Il paese delle mille e una notte
Già la prima impresa, ovvero trovare un ufficio di cambio, risulta più difficile del previsto. Non si va a cambiare i soldi in banca, ma in piccolissime botteghe, tutte in fila in una ben precisa via del centro storico. Per trovarla giriamo e rigiriamo per il labirinto di stradine del centro storico. Farsi capire in inglese è molto difficile … ma per fortuna ci sono i bambini sempre pronti a seguire il turista per curiosità o per gioco. E nello Yemen sono moltissimi, la natalità è altissima – 6,5 bambini per donna – e salta ancora più agli occhi perché i bambini sono in strada a giocare e a correre, come ormai nelle nostre città non succede più. E sono loro a ricordarci che in fondo anche noi giocavamo a palla e a calcetto e che da bambini siamo tutti uguali con un solo desiderio: giocare e conoscere cose nuove. Così mentre gli adulti sono schivi le voci dei bambini ti seguono “What’s your name?”, “Where are you from?” “Foto?”. Così passiamo la giornata girovagando in questo museo a cielo aperto sotto un cielo terso, un sole splendente ed un aria frizzante caratteristica dell’inverno a Sanaa.
Il giorno seguente decidiamo di partire per Manakha, un villaggio nelle montagne Haraz a 90 km in direzione sud-ovest. Troviamo con relativa facilità una compagnia di autobus e da li partiamo, ma trovare Manakha non è così facile come pensiamo, infatti l’autobus non si ferma al bivio per il villaggio e ci porta oltre. A questo punto ci rendiamo conto di essere i soli turisti nell’autobus e gli unici a non parlare la lingua comune a tutti gli altri. Ma con un po’ di buona volontà si ottiene tutto: ci fanno scendere e risalire su un altro autobus che ci riporta al bivio, dove prendiamo un taxi con un conducente bambino che, assieme a suo padre, sta imparando a guidare. Quei dieci chilometri di strada tortuosa, avvolta in una fitta nebbia con il ragazzino al volante ed il padre accanto a lui che in tono concitato sembra dargli delle indicazioni e tra una frase e l’altra si mette alcune foglie di quat in bocca, ci resteranno impressi per sempre. Sembra uno di quegli incubi in cui sei partecipe di una scena, ma non puoi fare nulla per cambiare il corso degli eventi e così decidiamo di non guardare la strada e sperariamo di arrivare in fretta.
In effetti dopo ca. 20 minuti arriviamo al nostro hotel, o forse sarebbe meglio usare la prima parola araba che abbiamo imparato “funduk”, visto che persino la parola hotel non viene sempre compresa in questo paese che si è aperto al turismo solo da poco tempo. Il villaggio di Manakha si trova a 2200 metri di altitudine e in inverno le sere sono umide, nebbiose e abbastanza fredde. Purtroppo dobbiamo constatare che nonostante avessimo fatto telefonare la sera prima nessuno si ricorda della nostra prenotazione e ci dicono che l’albergo è pieno. Siamo già pronti a provare al secondo albergo del villaggio quando l’oste si impietosisce di noi e ci dice che possiamo dormire in una grande stanza senza bagno nel seminterrato dotata solo di semplici materassi e coperte. Non è certo un lusso, ma una stanza un po’sporca e senza confort è meglio che passare la notte tra le nebbie e il freddo. Per fortuna siamo compensati da una buonissima cena seguita da balli tradizionali e musica.
A questo punto capiamo chiaramente che in questo paese non avremmo sempre potuto seguire i nostri progetti, ma che in parte avremmo dovuto lasciarci guidare dal caso e dalle persone e confidare nella buona sorte che spesso – Inshallah – accompagna il turista che si avventura da solo in luoghi sconosciuti.
Il prossimo giorno ci dedichimo ad una passeggiata fino in cima alla montagna e raggiungiamo Al-Hajjara, un villaggio fortificato risalente al 12. Secolo, periodo della occupazione turca. Intorno al villaggio vediamo per la prima volte estese piantagioni di quat e i posti di controllo dai quali si spara a chi la notte tenta di rubare questa droga nazionale, senza la quale nessun Yemenita potrebbe sopravvivere. Nel pomeriggio decidiamo di continuare il nostro viaggio verso la costa del Mar Rosso e la città di Al-Hudayda. “Hamsi” o “hamsa” ci disse il tassista unendo tutte le dita della mano tra di loro. Insomma per cinquecento riyal ci avrebbe portato fino ad Al-Hudayda “complet”, intendendo dire che tutto il tassi sarebbe stato a nostra disposizione. Solo in seguito avremmo capito esattamente come gli Yemeniti viaggiano in tassi da una città all’altra.
