In Cina ma senza aspettare le Olimpiadi
La scelta, questa volta, è caduta sulla Cina: partenza il 27/8/’07 e ritorno l’08/9/07.
Le tappe sono quelle classiche: Pechino, Xian, Guilin, Shanghai, Suzhou.
Dopo lunghe serate trascorse a visitare vari siti di tour operators cinesi la scelta è caduta su China Highlights.Com, un operatore che mi proponeva decisamente alberghi di livello superiore rispetto agli altri (un 5 stelle cinese non è paragonabile ad uno di catene internazionali).
Acquisto i biglietti con Alitalia, al prezzo di 940 euro per adulto (io e mia moglie) e di 750 euro per la bambina; non è poco ma tenete presente che l’acquisto è avvenuto a giugno e del resto, a voler optare per soluzioni più economiche, bisogna mettere in conto i tempi di volo: le tratte internazionali sono Brindisi-Roma-Pechino e Shanghai-Milano-Roma-Brindisi.
Concordo con Sunny Xie (il mio travel advisor che poi scoprirò essere una ragazza!) il programma di viaggio che comprende trasferimenti in auto privata, guida in italiano, prima colazione e pranzo o cena, ingressi a musei ed attrazioni in genere, voli interni: il tutto al non modico prezzo di poco più di 5.000 euro.
L’agenzia cinese pretende un acconto del 10% al momento della prenotazione ed il saldo 30 giorni prima della partenza: effettuo il pagamento con Paypal e, superata qualche perplessità iniziale sull’onestà dell’operatore dopo aver contattato alcuni TPC che se ne erano serviti, provvedo al pagamento.
Acquistata l’assicurazione di viaggio (viaggiaresicuri) ed ottenuto il visto con Romana Social Tour (un po’ cari), il 27 agosto siamo pronti per la partenza.
Ci muoviamo da Brindisi e purtroppo, all’accettazione, ci dicono che non possiamo fare il check-in sul Roma-Pechino perché il volo è operata da Air China.
Giunti a Roma in perfetto orario ci affanniamo alla ricerca di un banco transiti dove fare l’accettazione ma scopriamo, con sgomento, che l’aereo per Pechino partirà con 4 ore di ritardo; in effetti diventeranno 5 perché, in luogo delle 20,10, lasciamo Roma alle 01,05! L’attesa è estenuante, nonostante la cena offerta dalla compagnia aerea: ci sono un sacco di cinesi al gate che dormono per terra e questo è solo un lontano anticipo di quello che vedremo in seguito.
Finalmente si parte: l’aereo, un Boeing 747 pieno in ogni ordine di posti, è nuovo – come tutti gli aerei che prenderemo in Cina – ed è abbastanza confortevole.
Mi ha favorevolmente colpito il fatto che le hostess, ad intervalli regolari, si muniscono di guanti e disinfettanti e provvedono alla pulizia delle toilette che sono praticamente immacolate.
Il volo scorre via regolare, interrotto dalla cena servita alle 3,00 di notte – primo impatto con la cucina cinese – e dagli altri appuntamenti culinari necessari in un volo di oltre 10 ore.
Non riusciamo a recuperare il ritardo sicchè, piuttosto che arrivare alle 12,00 ora di Pechino, giungiamo a destinazione alle 17,00: a bordo vi verrà consegnato un modulo per le formalità doganali mentre un altro, relativo ai beni al seguito, lo compiliamo mentre siamo in fila in aeroporto.
La nostra guida ci attende al di fuori del varco aeroportuale, con un cartello con su scritto il nostro nome: è un ragazza che parla solo inglese e che ci porta al nostro hotel, il Crowne Plaza, sulla Wangfuijng, la via pedonale di Pechino.
Mentre si congeda abbiamo una prima sorpresa: la guida pretende 50 yuan (€ 5,00) per la trasferta e si badi che il tour operator aveva parlato di mance facoltative! Dopo un breve riposo, mentre ormai cala la sera, ci avventuriamo nella capitale cinese a spasso su questa via pedonale dove è ubicato il nostro albergo; ci colpiscono subito le dimensioni di tutto ciò che ci circonda, le distanze tra gli isolati sono notevoli, avvertiamo nell’aria odori nuovi a volte stimolanti ed a volte nauseabondi, eppure siamo nella via centrale della città.
Cerchiamo invano un ristorante indicato sulla Lonely tanto che alla fine, stremati dalla passeggiata sulla Wangfuijng lungo la quale si affaccia la chiesa di S. Giuseppe (ovviamente trasformata in museo), ripieghiamo su un KFC pur di andare a dormire.
Il giorno dopo comincia con una ricca colazione – fatta quasi faticosamente, considerato che in Italia sono ancora le 2,00 del mattino – che ci metterà al riparo da cali glicemici per buona parte della giornata.
