzo, come già ho scritto, è stato celebrato il matrimonio che ha coronato la nostra storia d’amore. La festa è stata bella e gradevole e mi sono divertito; l’unica cosa che mi è apparsa strana è che qui in Colombia si mangia decisamente poco ai banchetti nuziali e, come compensazione, credo, si beve tanto: un’amica di Diana, nonché mia testimone di nozze, è stata portata ad un certa punto via dalla festa in braccio dal fidanzato, perché non riusciva più a reggersi in piedi a causa dell’alcool e anch’io, pur non essendomi affatto sbronzato, avevo un cerchiolino alla testa sul finire della serata. Dopo ancora qualche giorno trascorso a Cali all’insegna dell’ozio più totale e dopo aver visitato la casa di un’amica della madre di Diana di una sfarzosità e di un lusso mai visto da me prima d’allora in un’abitazione privata, siamo volati a Bogotà, la capitale, dove mia moglie aveva un appuntamento all’Ambasciata Italiana per richiedere il visto per venire in Italia. Bogotà è una città molto grande, probabilmente l’aggettivo più adeguato per definirla è immensa, visto che conta quasi 8.000.000 di abitanti nel suo comune, i quali diventano 11.000.000 se si considera l’intera sua area metropolitana, e, oltre ad avere questa caratteristica, è pure una città molto bella e moderna, almeno nella zona dove io ho soggiornato, ossia la zona settentrionale. So che anche qui, tuttavia, esistono le bidonville e che vi è un’ampia fascia di popolazione che vive ben al di sotto della soglia di povertà, ma, in ogni caso, la parte di Bogotà in cui io mi trovavo era, ripeto, decisamente residenziale e gli edifici e le strade erano architettonicamente nuovi e recenti. La capitale colombiana sorge su un altipiano andino a 2.600 m di altitudine sopra il livello del mare e, pertanto, il clima in questa città, pur essendo situata a poche centinaia di chilometri a nord della linea dell’equatore è, come risulta facile immaginare, fresco. Per rendere un’idea, come da noi nella prima parte dell’autunno. L’abbigliamento più adeguato a Bogotà può essere costituito, a mio parere, da felpe e maglioncini di cotone. Anche i sui abitanti, che in Colombia vengono chiamati rolos, dal modo con cui i primi colonizzatori spagnoli di questo posto pronunciavano la erre quando parlavano, così almeno ho letto su Internet, sono mediamente più “freddi” degli altri colombiani, meno estroversi, meno chiassosi e meno amanti del divertimento. Vi è un’assoluta predominanza di persone di origine europea, e vi sono pochissimi neri, meticci e nativi americani. Non è una forzatura dire che mi sembrava di essere in Italia a Milano o a Brescia, la città da cui provengo. Bogotà non mi è piaciuta, non perché non fosse una bella città, di fatto ho affermato poco sopra il contrario, ma perché non era quello che io ricercavo dall’America Latina e che, al contrario, ho trovato a Cali e, a livello esponenziale, a Cartagena de Indias.
Diana ed io siamo rimasti nella capitale non ricordo se tre o quattro giorni, assorbiti quasi totalmente dalle pratiche burocratiche da sbrigare presso la sede diplomatica italiana per l’ottenimento del visto, che alla fine, grazie al cielo, le è stato concesso, e per questa ragione non abbiamo visitato il nucleo storico della città, chiamato La Candelaria, né altre parti della stessa. Curiosamente, mentre ero seduto al di fuori dell’Ambasciata in attesa della mia consorte che si trovava all’interno dell’edificio presso l’Ufficio Visti, al quale possono accedere solo i cittadini stranieri, ho conosciuto un ragazzo di venti anni italo-peruviano, nato in Perù da madre peruviana e padre italiano, e poi vissuto da quando era bambino nel nostro Paese. Egli, come me, aspettava la moglie colombiana che si trovava nello stesso ufficio dov’era la mia. La cosa che mi ha sorpreso è che questo tipo ha conosciuto sua moglie, come capitato a me, su Internet ed è venuto in Sud America già con l’intenzione di sposarsi con questa, come poi ha fatto, senza però averla vista in carne ed ossa prima di allora.
Il giorno 5 aprile mi sono separato, non legalmente, s’intende, da Diana per ritornare in Europa. Ora la sto aspettando con ansia e trepidazione: a giorni, il 9 giugno, arriverà in Italia per iniziare a vivere con me. Te amo, Diana! Te amo, Colombia!