In Algeria, nel Tadrart

E’ stato il mio primo viaggio in Africa ed è stato il mio primo viaggio nel deserto. Quando, pochi mesi prima di partire, mi avevano prospettato questa possibilità ero forse un po’ scettica. Io, da sola, probabilmente non ci avrei mai pensato. Però mi ricordavo le parole che avevo ascoltato alcuni anni fa da uno sconosciuto, durante una...
Scritto da: mabil
in algeria, nel tadrart
Partenza il: 09/04/2005
Ritorno il: 18/04/2005
Viaggiatori: in gruppo
Spesa: 1000 €
E’ stato il mio primo viaggio in Africa ed è stato il mio primo viaggio nel deserto.

Quando, pochi mesi prima di partire, mi avevano prospettato questa possibilità ero forse un po’ scettica. Io, da sola, probabilmente non ci avrei mai pensato.

Però mi ricordavo le parole che avevo ascoltato alcuni anni fa da uno sconosciuto, durante una proiezione di diapositive, che descrivevano le emozioni e le sensazioni di un viaggio di questo tipo e soprattutto della notte nel deserto. E in realtà, da quella volta, mi sono portata dietro una sottile curiosità o il desiderio di provare emozioni simili.

Alla fine il viaggio è stato deciso in tempi rapidi, senza la possibilità di riflettere più di tanto. Per Paola e Fabio, che mi avevano invitato a partire con loro si trattava del terzo viaggio nel deserto algerino e il loro entusiasmo era sufficiente a giustificare la mia decisione.

Poi, in tempi ancora più rapidi, si sono aggiunti Emanuela e Sergio e così il gruppo era fatto.

Siamo partiti un sabato mattina grigio e piovoso. Lungo l’autostrada che ci portava a Roma, all’aeroporto, pioveva in modo sempre più insistente. Ma noi eravamo contenti: noi stavamo andando al caldo! Nel primo pomeriggio ci siamo imbarcati sul volo Air Algerie destinazione Algeri. Il volo è partito puntuale e, dai commenti che ho potuto ascoltare, sembrava quasi un’eccezione. Arriviamo quindi ad Algeri in orario, ma se fossimo arrivati in ritardo non sarebbe stato un problema visto che il nostro aereo per Djanet partiva dopo sei ore.

Così ci aggiriamo per l’aeroporto, spostandoci più volte dall’edificio dedicato ai voli internazionali a quello dedicato ai voli nazionali, alla ricerca di un negozio o di un bar. Fa piuttosto freddo anche se il cielo è limpido e l’aria tersa.

Ci scaldiamo con il nostro primo té, facciamo qualche acquisto e poi ci mettiamo in paziente attesa chiusi nelle nostre giacche a vento e coperti dai nostri foulard.

Ci imbarchiamo per Djanet in tarda serata, stanchi ed infreddoliti.

Arriviamo a destinazione verso mezzanotte. L’aereo atterra nel nulla, si vedono solamente le luci della pista. Quando scendiamo finalmente siamo accarezzati da un’aria tiepida e profumata.

All’aereoporto ci aspetta Djaba la nostra guida, già amico di Paola e Fabio. Io l’avevo incontrato una volta in Italia ma ritrovarlo qui nelle sue vesti tuareg e nel suo ambiente fa tutto un altro effetto.

Nonostante l’ora tarda l’aeroporto è piuttosto animato, ma solamente da uomini. Mi colpiscono i colori dei vestiti tuareg e dei copricapi.

Percorriamo con le jeep i trenta chilometri che separano l’aeroporto dalla cittadina. Per tre di noi sono i primi chilometri nel deserto. L’albergo che ci attende è spartano ma confortevole e comunque, data la stanchezza, avremmo dormito anche in piedi.

La mattina ci risveglia un sole caldo. Apriamo la finestra e ammiriamo i colori degli ibiscus, delle bouganville, degli altri fiori e delle piante che spuntano nel cortile.

Ci ritroviamo tutti e cinque a colazione, finalmente con i nostri abiti estivi. Paola e Fabio sembrano proprio i protagonisti de “Il tè nel deserto”. Commentiamo il nostro meritato riposo e la presenza di animaletti vari nelle nostre camere.

Prima di iniziare il nostro tour nel deserto abbiamo qualche ora per visitare il paese. Un omino ci viene a prelevare per accompagnarci agli uffici del Parco dove dobbiamo sbrigare alcune formalità necessarie per accedere alla zona. Poi visitiamo il Museé du Tassili con testimonianze della cultura tuareg e dell’arte sahariana preistorica. Comincia a fare piuttosto caldo. Ci dirigiamo al mercato, lungo lo uadi. I banchi che vendono le stoffe sono molto colorati. C’è chi acquista lo shesh (il classico copricapo tuareg costituito da una lunga striscia di stoffa colorata), chi il vestito tuareg, chi il necessario per preparare il tè.

Ci rimane poco tempo, le jeep ci aspettano di fronte all’albergo. Conosciamo così gli altri nostri compagni di viaggio: la “grande guida sahariana” dal nome impronunciabile, Sidi l’autista dal sorriso dolce, Kalia “il grande cuoco” e Omar il tuttofare, oltre a Djaba.