Alle 9,00 abbiamo appuntamento con la nostra guida – molto poco cinese perché è un ragazzone grande e grosso – che si presenta col nome italiano di Massimo (questa è un’abitudine di tutte le guide che avremo, nel senso che i loro nomi sono spesso impronunciabili e quindi scelgono a caso un nome italiano).
La sua padronanza della lingua, tuttavia, non è granchè tanto che buona parte della conversazione finisce per essere fatta in inglese.
La prima meta del mattino è l’immensa piazza Tian’anmen, dove vediamo il mausoleo di Mao, per poi dirigerci verso la Città proibita: lo so che la cosa è fin troppo scontata ma mi sono tornate alla mente le scene del film di Bertolucci! Mentre attendiamo che Massimo faccia i biglietti prendiamo consapevolezza di un fatto curioso che ci accompagnerà per tutto il viaggio (destando un po’ di risentimento in mia figlia): i cinesi sono poco abituati a vedere i bambini occidentali e quindi non si lasciano sfuggire l’occasione di fare una foto insieme a mia figlia che, anche quando non viene fotografata, viene osservata in maniera insistente, con una curiosità neanche troppo celata.
La visita della Città proibita si snoda attraverso una serie ripetitiva di costruzioni che, alla fine, finiscono per assomigliarsi tutte, anche perché riproducono il medesimo schema: sono tutte divise da cortili e scalinate.
Insomma non è un palazzo imperiale nel senso in cui siamo abituati a pensare noi occidentali (un corpo unico), ma tanti edifici ognuno dei quali destinato a funzioni diverse della vita di corte: l’interno, in genere, è poco arredato ma, in compenso, la folla di cinesi che accalcano le porte di accesso è immensa e riesce difficile fare delle foto! Una volta usciti dalla città proibita Massimo ci propone di andare a pranzo, lasciandoci un po’ basiti: sono solo le 12,00! Capiamo subito che, in Cina, gli orari dei pasti sono molto diversi dai nostri.
Poiché ci vede titubanti all’idea di andare a mangiare ci propone (o ci impone?) la visita di una fabbrica della seta: esperienza interessante ma non in programma e che si ripeterà, purtroppo, per tutti i giorni della nostra permanenza in Cina, anche perché le guide prendono la provvigione sugli acquisti.
Cediamo, infine, alle insistenze della guida e veniamo condotti nel ristorante che l’agenzia ha prenotato per noi, il Wahaha Restaurant, nei pressi dell’hotel Red wall.
Nel foglio di viaggio si magnificano i piatti di questo ristorante ma, considerato che il menù è predisposto, abbiamo ben poco di che sbizzarrirci, non tanto per la quantità ma per i sapori decisamente lontani dai nostri (ma siamo solo all’inizio del viaggio e divoriamo quasi tutto).
Il pomeriggio prosegue con la visita del tempio del Cielo, molto bello, anche perché situato in posizione panoramica e con una bella vista della città; le architetture si ripetono e la scarsa competenza della nostra guida non ci permette di apprezzare molto di più del lato architettonico, pure interessante per la simbologia (gli animali su ognuno degli angoli del tetto), nonché per gli accesi colori (il tutto frutto di pesante restauro).
La giornata non può che concludersi con la visita di un altro negozio, questa volta di perle di acqua dolce: solita dimostrazione – per la verità interessante – ed acquisto di perle da parte di mia moglie (nei negozi governativi, a quanto ci viene detto, non si praticano sconti ma impareremo, durante il nostro soggiorno, che non è sempre così).
Poiché abbiamo guadagnato un po’ di tempo rispetto alla tabella di marcia la nostra guida ci propone di anticipare ad oggi la visita degli Hutong, i quartieri popolari ed antichi della città che cercano di resistere alla furia edilizia che pervade la capitale.
Una volta giunti nei pressi del quartiere prendiamo posto sui risciò (ricordo ancora la fatica del cinese che scarrozzava me e Massimo per gli stretti vicoli del quartiere), per poi addentrarci in un dedalo di vicoli costeggiati da case tutte grigie e povere, ma con la parabola e l’aria condizionata.
La guida ci porta a visitare una casa, sono tutte organizzate intorno ad un cortile centrale su cui si affacciano le varie stanze, ognuna destinata alle varie funzioni della casa; ci sono anche le stanze dei figli sposati mentre la cucina ed il bagno sono nel giardino, il giardino dove il padrone di casa ci invita a prendere il tè e ci racconta la storia della sua abitazione. Riprendiamo la via dell’hotel ma, prima che la nostra guida ci lasci, ci facciamo dare una dritta sul ristorante che cercavamo la sera prima, nonché sul mercato segnalato sempre dalla Lonely.
Dopo una pausa in albergo per ritemprarci della giornata abbastanza calda e faticosa, ci caliamo di nuovo per la Wangfujing, dove realizziamo che il nostro ristorante era proprio sotto il naso: lo cercavamo in un palazzo a sé ed invece era collocato al 5° piano di un centro commerciale, nei pressi della chiesa di S. Giuseppe.