Questo viaggio è molto confortevole: abbimao una Peugeaut station wagon a nostra disposizioni e la strada scende tranquilla tra le montagne ed il ruscello fino a giungere nella pianura desertica che porta verso il mare. Poco prima di entrare ad Al-Hudayda si fermiamo al primo posto di blocco. Nonostante ufficialmente il paese si sia unificato il 22 maggio del 1990 ancora oggi tra le varie provincie si effettuano controlli e non sempre è chiaro se il turista possa passare con il suo visto o debba avere degli ulteriori permessi per spostarsi. Partendo da Sanaa abbiamo raccolto informazioni contraddittorie e quindi al primo controllo non si sentiamo proprio sicuri. Infatti il nostro tassi viene fermato, ci chiedono i passaporti che vengono passati da un poliziotto all’altro, ma dai sorrisi ci sembra di capire che forse è più una curiosità vedere due turisti in un tassi che non un controllo vero e proprio. Infine i nostri nomi vengono segnati su un foglio di giornale e con un cordiale Salam possiamo ripartire alla volta della città. Al-Hudayda è una città moderna, sulla costa del Mar Rosso e a parte il famoso mercato del pesce non sembra offrire particolari attrazioni al turista. Ci fermiamo in un moderno albergo sul lungomare che in confronto al funduq di Manakha sembra una reggia. Davanti a noi una larga strada costeggia la spiaggia, mentre sul lato opposto si ergono alti palazzi e cantieri. Se non fosse per gli uomini con i loro tipici camicioni e le donne velate di nero, la città potrebbe trovarsi ovunque al mondo. Ci incamminiamo verso il centro in cerca di un ristorante lungo una strada con negozi e sale adibite all’uso di internet e giungiamo alla piazza centrale, dove troviamo un locale pieno di persone del luogo. Il locale assomigliava molto nello stile dell’arredamento, la disposizione dei tavoli, i muri coperti di piastrelle a un tipico locale greco degli anni 60 come ne sono rimasti ancora alcuni ad Atene e in altre città di provincia non molto frequentate dai turisti. Anche il menu con kebab, fasuliya e pollo ricorda molto la Grecia. Passimamo il resta della sera sul lungo mare a bere una bibita insieme alle coppie del luogo che nonostante le regole sociali molto rigide si incontrano come da noi a guardare il tramonto seduti sul lungomare tenendosi per mano. Anche qui quasi tutte le donne portano non solo il hijab che copre la testa ed un mantello nero, ma anche il niquab che copre tutto il viso lasciando liberi solamente gli occhi. Ma nella notte che scende presto, così a sud nella penisola araba, non sembra troppo difficile appartarsi per far vedere al proprio fidanzato almeno il viso. Da Al-Hudayda decidiamo di proseguire per Zabid, città famosa per le molte moschee, l’antica università e per il film di Pasolini “Il fiore delle mille e una notte” a cui ha fatto da scenario. Decidiamo di viaggiare come veri Yemeniti con un tassi di gruppo. Quindi ci avviamo con un foglio scritto in arabo dal portiere dell’albergo alla stazione dei tassi. Qui ogni tassista urla il nome della città verso la quale si dirige e così non è difficile trovare la persona giusta. A questo punto bisogna avere pazienza e attendere che il tassi si riempiaa. Ben 10 persone – l’autista e nove clienti – trovano posto in queste Peugeaut station wagon: tre davanti, 4 nella fila centrale e tre in fondo – tutti schiacciati come sardine. Il viaggio dura circa due ore e mezza e scendiamo felici di avercela fatta ad arrivare.
Appena arrivato a Zabid ogni turista viene circondato da moltissimi bambini che lo prendono per mano e lo accompagnano per le strade della città. Così anche noi troviamo l’unico funduk per turisti, una serie di stanzette spartane raccolte intorno ad un cortiletto con bagno in comune. Dopo aver visitato la città, che in effetti è un grande paesone attraversato da strade sterrate, con casette e botteghe piccolissime e gli alti minareti delle numerosissime moschee. Un dipendente del funduk ci accompagna a vedere la città e la casa dove sono state girate le scene del film di Pasolini. Tutti sembrano conoscerlo, ma dubito che abbiano potuto vedere il film. Passiamo la sera in allegra compagnia, parlando di scuola, scrivendo parole in inglese ed arabo, ridendo anche senza capirci assieme alla Doctora Uhoud e al suo gruppo di amici. La bellissima ragazzina di 12 ci spiega subito che lei avrebbe studiato all’univeristà e sarebbe diventata “doctora”. Guardando i suoi lineamenti regolari e la pelle color bronzo impariamo ad immaginare la bellezza che si nasconde dietro a quei veli neri, che anche la nostra allegra Uhoud presto avrebbe dovuto portare.