Riprendiamo la strada che la notte precedente avevamo percorso venendo dall’aeroporto ma ad un certo punto lasciamo l’asfalto per seguire una pista indefinita.

Djaba ci racconta che un mese fa ha piovuto e infatti qua e la si vedono deboli macchie verdi generate da timidi fili d’erba che spuntano dalla sabbia. Ci racconta anche che quando piove tutte le attività (la scuola, il lavoro) si interrompono per assistere all’evento.

Ci fermiamo per il pranzo all’ombra di un’acacia. Siamo ancora in una zona dove si vedono i passaggi di altre persone. In lontananza, all’ombra di un’altra pianta ci sono altre jeep e probabilmente altri turisti.

Il pranzo è disturbato da un vento insistente. Prima di partire avevo letto che aprile, nel deserto, è un mese a rischio per le tempeste di sabbia. Un po’ preoccupata chiedo a Djaba se ha idea di come potrebbe evolvere la situazione climatica, ma la risposta è alquanto enigmatica: il vento potrebbe durare un giorno, due giorni, una settimana… Inshallah! Ci rimettiamo in cammino e ci allontaniamo sempre più dai segni di presenza umana. Lungo il percorso incontriamo un furgone stracarico di persone pigiate sul cassone. Ci spiegano che sono clandestini. Vengono dal Niger, percorrono 900 chilometri in quelle condizioni, poi li aspetta tre giorni di cammino a piedi per attraversare il confine con la Libia dove si fermeranno il tempo necessario, anche un anno, per guadagnare i soldi sufficienti a pagare il viaggio che li porterà in Italia.

Queste persone rappresentano il nostro ultimo incontro. Per i successivi 8 giorni non incroceremo più anima viva.

Per la prima notte le guide scelgono un posto veramente suggestivo, Alidemma, una distesa di sabbia racchiusa tra faraglioni rossastri. Sarà anche che siamo all’inizio e tutto ci sembra nuovo e affascinante ma il posto è bellissimo.

Mentre i nostri accompagnatori allestiscono il campo e preparano la cena noi ci allontaniamo per una passeggiata. Camminiamo scalzi sulla sabbia e ci arrampichiamo su piccole dune incastonate tra le rocce. Le macchine fotografiche sono molto impegnate, sia perché il posto merita, sia perché con l’emozione dei primi giorni anche il più piccolo sasso sembra degno di attenzione.

Ritorniamo al campo che sta facendo quasi notte. Ci aspetta una specialità locale molto buona, uno stufato di carne e verdure con dentro una specie di sfoglia fatta a mano. E’ la nostra prima cena nel deserto e l’unica che consumiamo a tavolino, dopodichè sceglieremo sempre i tappeti intorno al fuoco.

Dopocena si chiacchiera e si beve il té, poi scegliamo il posto dove collocare i nostri materassini per la notte. Hanno preferito questo posto perché le rocce dovrebbero ripararci dal vento e ci consigliano anche quale angolo scegliere per stare più tranquilli. Le intenzioni sono buone ma la notte si rivelerà molto agitata.

Dopo un po’ che ci siamo coricati nei nostri sacchi a pelo inizia a soffiare un vento insistente che sibila, che cambia continuamente direzione e che ci accompagnerà per tutta la notte. La sabbia penetra con facilità nei sacchi a pelo e quindi negli occhi, nella bocca, nel naso.

Passo la notte a cercare di ripararmi ma senza successo. Alle prime luci dell’alba decidiamo che è inutile rimanere sdraiati, ci rassegniamo e ne approfittiamo per scattare le foto al sole che spunta dietro le rocce.

Anche i tuareg hanno passato una nottataccia e li troviamo infreddoliti e avvolti nelle coperte intorno al fuoco. Io provo di nuovo a cercare rassicurazione sul fatto che possa essere un fenomeno transitorio, ma ancora una volta la risposta è la stessa: Inshallah! Invece la sorte è dalla nostra parte e fortunatamente già dal giorno successivo il vento si calma. La visibilità è un po’ turbata dalla sabbia alzata dal vento, una sorta di foschia che fortunatamente con il passare dei giorni viene meno. E che comunque in qualche caso rende il paesaggio anche più affascinante.

Sarebbe impossibile raccontare giorno per giorno il nostro itinerario che, pur essendosi snodato su un’area piuttosto limitata del vasto deserto algerino ci ha regalato tante emozioni, paesaggi diversi, atmosfere indimenticabili.

Abbiamo percorso circa 2000 km in otto giorni in un paesaggio che cambiava continuamente. Il deserto non è solo sabbia o roccia ma un insieme e una commistione di questi elementi, uno spettacolo continuo di forme e colori.

Ogni giorno e più volte al giorno abbiamo avuto modo di ammirare le testimonianze dell’arte rupestre sahariana (dipinti, graffiti, incisioni, …) tutte molto interessanti, alcune veramente emozionanti perché raccontano di un’epoca lontana in cui nel deserto c’erano altre forme di vita.