Il ristorante, ubicato al n.138, si chiama Donglaishun ed è diviso, almeno così pare, in due zone, una riservata ai turisti, dove veniamo fatti accomodare.
La specialità della casa è la marmitta mongola: si tratta di una sorta di grande braciere con un cono pieno di carboni, circondato da una specie di bacinella dove c’è del brodo portato ad ebollizione.
Insieme a questa marmitta, collocata al centro del tavolo, vengono serviti numerosi piatti pieni di un po’ di tutto, in prevalenza sottili strisce di carne di varia natura, germogli d’aglio, formaggio di soia e quant’altro; il tutto si consuma dopo un breve passaggio nel brodo, per dare modo ai cibi di cuocersi, nonché un ulteriore passaggio in una delle tante ciotole contenenti salse diverse (e non sempre gradevoli).
Una bella esperienza che consiglio, forse un po’ cara per gli standard cinesi (abbiamo preso le porzioni complete per due adulti, anche se c’era la bambina, accompagnata da birra locale); conto sui 30 euro ed abbiamo lasciato molti piatti intonsi, non foss’altro per l’odore.
Cominciamo a prendere consapevolezza del fatto che nostra figlia non ama affatto la cucina cinese, tanto che nei giorni successivi saremo costretti a visite quotidiane a Mac Donald’s e Pizza Hut.
Il giorno dopo ci attende una lunga trasferta nel nostro pulmino privato, in direzione di Mutyanu (2 ore e mezza), dove andremo a visitare la Grande Muraglia: è un po’ più distante dell’altro settore visitabile, quello di Badaling, ma pare che sia anche più tranquillo.
Prima di arrivare a quello che è sicuramente uno dei must del viaggio, ci fermiamo a visitare la Via Sacra, una zona dove un tempo erano delle tombe reali di cui non è rimasto altro che una lunga passeggiata in uno splendido parco, per una via ai bordi della quale si trovano grandi statue di animali in pietra.
Prima di recarci alla Grande Muraglia facciamo la sosta al ristorante di una fabbrica di cloisonne (oggetti di rame filigranato e smaltato), dove finiamo per acquistare alcuni oggetti di pregevole fattura; ci facciamo furbi e, dopo esserci mostrati indignati per i prezzi indicati sugli oggetti, riusciamo ad ottenere i primi consistenti sconti).
Dopo un altro breve tragitto raggiungiamo la nostra meta: i nostri occhi puntano verso le cime delle montagne che ci sovrastano, riuscendo a scorgere il lungo serpente di pietra che si snoda sulla cresta.
Raggiungiamo la base della muraglia con una teleferica che ci permette di godere dello stupendo panorama, soprattutto quando si è in prossimità della muraglia e se ne può apprezzare l’enormità.
Trascorriamo quasi tre ore a scarpinare in su ed in giù per i bastioni che seguono l’andamento naturale delle montagne, con dislivelli paurosi per i quali si fatica persino a mantenersi in equilibrio: la fatica è tanta ma merita davvero.
Riprendiamo la via di Pechino, non senza aver prima fatto numerose foto con gruppi cinesi che, come al solito, ambiscono a farsi ritrarre con nostra figlia.
La sera, prima di rientrare in albergo, ci fermiamo a cenare a base di anatra laccata al ristorante Hepingmen Quanjude: qui, tra centinaia di tavoli e di commensali intenti a cenare, gustiamo la famosa anatra laccata che un cameriere con una maschera chirurgica affetta con orientale maestria.
Tuttavia, dopo essere rientrati in hotel, decidiamo di andare a curiosare nel mercato alimentare situato in una traversa della Wanfujing: lo consiglio vivamente perché nelle numerose bancarelle sistemate una accanto all’altra potrete farvi un’idea di cosa sia la cucina in cina.
Infatti si vende di tutto, dagli spiedini di scorpione a quelli di serpente, dalle tartarughe arrosto ai dolci dai gusti più improbabili; insomma vale la pena di venire a cenare qui, anche considerati i prezzi molto abbordabili.
Il giorno seguente dobbiamo preparare le valige, perché abbiamo il trasferimento per Xian, quindi partiamo un po’ più tardi.
Il programma prevede la visita dello zoo, molto bello, dove ammiriamo i simpatici panda, per la gioia di mia figlia.
Dallo zoo prendiamo un battello che ci conduce, attraverso un sistema di canali risalenti alla dinastia Quing, al palazzo d’estate, una bellissima zona verde, piuttosto che un palazzo, con tanti paesaggi suggestivi ed alcuni templi dalla tipica forma cinese; la gente è sempre tanta.
Anche oggi non poteva mancare la visita di un negozio, questa volta si tratta di una sala da tè, dove ci vengono fatte degustare le varie specialità e, alla fine, finiamo per acquistare le famose foglioline per un prezzo probabilmente esorbitante.
