Il sogno di carlo, la vetta del kilimanjaro

L’alba nella savana africana ha colori, sapori e suoni indescrivibili che quella mattina di tanti anni fa’ mi accompagnavano al risveglio dopo una giornata faticosa. Il giorno prima avevamo deciso con alcuni amici di partire presto da Nairobi in modo da arrivare a Namanga, all’ingresso del parco Amboseli, avendo ancora diverse ore di luce a...
Scritto da: Massimo Allegro 1
il sogno di carlo, la vetta del kilimanjaro
Partenza il: 01/11/2003
Ritorno il: 10/11/2003
Viaggiatori: in coppia
Spesa: 1000 €
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L’alba nella savana africana ha colori, sapori e suoni indescrivibili che quella mattina di tanti anni fa’ mi accompagnavano al risveglio dopo una giornata faticosa.

Il giorno prima avevamo deciso con alcuni amici di partire presto da Nairobi in modo da arrivare a Namanga, all’ingresso del parco Amboseli, avendo ancora diverse ore di luce a disposizione; avevamo visto molti erbivori e diversi leoni, ma la giornata era coperta e anche se non minacciava pioggia l’azzurro del cielo si vedeva molto poco soprattutto verso sud dove in lontananza la pianura saliva verso la foresta pluviale. Eravamo andati a letto presto nel campo tendato. All’alba ho sempre un sonno leggero e in quella occasione i rumori della savana che si svegliava si mischiavano alla bella sensazione della fatica del giorno prima che scompariva. La voce dei miei amici “Carlo vieni fuori a vedere” mi aveva un po’ disturbato ma spinto soprattutto dalla curiosità ero uscito dalla tenda ancora in pigiama. Era stata una sensazione molto emozionante: l’aria era pulita, il cielo limpido e verso sud ora potevo vedere bene la fascia verde della foresta pluviale da cui partivano le pendici della montagna che saliva fino al cielo mostrando quasi con orgoglio i suoi ghiacciai perenni. Il Kilimanjaro era lì nella sua maestosità e nella sua immensità. Solo quando te lo trovi davanti riesci a capire perché questa montagna ha stimolato tanto la fantasia e la curiosità delle popolazioni africane e dei primi esploratori. Non ho mai dimenticato l’emozione di quella mattina ed ho sempre tenuto nel cassetto dei miei progetti il sogno di poter salire a quota 5895.

Ultimamente ho riaperto quel cassetto ed ho deciso che era ora di portare a termine il progetto. Ho trovato l’organizzazione giusta e sono partito alla volta di Arusha dove ho incontrato la mia compagna di avventura (Katia) e dove si e’ formato il gruppo che comprendeva una guida esperta (James), un assistente e tre portatori.

Il trekking è cominciato alla Machame gate (quota 1700) dove finisce la zona coltivata e abitata e dove comincia la foresta pluviale e il parco. GIORNO 1: Si cammina in un sentiero che si addentra nella foresta. Non puoi vedere oltre un centinaio di metri perché la vegetazione è così fitta che anche se guardi in alto non riesci a vedere bene il cielo. La terra è ancora abbastanza asciutta ma in certi tratti fangosa. Sto camminando da qualche ora quando mi rendo conto di una cosa strana: mancano le pietre! In effetti sono abituato a trovare pietre dappertutto quando vado in campagna ma qui è diverso; qui la vegetazione cresce talmente in fretta che seppellisce tutto e in basso si trovano piccoli cespugli, erba verde, muschio e soprattutto un mare di foglie che con il tempo creano l’humus sul quale stiamo camminando. I miei pensieri botanici vengono interrotti da un forte rumore di pioggia, guardo verso l’alto ma non vedo gocce: dopo che i rami alti si sono bagnati l’acqua arriva a terra e ci passa quasi un minuto (questo posto è veramente strano!). Nel primo pomeriggio superiamo i 2500 e la vegetazione è più bassa e meno fitta, cominciamo a vedere il cielo in alto e le pietre per terra. Arriviamo a Machame Hut (2800) il primo campo. Al tramonto il cielo si libera e finalmente vediamo tra le nuvole i ghiacciai del Kibo (la parte alta della montagna) che ci sovrastano: è uno spettacolo che ci carica.

GIORNO 2: La notte Katia ha avuto qualche problema di acclimatazione ma James ci tranquillizza; è una cosa quasi normale, succede spesso, la terapia è solo quella di bere molta acqua. Ripartiamo e continuiamo a salire (James aveva ragione): ora gli alberi sono sempre più rari, resiste la vegetazione bassa, cespugliosa, con qualche palma di montagna; ora i sassi sono molto abbondanti, compaiono delle formazioni rocciose di discrete dimensioni e qualche grotta naturale che nella pausa del pranzo ci ripara dalla pioggia insistente anche se non abbondante.

Compaiono le prime palme di montagna: ne vedremo parecchie a queste altitudini.