Lasciamo Zabid alle prime luci del mattino e ci dirigiamo verso la strada principale che da nord a sud percorre la penisola araba. Per raggiungere la nostra prossima meta Ta’izz. Purtroppo nonostante la grande importanza storica di Zabid non troviamo alcun parcheggio per taxi o qualcosa di simile ad una fermata dell’autobus. Si ferma un camion carico di lavoratori che ci porta fino al prossimo villaggio dove lungo la strada si tiene un vivace mercato. Lì troviamo un taxi per Zabid, però bisogna trovare almeno altri 8 viaggiatori e così la nostra vettura si sposta avanti ed indietro lungo la strada: negozi di vestiti e scarpe, bancarelle di frutta e verdura e tavole calde improvvisate che offrono te’ e frittelle. Passa più di un ora ed infine il tassista decreta che noi turisti avremmo pagato 3 posti per stare in ultima fila da soli … chiaramente tutto la contrattazione avviene a gesti con tutti gli altri clienti che intervengono come mediatori. E così si parte, sotto un sole che si fa sempre più caldo, passando per cittadine e villaggi, con tutti i loro mercati e ci rendiamo conto che è venerdì, il classico giorno di riposo e di mercato. Infilati in fondo al tassi riusciamo a passare i controlli di polizia senza essere fermati, con grande gioia degli altri passeggeri che a cenni ci fanno capire che i poliziotti non ci hanno visto.
Arrivati a Ta’izz, una città con più di 300.000 abitanti si presenta il problema di trovare l’albergo. Per nostra sfortuna l’albergo che abbiamo scelto nella guida ha un nome che somiglia a quello di un villaggio vicino, Al Janad, famoso per una antica moschea. Appena ci accorgiamo che il nostro tassista sta lasciando la zona urbana abbiamo il solito problema di comunicazione. Insistiamo con la parola funduk, ma il tassista sembra non comprendere, ma con istinto sicuro si ferma accanto ad una persona che parla l’inglese. Questa ci spiega che l’albergo che cerchiamo è a poca distanza, ma ha chiuso e quindi da indicazioni al nostro giovane tassista su dove portarci. Così anche qui ci sistemiamo, questa volta in un alto palazzo moderno dal quale si gode un bellissimo panorama sulle montagne ed il palazzo. Passiamo il pomeriggio e la serata a girare nella città vecchia ed il suq, a guardare i negozi e le tante persone che appena si fa sera si riversano sulle strade di questa città dall’aspetto quasi occidentale.
Anche qui nel suq tra i vari negozi di stoffe, jambia i tipici coltelli degli uomini, formaggi e spezie vediamo tanti bambini pronti a scherzare e a farsi fotografare.
Da qui la nostra ultima tappa del viaggio in tassi è Aden. Questa volta il viaggio è molto veloce, quasi troppo considerando che viaggio accanto al conducente, su una strada tutta curve, nella solita Peugeaut sovraccarica con delle gomme liscissime. Questo in parte mi impedisce di godere appieno del paesaggio e dei bellissimi piccoli villaggi che sembravano essere rimasti fermi ai tempi dell’Antico Testamento, quando in questa regione viveva la mitica regina di Saba.
Ogni tanto lancio un’occhiata alla donna seduta accanto a me: da quando siamo partiti legge sottovoce un piccolo libro che tiene tra le mani. Viaggia sola e per questo motivo è stato deciso che lei ed io, le due donne nel tassi, ci saremmo sedute davanti sotto lo sguardo vigile del tassista.