Veniamo quindi condotti all’aeroporto, dopo aver fatto una sosta nei pressi dello stadio olimpico, avvolto in sorta di densa foschia causata dall’inquinamento: la struttura a nido d’ape è davvero avveniristica.
Dopo avere salutato la nostra guida ed avergli lasciato una mancia abbandoniamo Pechino con un volo dell’Air China per Xian; l’aereo parte in ritardo e da una postazione internet dell’aeroporto mi preoccupo di mandare una mail al tour operator.
All’arrivo ci attende una ragazza molto gentile che ci fa subito dimenticare la nostra guida a Pechino perché conosce molto bene l’italiano.
Il tragitto dall’aeroporto all’hotel è, come al solito, abbastanza lungo: illuminate dalle luci della sera vediamo una periferia abbastanza squallida, fatta di caseggiati con al piano terra una fila interminabile di saracinesche che chiudono tanti negozietti in cui vivono (lo apprenderemo successivamente) gli stessi commercianti con le loro famiglie.
Il nostro hotel a Xian è l’Howard Johnson Ginwa Plaza, moderno e ben collocato a ridosso delle mura della città ma decisamente non paragonabile a quello di Pechino.
Dalla nostra finestra abbiamo una vista panoramica sul centro di Xian: le mura sono tutte illuminate da luci colorate che disegnano, altresì, il profilo di alcuni templi, il tutto al suono della musica proveniente da una vicina discoteca, situata dall’altro lato della strada.
La mattina seguente incontriamo la nostra guida, dopo una abbondante colazione, nella hall dell’hotel; tra lei e mia figlia si stabilisce subito un feeling che la porterà a prestarsi a tutti i giochi in cui Marianna la coinvolgerà.
La prima meta della giornata sono le mura della città, cui accediamo da una porta situata a pochi metri dal nostro hotel; passeggiata sui bastioni e visita di un negozio collocato proprio sulle mura ma, per fortuna, la nostra guida è poco interessata a farci acquistare merci, piuttosto le interessa conoscere qualcosa di più dell’Italia, sicchè si avvia una piacevole conversazione.
La tappa successiva è il sito preistorico di Banpo: un villaggio neolitico ben valorizzato ma di cui avrei fatto volentieri a meno, come mi sarei risparmiata anche la visita di un altro negozio dove vengono realizzati copie dei famosi guerrieri di terracotta.
Sosta per il pranzo al ristorante Dawacheng, forse il meno caratteristico tra quelli visitati sinora ma che si rivelerà, di gran lunga, il migliore tra quelli dell’intero tour.
Finalmente raggiungiamo, dopo un breve percorso in macchina tra file di campi coltivati a melograno (un frutto molto in voga da queste parti), il sito dei guerrieri di terracotta.
All’ingresso, passati i metal detector, saliamo a bordo di macchine elettriche che, dalla biglietteria, ci portano ai padiglioni dove sono situate le statue: un consiglio, il tragitto non è breve e quindi vale la pena farsi trasportare. Il primo padiglione è, senza dubbio, quello più bello poiché si affronta questa armata di guerrieri che fuoriesce dal terreno argilloso a ricordare la potenza dell’imperatore che li volle a difesa della sua sepoltura.
La gente è tanta ma si può girare lungo il perimetro dell’immenso padiglione ed osservare con cura le statue anche se, devo dire, la migliore visuale – ma anche la più congestionata – si ha proprio dall’ingresso.
Ci soffermiamo a guardare una zona del padiglione dove assistere ai lavori di restauro, comprendendo lo sforzo enorme che si comprende essere stato profuso posto che l’esercito non è altro che un ammasso di pezzi appena riconoscibili, una volta estratto dal terreno.
Gli altri due padiglioni (poco illuminati) ripropongono altre statue (quelle degli ufficiali, i carri da battaglia etc.), nonché delle teche di cristallo dove sono custoditi alcuni tra i più bei esemplari di statue, con i loro colori originali, oramai spariti da quelli esposti all’aria ed alla luce; interessante, anche se quasi inavvicinabile per la ressa, il grande carro di bronzo con cavalli.
Dopo aver completato la visita ritorniamo a bordo delle golf-car che ci riportano verso l’ingresso, riguadagnato dopo aver superato schiere di venditori ambulanti che vendono classici souvenir per turisti (abbiamo acquistato una guida illustrata in italiano, taroccata perché, a differenza di quelle originali che vendono ad un prezzo di 4 volte superiore nei negozi, la nostra recava degli errori di testo).
La sera, rientrati in albergo, decidiamo di fare un giro per il centro della città, lungo la via principale piena di negozi e di giovani che si accalcano per entrare in locali notturni: notiamo schiere di giovani hostess – abbigliate tutte allo stesso modo ed ordinate in 2 file – che presidiano l’ingresso di questi locali invitando gli avventori ad entrare.