Nel pomeriggio scende la nebbia che ovatta tutti i suoni e fa risaltare il rumore degli scarponi sulla ghiaia che ricopre il nostro sentiero; improvvisamente il silenzio è rotto dal gracchiare di un corvo che compare per pochi secondi nella nebbia: ha un volo tranquillo ed è tutto nero e con un collare bianco al collo ma è molto più grande dei nostri corvi, quasi come un tacchino. Arriviamo al secondo campo, lo Shira Hut, a 3800; insieme alle nostre quattro tende ce ne sono un’altra dozzina abbastanza lontane l’una dall’altra in questa spianata con vegetazione scarsa e bassa che a stento si fa strada tra le pietre; la nebbia si è sollevata ma forma una cappa appesantita da una pioggia sottile, due corvi appollaiati su un tronco spoglio, aspettano per recuperare gli avanzi della nostra cena: sembra di essere nell’Ade in attesa della barca di Caronte. Niente fa pensare che al calar del sole tutto cambia: la nebbia scompare e si porta via la pioggia, il cielo si apre e compaiono i ghiacciai del versante nordovest. Ci rendiamo conto che ci stiamo avvicinando.

GIORNO 3: James ci avvisa che oggi assaggeremo l’alta quota per arrivare ai 4600 prima di discendere ancora verso il terzo campo. La raccomandazione è sempre la stessa: bere molta acqua. Partiamo con il sole ma poi ancora nebbia e poca pioggia, ormai la vegetazione è scomparsa ed è sostituita da una distesa di pietre. Arriviamo alla Torre di Lava (4600): è una roccia unica, alta una sessantina di metri, ha un aspetto imponente che incute rispetto. Per terra troviamo la prima neve. Comincia a farsi sentire un po’ il male alla testa, bisogna sempre bere. Dopo la pausa pranzo ricominciamo a scendere: va via la nebbia, la pioggia ed anche il mal di testa; compare qualche piccolo cespuglio e scendiamo fino a Barranco Hut (3900) che si trova in una valle posta verso sud rispetto alla cima; è un posto abbastanza chiuso e riparato dal vento, qui la vegetazione è più abbondante ed è caratterizzata prevalentemente dalle palme di alta montagna tra cui il Senecio gigante che può arrivare a cinque metri o le deliziose Lobelie con i loro fiori blu. Ho trovato anche una pianta molto simile al nostro Ginepro con delle radici molto dure e nodose che affiorano in superficie. Il campo è situato in mezzo a questa strana vegetazione con dei ruscelli che formano delle cascate di acqua freddissima e che non fanno che rendere veramente affascinante il paesaggio. Ogni tanto compare qualche piccolo roditore, ce ne sono diverse specie e il più comune è il topo striato, della grandezza del nostro topo di campagna ma con le caratteristiche striature sul dorso.

GIORNO 4: Saliamo sulla parete est della valle di Barranco e lasciamo questo splendido posto dopo averlo ammirato ancora dall’alto. Andiamo verso est e ancora il paesaggio cambia con il variare dell’altitudine: in fondo è questo il light motive del nostro trekking. Ancora la vegetazione scompare ed è sostituita da una pietraia arida: siamo nel deserto d’alta quota. Ora il cielo è pulito e finalmente vediamo bene il sole (ci affrettiamo a proteggere il viso con le creme a protezione totale perché qui gli UV picchiano sodo). Stiamo salendo su un crinale, mi giro verso sud per vedere la pianura di Moshi e mi compare ancora uno spettacolo che mi stupisce: circa 5-600 metri sotto di me vedo le nuvole che coprono la pianura, faccio qualche piccolo calcolo e mi rendo conto che ci troviamo al di sopra di un plateau di nuvole alte sulla pianura di Moshi (1400); è lo stesso effetto che provi quando decolli con l’aereo in una giornata nuvolosa ed arrivi a vedere il sole al di sopra delle nuvole solo che in questo caso hai ancora i piedi per terra perché ti trovi a più di 4000 metri di quota. Arriviamo finalmente al campo base di Barafu Hut (4600) da cui si parte per la salita finale; siamo sempre nella zona desertica e guardando verso nord abbiamo a destra il picco Mawenzi (5149) e a sinistra riusciamo a vedere la parte bassa dei ghiacciai del Kibo. Il paesaggio è mozzafiato. L’emozione è grande perché sentiamo la meta vicina. Cena e a dormire presto perché James ci sveglia poco prima di mezzanotte per poter arrivare all’alba sull’Uhuru Peak.

GIORNO 5: Una colazione calda e poi si parte. Il freddo non è particolarmente fastidioso (siamo pochi gradi sotto zero) ma c’è un vento a raffiche molto forti. Comunque siamo bene equipaggiati e cominciamo a salire sotto un cielo pieno di stelle. Alle nostre spalle lo spettacolo del Mawenzi illuminato dalla luna e in lontananza, verso sud, le luci di Moshi nella pianura tanzaniana. Siamo sui 5000 metri e purtroppo comincio ad avere problemi di altitudine; non ha senso continuare, a quella quota la mancanza di ossigeno può fare brutti scherzi per cui torno indietro con l’altra guida. Katia è in forma e continua con James. Alle prime luci arrivano ai ghiacciai perenni del Kibo.

All’alba, come previsto, arrivano all’Uhuru Peak. C’è tanto freddo e tanto vento ma la soddisfazione è grande: siamo finalmente sul tetto dell’Africa. Ci incontriamo di nuovo al campo base verso le 10 del mattino, Katia è segnata dalla fatica ma felice di essere arrivata. Entrambi siamo d’accordo nel considerarla una vittoria di gruppo per cui dal punto di vista agonistico sento di essere arrivato anch’io ma in cuor mio so che tenterò ancora.

Testo di Carlo Saba



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