Arriviamo ai sobborghi di Aden e ci fermano per il solito controllo, ma questa volta i poliziotti sembrano indecisi sul da farsi, chiedono ripetutamente del visto e non sembrano soddisfatti di quello nel nostro passaporto. Nel tassi nessuno parla e a questo punto si fa sentire la donna accanto a me. Parla a voce alta gesticolando con enfasi per alcuni minuti, il poliziotto risponde sottovoce, ci restituisce i passaporti e ripartiamo. Appena entrati ad Aden la donna scende e ci lasciamo con un gesto di saluto: anche se non saprò mai cosa ha detto al poliziotto il suo atteggiamento fiero e sicuro mi ha impressionato. Ad Aden dell’antichissima storia è rimasto pochissimo e sulla brulla roccia vulcanica si ergono moderni edifici accanto a case semi diroccate in un ordine sconcertante – in effetti i quartieri della città si estendono in vari punti di questa “isola” collegata alla terra ferma da una sottile lingua di terra, al cui centro si erge un promontorio vulcanico. Decidiamo così di riposarci e goderci un po’ di spiaggia, cosa possibile per i turisti solo sulle spiagge protette dei grandi alberghi nella Gold Mohur Bay. Passiamo il capodanno con un bel buffet vicino alla spiaggia gustando tipici piatti yemeniti.
Il volo da Aden per Sukotra passa per Al-Mukalla e poi prosegue per ca. Un ora nell’oceano indiano. Il primo sguardo sull’isola non permette ancora di capire cosa ci aspetterà .. Sicuramente non saremo i soli turisti sull’isola, visto che quasi l’intero aereo è occupato da forestieri, in gran parte italiani che come noi avranno visto le foto di questa “misteriosa isola” con la sua flora e fauna unica al mondo. Scendiamo in un minuscolo aeroporto ed attendiamo con una certa impazienza i nostri bagagli per partire alla volta di Hadibu il villaggio più grande dell’isola ad alcuni chilometri dall’aeroporto. Appena usciti ci rendiamo conto che probabilmente siamo gli unici a non avere una guida con jeep ad aspettarli e quindi giriamo incerti sul piazzale davanti all’aeroporto pensando a cosa fare. Vari autisti si fanno avanti e ne scegliamo uno con una faccia particolarmente simpatica. La comunicazione è sempre difficile, ma ci sembra di capire che sull’isola ci sono solo 4 alberghi, tutti situati a Hadibu. Considerando il numero di turisti sbarcati iniziamo a preoccuparci, e a ragione. Il nostro paziente autista ci porta di albergo in albergo e la risposta è sempre la stessa: tutto occupato! Giungiamo all’ultimo albergo ed otteniamo la solita risposta, ma per fortuna in quel momento alla reception c’è anche un giovane francese che ci offre di dividere la stanza con lui. Ci presentiamo: Sebastian lavora all’ambasciata francese ed ha deciso di visitare per alcuni giorni Sokotra, dato che la sua famiglia per le vacanze di Natale è tornata in Francia. Così scopriamo che l’isola può essere visitata solo in jeep con una guida, visto che non ci sono mezzi pubblici e, come scopriremo in seguito, pochissime strade asfaltate. “Sokotra si deve visitare facendo campeggio nelle varie parti dell’isola!”, così ci spiega Sebastian. Anche se impreparati a questa evenienza decidiamo di non tirarci indietro e ci aggreghiamo a Sebastian che ha una guida. Partiamo quindi il giorno seguente per raggiungere il lato ovest dell’isola dove si trova una spiaggia bellissima di sabbia candida e fine come la cipria. Scendiamo scivolando lungo una duna ed sulla spiaggia vediamo chiazze gialle che avvicinandoci scopriamo essere tantissimi granchi. Ma la cosa particolare è che il cielo non è azzurro come in tutte le foto che abbiamo visto, ma di un grigio plumbeo. E cose c’è di strano diranno i lettori: piove. Certamente, ma ciò che forse non sanno è che questa è la prima pioggia dopo 3 anni! I cambiamenti di luce dal sole all’ombra sono bellissimi e rendono l’atmosfera ancora più particolare, ma purtroppo non siamo attrezzati per il campeggio sotto l’acqua visto che le nostre guide non hanno portato delle tende, ma solo dei materassi da stendere sotto dei ripari di paglia che non trattengono la pioggia. Chiediamo consiglio sul da farsi alla nostra guida che candidamente ci risponde: “Non so cosa potete fare, non sono mica un turista!” Da turisti un po’ viziati decidiamo quindi di tornare a Hadibu, dove il grasso proprietario del nostro albergo ci attende di malumore e ci spiega che la prossima sera, se non prenotiamo subito, non ci ospiterà più. Non diamo retta e anche il prossimo giorno partiamo con la seria intenzione di dormire in tenda. Raggiungiamo una spiaggia ed est dell’isola piena di bellissime conchiglie e poi una seconda spiaggia sulla quale facciamo un incontro più ravvicinato con i particolari uccelli dell’isola, una specie di avvoltoi che vivono solo qui. La visita più bella della giornata è però quella alla zona protetta Homhil dove lungo i sentieri si vede ”albero del sangue di drago” (Dracaena cinnabari), chiamata anche l’albero “dell’ombrello rovesciato” nome che deriva dalla sua strana forma. La leggenda narra che la pianta nacque dal sangue versato durante un cruento combattimento fra un drago ed un elefante. E tra questi alberi spiccano come piccoli gnomi danzanti le Rose del Deserto con le loro grosse pance e le braccia sottili.