Il giorno seguente visitiamo la moschea di Xian, una città dove vi è una forte presenza di musulmani che si avverte già aggirandosi nel quartiere che ospita l’edificio, molto simile ad un mercato arabo.
La moschea ha poco delle analoghe strutture sparse nel resto del mondo, nel senso che è uno dei classici templi cinesi, con giardini che si alternano a padiglioni di varie fogge fino a giungere a quello finale – la moschea propriamente detta – dove viene tuttora esercitato il culto.
Prima di uscire dal comprensorio della moschea ci fermiamo dinanzi ad un piccolo negozio, posto vicino all’ingresso, che espone dei vasi cinesi d’epoca.
Mia moglie avvia una estenuante trattativa con il commerciante il quale, al momento di definire il pagamento, ci chiede se siamo musulmani e, avutasi una risposta negativa, si rifiuta di venderci il vaso.
Rimediamo, tuttavia, con un lungo giro nei negozi disseminati nei dintorni della moschea, dove troviamo una signora che vende oggetti d’epoca molto belli e ad un prezzo ragionevole: finalmente abbiamo il nostro primo vaso cinese che diventerà, di lì a poco, il bagaglio a mano in cabina.
Altra tappa d’obbligo è la pagoda dell’oca selvatica, bella costruzione di sette piani che si erge all’interno di un’area religiosa dove si ripercorre, anche con l’ausilio di documenti originali, la storia della diffusione del buddismo in Cina: interessanti gli ex voto (costituiti da tavolette di legno sulle quali i fedeli scrivono i loro desideri), appesi ad una struttura lignea piazzata davanti ad una statua di Budda che risplende dorata nel giardino.
Nei pressi della pagoda vi è una fontana musicale che, ad orari fissi, diffonde musica prodotta attraverso il getto dell’acqua, secondo quanto riferitoci dalla nostra guida, visto che non abbiamo potuto assistere allo spettacolo per problemi di tempo. Il pranzo lo consumiamo al ristorante Minjianwagang, al cui ingresso un paio di corpulenti cinesi si occupano della cottura di intrugli vari all’interno di enormi vasi di coccio: pranzo niente male che termina con l’assaggio della grappa di serpente, scelta tra tre diverse varietà al prezzo di un euro al bicchiere (la differenza risiede nel tipo di serpente in infusione, noi optiamo per un rettile dai colori molto sgargianti!).
Mi dispiace non poter indicare l’indirizzo esatto del ristorante perché, pur essendomi fatto consegnare a fine pasto il biglietto da visita, non sono riuscito a decifrarlo in quanto scritto solo in cinese.
Nel pomeriggio prendiamo il volo per Guilin dove, per la prima volta, giungiamo in perfetto orario, forse perché non abbiamo volato con Air China ma con China Eastern: aerei nuovissimi e servizio impeccabile (le hostess, scusate se mi ripeto, si occupano della pulizia delle toilette indossando guanti e brandendo grosse spugne ad intervalli di 15 minuti!).
Il tempo, al nostro arrivo, non è dei migliori e tale si manterrà per tutta la nostra permanenza; la guida che ci attende all’aeroporto si chiama Lisa e lavora generalmente per il tour operator italiano Mistral, anche se adesso è in maternità e ci dice che ci sta facendo da guida perché non ha potuto dire di no al suo capo.
Il nostro hotel è il Lijiang Waterfall, situato in pieno centro, il cui nome deriva dal fatto che ogni sera alle 20,00 dalla sua facciata posteriore viene giù una vera e propria cascata d’acqua lungo la parete inclinata.
In effetti solo dopo aver visto lo spettacolo abbiamo capito perché la nostra stanza era munita – come tutte quelle situate nello stesso lato dell’edificio – di una sorta di doppia parete di vetro con le finestre bloccate.
Dopo esserci sistemati andiamo a fare un giro sul lungo lago che si apre dinanzi all’hotel ed apprezziamo subito la magia di alcuni templi che spuntano dall’acqua illuminati di luci colorate; un po’ tutta la città è illuminata da mille colori, ancora più magici con le strade bagnate dalla pioggerellina che cade a tratti.
La nostra passeggiata si conclude nella piazza principale della città – proprio dietro l’hotel – tra bancarelle che offrono mercanzie di ogni tipo e delimitano un quartiere dove ci aggiriamo non senza qualche problema di stomaco, visto che ci sono negozietti dove si cucina e si mangia in condizioni igieniche raccapriccianti ma, allo stesso tempo, affascinanti.
Il mattino seguente ci svegliamo sotto un tempo minaccioso che non promette nulla di buono e difatti, appena giunti all’imbarcadero da cui prenderemo la nave fluviale che ci condurrà in crociera sul fiume Li, si scatena un temporale che ci perseguiterà per tutta la durata della navigazione.