A seconda delle immagini raffigurate è possibile risalire al periodo storico in cui sono state tracciate: le più antiche (circa 6000 anni fa) raffigurano elefanti, giraffe, struzzi, pesci; le più recenti (circa 2000 anni fa) raffigurano soprattutto cammelli. In mezzo ci sono figure umane, scene di caccia, figure astratte, alcune di straordinaria bellezza.

Molti di questi siti si trovano in grotte e caverne, alcune disseminate in mezzo ai canyon, spesso in posizioni panoramiche e suggestive. A volte ci arrampichiamo sulle rocce o saliamo sulle dune per arrivare ad ammirare queste testimonianze condividendo lo stesso stupore e le stesse emozioni con i nostri amici tuareg.

Ma oltre a quelle tracciate dall’uomo anche le bellezze create dalla natura ci accompagnano costantemente nel nostro percorso: le distese di pietra che sembrano non finire mai, le dune dalle sfumature di colore sempre diverso, le montagne, la roccia nera che sembra carbone, i canyon, le acacie che ogni tanto appaiono qua e là isolate nel nulla.

Non è facile ricordare i nomi dei luoghi ma tra tanti non si può dimenticare Tin A Farfar con tanti pinnacoli di roccia scura in una distesa di sabbia gialla, la notte a Ouad In Ezzan alla base di una duna altissima e con di fronte un paesaggio spettacolare, le grotte dell’Ouad Aman Samermin, il sito archeologico di Tibenkar, le formazioni rocciose di Tikenewen e, forse il più affascinante tra tutti, la “vacca che piange”, una delle più belle incisioni rupestri del neolitico.

E poi gli incontri con i dromedari, con uno splendido esemplare di muflone, con i corvi o con i falchi e con qualche scarabeo che lascia delicate orme sulla sabbia.

Ogni momento delle nostre giornate ha avuto il suo fascino e la capacità di regalare emozioni: il risveglio alle prime luci dell’alba con il sottofondo della voce della guida anziana che recita la prima preghiera del giorno; l’allontanarsi dal campo per trovare un posto riparato per lavarsi lasciandosi asciugare dall’aria tiepida della mattina; la passeggiata di prima mattina con la guida dopo la colazione, mentre i tuareg smontano il campo; la colonna sonora della musica africana che al nostro ritorno in Italia continuiamo ad ascoltare costantemente; le soste per il pranzo al riparo dal sole, che diventano occasione per confidenze e scambi di racconti; il complicato rito della preparazione del tè che si ripete più volte al giorno, con gesti sempre uguali, che Omar con grande pazienza una sera mi ha insegnato; le discese “avventurose” delle jeep dalle dune con gli immancabili insabbiamenti; le chiacchiere la sera intorno al fuoco (peccato che la lingua ci ostacola e non riusciamo a condividere tutto con i nostri accompagnatori anche se non mancano occasioni per scherzare e ridere insieme); una serata di musica improvvisata percuotendo le latte della benzina e le caraffe di alluminio; le passeggiate sulle creste delle dune a volte in compagnia a volte da soli per perdersi con lo sguardo nel paesaggio e nei proprio pensieri.

E poi le notti nei nostri sacchi a pelo sotto le stelle, un’esperienza così emozionante che non avrei mai voluto chiudere gli occhi per dormire. E il silenzio assoluto che ho potuto sperimentare ogni volta che mi sono allontanata dal gruppo.

Il pomeriggio dell’ottavo giorno, dopo un pranzo interrotto bruscamente da una breve tempesta di sabbia, rientriamo a Djanet. Il tempo per una doccia e poi usciamo per gli ultimi acquisti e per goderci alcuni minuti della vita di paese.

Poi ci aspetta la nostra ultima notte nel deserto. Riprendiamo le jeep, attraversiamo il paese e ci dirigiamo sulle dune dove hanno preparato il campo. Quando arriviamo è già buio ma il posto sembra molto bello: una distesa di sabbia incorniciata da rocce scure.

Il fuoco arde già vivacemente e i tappeti sono disposti tutto intorno per la cena e per la festa che seguirà. Aleggia un po’ di malinconia perché la partenza si avvicina ma ci aspettano comunque altre emozioni.

Dopo una ricca cena a base di montone alla brace, fegato di montone allo spiedo e cous cous si uniscono a noi cinque musicisti che improvvisano un “tendey” una serata di musica tradizionale e canti. L’atmosfera si riscalda subito e ognuno di noi partecipa come può: scandendo il ritmo con il battito delle mani, improvvisandosi ballerino o unendosi al gruppo dei percussionisti.

Ci salutiamo a notte inoltrata stanchi ma soddisfatti. Ci addormentiamo per poche ore intorno al fuoco ormai quasi spento e alle 4.30 ci svegliamo per iniziare il nostro viaggio di ritorno.

Attraversiamo Djanet alle prime luci dell’alba ma in strada c’è già un po’ di movimento e nella moschea c’è chi prega.

Arriviamo in aeroporto. L’aereo è già pronto sulla pista. E’ il momento dei saluti. Con Djaba ci scambiamo solo un arrivederci perché presto lo ritroveremo in Italia, gli altri… Inshallah…



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