Dopo una breve camminata si raggiunge una piscina naturale scavata nella roccia rossiccia dalla quale in lontananza si vedono le acque azzurre dell’oceano.
Con questo bellissimo ricordo torniamo alla spiaggia, per pernottare in tenda, ma scopriamo che il nostro posto è stato preso da altri turisti. E quindi torniamo al nostro funduqu dove, anche se a malincuore, veniamo nuovamente accolti, dal nostro oste. Insomma per tre giorni tentiamo di accamparci all’aperto ma non ci riusciamo e l’ultima sera siamo ospiti di un volontario francese che ci offre una camera, dato che dall’albergo siamo stati veramente cacciati. Da Sokotra torniamo a Saana dove ci fermiamo ancora alcuni giorni per visitare i dintorni.
A soli 15 chilometri di distanza si trova Whadi Dhahr con il bellissimo Dar al-Hajar, il palazzo sulla roccia costruito nel 1930 dall’Imam Yahya come residenza estiva ed ora adibito a museo. La struttura è bellissima e vale la pena spendere alcune ore a visitare questo palazzo con le sue moltissime e le belle terrazze e godere della vista sulla valle coltivata, purtroppo, a qat. Una vera piaga per il paese visto che il terreno fertile potrebbe dare prodotti più lucrativi per l’esportazione, se l’acqua a disposizione non venisse usata per questa droga nazionale che rovina intere famiglie.
A 54 chilometri da Saana si trova una valle che durante il periodo secco ricorda con le sue formazioni rocciose vagamente il Grand Canyon: il villaggio più conosciuto è Thilla. Qui grazie al nostro amico francese Sebastian riusciamo a salire sulla fortezza Husn Thilla che si trova sopra il villaggio a circa 20 minuti di cammino. Il sentiero è bloccato da un cancello e bisogna chiedere di portervi accedere in cambio di un bakschesh – mancia che dal Marocco all’India assicura servigi di ogni genere. Ammiriamo la fortezza e soprattutto lo spettacolare tramonto per poi scendere nuovamente nel paese.
Il paesino di Thilla è pieno di bambini che parlano una varietà straordinario di lingue. A noi fa da cicerone Angelo, alias Franz, alias George – a seconda della provenienza del turista adotta il nome adatto. Angelo ci mostra la città vecchia, i negozi, le cisterne che ancora oggi servono per la raccolta dell’acqua e le case con la stella di Davide abbandonate degli ebrei che dall’antichità fino alla fondazione dello Stato di Israele vivano numerosi in questa terra.
Dedichiamo anche una giornata alla città moderna di Saana e di addentriamo in un mondo quasi occidentale con parchi di divertimenti e Mac Donalds, grandi centri commerciali e negozi di video e CD dove le ultime novità del mercato arrivano prima del loro lancio ufficiale. In una sala da tè al centro del parco divertimenti impariamo l’arte della seduzione praticata dalle giovani e belle donne di Saana. Le nere palandrane si aprono leggermente mostrando yeans attillati ed eleganti sandali, mani e piedi decorati con l’henna. Ciocche di capelli escono dal copricapo e i veli si scostano mostrando visi sapientemente truccati. Ogni tanto passa un uomo anziano e allora tra risatine allegre scende il sipario lasciando il desiderio e la speranza che si riapra. Così in quella Saana moderna in cui i ricchi Jemeniti si circondano degli agi della cultura occidentale, comprendiamo il mito della seduzione delle notti arabe: un arte fatta di sguardi ed immaginazione nella quale nessuna donna occidentale, per quanto bella e provocante, potrebbe competere.
L’ultima giornata la passiamo a ripercorrere le bellissime stradine di Sanaa, dove il nostro viaggio ha avuto inizio e che ora rivedendola una seconda volta ci sembra forse ancora più magica ed affascinante.