Il paesaggio che ammiriamo dal ponte superiore è superbo, mi ha fatto tornare in mente le scene di Rambo che corre nelle risaie vietnamite (in effetti siamo a circa trecento chilometri dal confine); lungo il percorso la nave si infila tra le gole aperte dal fiume tra alti picchi ricoperti di fitta vegetazione.
Durante le tre ore di percorso copriremo la distanza che separa Guilin da Yangshuo assistendo alle evoluzioni dei cormorani che, addestrati dai pescatori in attesa a bordo di minuscole canoe o sulla riva, si gettano nelle acque del fiume a caccia di pesce.
I venditori cinesi, manco a dirlo, non mancano anche qui: infatti si accostano alla nave a bordo di piccole barche a motore cercando di vendere sculture di giada (o presunta tale) ai passeggeri che si sporgono dagli oblò.
Dopo il pranzo a bordo arriviamo a Yangshuo – ove è prevista una passeggiata in bicicletta nelle campagne circostanti – ma il nostro primo problema diventa quello di trovare degli ombrelli per ripararci.
Considerata l’inclemenza del tempo ne approfittiamo per fare un giro in una strada commerciale nei pressi del porto, piena di negozi che vendono merci taroccate; non sappiamo resistere alla tentazione e così, con il pretesto della pioggia, acquisto una giacca a vento Timberland per me ed una North Pole per mia figlia al prezzo complessivo di 23 euro, ivi compreso un braccialetto regalato dalla proprietaria a Marianna. La guida, approfittando di una tregua del maltempo, ci porta in un chiosco dove si noleggiano biciclette: io e mia figlia inforchiamo un tandem mentre mia moglie ci segue con una classica bicicletta cinese.
Il giro nei dintorni di Yangshuo (che è un “villaggio” di 200.000 anime) si rivela davvero molto suggestivo, anche se faticoso sia per la pioggia che riprende a cadere che per il traffico di motocicli e pedoni che si muovono senza regola anche al di fuori del centro abitato.
In compenso il paesaggio è quello tipico che si vede nell’iconografia cinese, con risaie allagate dalla pioggia e la nebbiolina che copre in parte le vette più alte delle centinaia di appuntite colline che costellano il territorio.
Dappertutto si intravedono piccole case rurali con tetti quasi fatiscenti ma dotati di parabola satellitare e pannelli solari, molto diffusi in Cina.
Stremati dalla fatica e dal maltempo ritorniamo nel villaggio dove, con qualche difficoltà di orientamento, ritroviamo la nostra guida che ci attende tranquilla nel piccolo autobus che ci riporterà a Guilin.
La sera, su indicazione di Lisa, assistiamo ad uno spettacolo folcloristico in un teatro nei pressi dell’hotel, dove gli artisti si esibiscono in danze e balletti popolari, indossando i costumi tipici delle minoranze, molto presenti in questa zona della Cina (assolutamente vietato fare foto durante l’esibizione, potete attendere la fine dello spettacolo quando le ballerine, con i loro magnifici costumi, posano per gli spettatori nell’atrio del locale).
L’indomani, sotto un tempo nuvoloso, la guida ci porta a vedere la grotta del flauto di bambù, una formazione carsica molto bella anche se eccessivamente illuminata per attrarre i turisti.
All’uscita orde di ragazzini e di donne propongono l’acquisto di piccoli flauti di bambù: il prezzo di mercato è di 1 yuan ma se darete di più ai bambini non potrete che farli felici, evitando anche inutili contrattazioni per oggetti che non costano più di qualche centesimo di euro.
La seconda tappa è il parco della collina dell’elefante, così chiamata per via di una roccia che ricorda vagamente il profilo del grande mammifero.
L’entrata è a pagamento (ovviamente il biglietto è compreso), ma dentro – a parte il giardino ben curato – ci sono solo specchietti per turisti, ovvero personaggi in costume tradizionale che pretendono soldi per farsi ritrarre; tra loro fotografo solo un vecchio pescatore che reca sulle spalle una canna di bambù sulla quale penzola sonnacchioso un cormorano, nonché una signora in abiti della sua etnia che realizza cravatte a mano.
Purtroppo arriviamo in ritardo al ristorante dove è previsto il pranzo (alle 14,00 non si mangia più!), sicchè ne approfittiamo per recarci in una specie di clinica dove assistiamo ad una esibizione di tai chi, una danza che viene praticata dai cinesi che affollano i parchi cittadini proprio per fare sfoggio di questi lenti ma coordinati movimenti.
Con l’occasione, mentre mia moglie ne approfitta per un massaggio dei piedi al costo di 10 euro, raccolgo qualche confidenza da Lisa che mi informa che l’agenzia paga le guide italiane dai 3 ai 5 euro al giorno, a secondo della competenza, sicchè il loro maggior guadagno finisce per diventare la provvigione che percepiscono dai negozi visitati durante le escursioni. Terminata la sosta all’interno della “clinica”, dove un cortese medico cinese che studia l’italiano per hobby ci tiene compagnia, dirigiamo verso l’aeroporto, imbarcandoci per Shanghai: viaggio con molte turbolenze ma, fortunatamente, all’arrivo il cielo della sera è sereno.
Dopo l’incontro con Gabriella, la nostra nuova guida, raggiungiamo il centro della città e ci rendiamo subito conto del fatto che gli spostamenti a Shanghai sono qualcosa di impressionante: piccoli tragitti di 1 o 2 chilometri possono portare via anche un’ora! La mattina dopo, dopo aver fatto una mega colazione (occidentale) al nostro hotel (Radisson Sas, proprio sulla Nanjing Road, la via di Nanchino, principale arteria pedonale dello shopping) iniziamo il tour della città partendo dalla visita del Museo.
Una struttura moderna dove si può fare un’escursione nella vita e nella cultura artistica cinese dall’età del bronzo ai tempi più recenti.
Molto belle le sale destinate alla ceramica, ai dipinti su seta (le teche in cui sono contenuti si illumineranno al vostro arrivo), nonché ai costumi tradizionali.
La seconda tappa della giornata è la torre della televisione (Oriental Pearl Tower), dove saliamo sino all’ultimo piano (486 mt.) per godere del panorama della città: molto bella la vista sui due fiumi che bagnano la città e che si incrociano proprio al di sotto della torre.
Tutto intorno alla torre, peraltro, è un fiorire di cantieri, tra i quali quello del grattacielo più alto della Cina che dovrebbe ben presto diventare uno dei tanti primati di questa enorme nazione.
Ritornati a terra ci dirigiamo verso un posto davvero magico, il giardino del mandarino Yu, un classico esempio di giardino cinese con quell’atmosfera magica che fa parte dell’immaginario collettivo di tutti noi.
Il giardino è situato all’interno del quartiere detto Yu Market, una sorta di grande bazar creato apposta per i turisti all’interno di edifici ricostruiti in stile tradizionale: con non poca fatica allontaniamo i rivenditori di Rolex e borse di stilisti famosi.
Dopo il pranzo al ristorante Zi Jin Cheng (la cucina a Shanghai predilige il sapore dolce rispetto al piccante delle altre regioni), passiamo il pomeriggio a passeggiare lungo il Bund, il lungofiume dove si ha una vista spettacolare della città moderna (il quartiere della torre della televisione è esattamente sull’altra sponda), mentre al di qua, dalla parte della via Nanchino, è possibile ammirare lo stile europeo degli edifici della concessione francese.
La sera, dopo esserci riposati in albergo, facciamo una passeggiata lungo la via Nanchino, sfavillante di insegne al neon ed illuminata a giorno; qui ci sono i negozi delle più prestigiose griffe internazionali ma si intravedono anche, in piccole vie laterali, spaccati di vita cinese.
Infatti sono numerosi i piccoli locali dove nugoli di cinesi mangiano delle pietanze che, alla vista, sembrano tutt’altro che appetitose! Lungo la via i venditori ambulanti sono molto insistenti: in genere non hanno la merce con loro ma dei semplici cataloghi che mostrano ai potenziali acquirenti, invitandoli a seguirli in oscuri violetti; seguiamo il consiglio della guida che ci segnala che molti turisti sono stati derubati di tutto e lasciamo perdere.
Il giorno seguente è la volta dell’escursione a Suzhou, pretenziosamente definita la Venezia della Cina.
Uscire da Shanghai ci porta via un sacco di tempo e, durante il tragitto, ci rendiamo conto che i 200 km che separano le due città sono un’enorme zona industriale, senza soluzione di continuità.
Infatti, ci dice Gabriella, i terreni edificabili a Shanghai hanno raggiunto prezzi esorbitanti e di conseguenza le aziende straniere – che qui hanno impiantato le loro fabbriche – si sono spostate verso Suzhou.
Dopo un viaggio di due ore arriviamo alla nostra meta: per prima cosa veniamo condotti in una fabbrica della seta, dove ci viene illustrato il ciclo di produzione, dal baco al tessuto finale.
I prodotti sono davvero di qualità e mia moglie decide di acquistare una sorta di piumone in seta per nostra figlia: dalla sua ha il vantaggio di essere leggerissimo ed utilizzabile anche nelle mezze stagioni (lo abbiamo sperimentato al ritorno).
Dopo un piccolo spuntino andiamo a visitare il giardino dell’amministratore umile, probabilmente il più bello tra tutti i giardini che abbiamo visto, con enormi pesci rossi che nuotano nei laghetti e nei canali.
La giornata è splendida e la pace che si respira in questo posto riconcilia davvero con la vita e forse è anche questo il motivo che ha spinto il suo fondatore (un funzionario di lignaggio ritiratosi a vita privata per sfuggire alle maldicenze della corte imperiale), a realizzare questo giardino che è un inno all’armonia con la natura.
Il resto della visita alla città sarebbe stato meglio risparmiarselo.
Infatti siamo passati dal giardino alla fogna ( ma anche questo è Cina).
Mi spiego meglio.
Lasciato il quartiere del giardino siamo andati nei pressi di un’antica porta della città, dove c’è l’accesso al canale che percorre il centro storico.
Da qui abbiamo preso una barca a forma di drago che ci ha scorazzato in un dedalo di corsi d’acqua, dove si affacciavano abitazioni fatiscenti (il canale guardava, praticamente, il retro delle case).
La cosa ancor più grave, però, è stata la consapevolezza che la barca navigava in una vera e propria fogna a cielo aperto, con gli spruzzi provocati dal movimento dell’imbarcazione che raggiungevano inesorabilmente le nostre persone: insomma, una tappa da evitare.
L’ultimo giorno è a nostra disposizione: ci alziamo con calma e decidiamo di tornare al bazar del mandarino Yu; è stato molto bello abbandonare le via principali per spostarsi nei quartieri adiacenti, pieni anch’essi di negozietti frequentati anche dai cinesi; inutile dire che la parola d’ordine è trattare.
Dopo avere effettuato gli ultimi acquisti ed aver incontrato non poche difficoltà per trovare un taxi che ci riportasse in hotel, siamo ritornati nel nostro albergo per scaricare i souvenirs acquistati.
Dopo una breve pausa ristoratrice ci ritroviamo su via Nachino, diretti al Bund che raggiungiamo dopo una piacevole passeggiata: la nostra meta, in realtà, è un tunnel psichedelico (io lo definisco così), della cui esistenza ho letto sul sito nei racconti di altri viaggiatori.
Il tragitto di questa sorta di trenino sotterraneo si sviluppa al di sotto del fiume Huangpu e consente di raggiungere il quartiere della città dove sorge la torre della televisione ed una serie di altre costruzioni avveniristiche.
Durante la traversata – che dura pochi minuti – vengono proiettate sulle pareti del tunnel una serie di effetti luminosi molto coinvolgenti che tuttavia, dopo aver visto nel viaggio di andata, non sono poi altrettanto interessanti al ritorno.
La giornata ormai volge al termine, dobbiamo trovare un posto dove cenare e la nostra scelta cade su un fast food giapponese, dal prezzo competitivo rispetto alla qualità, situato sempre sulla via Nanjing.
Decidiamo di concludere la serata nel bar girevole situato sulla sommità del Radisson, dove si può godere di una spettacolare vista della città illuminata; dopo ci aspetta il gravoso compito di fare le valigie, impresa non da poco visto gli acquisti che abbiamo fatto in queste due settimane (abbiamo dovuto acquistare persino un altro trolley).
L’indomani ci aspetta un’altra giovane cinese per accompagnarci all’aeroporto; un consiglio che posso dare è quello di arrivare davvero per tempo perché i cinesi sono molto fiscali per quanto concerne il peso del bagaglio a mano (noi abbiamo dovuto imbarcare nella stiva non solo le valigie ma anche i trolley), nonché per il contenuto delle valigie (leggasi schiuma da barba e tutto ciò che è contenuto in bombolette sotto pressione).
Anche all’uscita dal Paese bisogna compilare un modulo per uso doganale (potrete trovare il fac-simile sul sito del consolato cinese a Milano), oltre a passare per una serie abbastanza noiosa di controlli.
Il volo Alitalia che ci riporta in Italia ci consente finalmente di mangiare all’occidentale, anche se la maggioranza dei passeggeri è di origine cinese; infatti sono figli del celeste impero che, finite le ferie, ritornano in Italia.
Concludendo posso dire che il viaggio in Cina è davvero un’esperienza unica, in quanto le differenze tra lo stile di vita occidentale ed orientale sono ancora profonde.
La Cina rappresenta, a mio avviso e non solo, il futuro dell’economia e della politica mondiali anche se, ritengo, il problema più grande con cui questa nazione deve confrontarsi è quello delle disuguaglianze sociali.
Invero sono ancora vistose le zone, anche all’interno delle metropoli, in cui la povertà della gente è una realtà amara sotto gli occhi di tutti (basta pensare alle tante persone che rovistano nella spazzatura per recuperare le bottigliette di plastica per il cui riciclo percepiscono 1 yuan a bottiglia).
Credo che la vastità del paese e le difficoltà della lingua rendano necessaria l’assistenza di una guida, anche perché consente, in ogni caso, di guadagnare sui tempi degli spostamenti.
Per il resto consiglio vivamente di non perdere la Città proibita, la Grande Muraglia e l’esercito di terracotta mentre, da un punto di vista naturalistico, Guilin è davvero impareggiabile; quanto a Shanghai può essere una tappa solo per coloro che sono interessati allo shopping.
Naturalmente, se avete qualcosa da chiedere, potete sempre scrivermi perché sono a vostra disposizione.
Un saluto a tutti.
Giovanni