Il nostro giro del mondo
In venti giorni abbiamo visto di tutto, dal grattacielo alle rovine misteriose sperdute nella foresta, da Venice a Los Angeles alla “Venezia di Micronesia”, ma sempre gustandoci il momento e senza perdere la capacità di rimanere a bocca aperta davanti alla splendida varietà che ci offre il mondo.
LOS ANGELES Nella “Città degli Angeli” abbiamo solo due e giorni e mezzo di tempo, così decidiamo di non perdere nemmeno un minuto. Appena arrivati all’albergo (circa le tre del pomeriggio, che a conti fatti vuol dire mezzanotte ora italiana) usciamo per godere del tramonto a Venice Beach.
Il nostro hotel è molto vicino all’aeroporto; c’è un autonoleggio ma, è anche molto comoda la fermata di una linea di bus che va direttamente proprio verso Venice.
Tutti prima di partire (blog, forum di viaggi, amici e parenti) ci avevano chiaramente detto che girare LA senza un auto è impossibile. Noi non abbiamo voluto ascoltarli, anche perché desideravamo vedere se l’America popolare vista in decine di film corrispondeva alla realtà oppure no. Volevamo viaggiare insieme a quella massa indefinibile che sono gli abitanti di una città-regione come LA. Lo abbiamo fatto, nonostante l’impressionante quantità di tempo persa ad aspettare alle fermate ed alla scarsa precisione degli orari, ed abbiamo guadagnato la visione della città allo stesso livello di chi ci vive. Abbiamo provato, per la prima volta nella nostra vita la chiara sensazione di essere noi i diversi, quando eravamo gli unici caucasici in un bus che trasportava latini, orientali e africani.
Non ti puoi sentire straniero in un paese così.
Sei solo uno dei tanti.
L’impressione di essere in un film è durata per l’intera nostra permanenza e la prima tappa non ha fatto eccezione. Siamo arrivati a Venice quando già il sole stava giocando a nascondino con l’orizzonte e proprio quando un vento gelido ha deciso di spazzare un lungomare che, in una giornata piovosa come era stato quel lunedì, non presentava nulla di interessante.
La cosa più assurda è che a noi sembrava di esserci già stati. Chissà quante volte alla tv avevamo visto i “casottelli” dove i vari bagnini si alternano per proteggere i bagnanti, quante volte avevamo sospirato davanti a quella spiaggia così larga e lunga, quante volte le strade piene di insegne luminose erano entrate nelle nostre case attraverso il piccolo ed il grande schermo.
Scappiamo dalla spiaggia per il troppo vento e ci rifugiamo nei canali artificiali che giustificano il nome del luogo. L’atmosfera è bellissima. Le ultime luci del giorno si fondono con quelle delle illuminazioni natalizie e con quelle che escono dalle finestre delle case.
Finestre che assomigliano molto a vetrine, tanta è la volontà di mettere in mostra l’interno delle splendide abitazioni che si affacciano sui tranquilli canali.
Un breve giro, salutati da una famiglia di paperelle e poi concediamo la vittoria al freddo e torniamo a rifugiarci in albergo (dopo aver aspettato un’altra mezz’ora l’autobus).
Il secondo giorno pianifichiamo la giornata di modo da fare una sorta di vero “giro” della città. La mattina, sempre in autobus, affrontiamo l’ora di strada che ci separa da downtown, dove vogliamo visitare El pueblo de Los Angeles, la parte più antica della città, che corrisponde al luogo dove dei coloni spagnoli la fondarono alla fine del ‘700. L’atmosfera è decisamente mesoamericana, ci sembra di essere in Messico e così decidiamo di goderci una mezza giornata latina, visitando con i tour gratuiti organizzati dall’ufficio turistico la casa più vecchia della città, la stazione dei pompieri e la via mercatino, dove non si sente una parola di inglese.
Ci incamminiamo poi verso la vera downtown, dove ci sono i (pochi) grattacieli della città.
Passiamo davanti all’ingresso di chinatown, alla grande cattedrale cattolica di LA, che visitiamo (non male, fuori dai nostri canoni, ma imponente, piena di simboli e con dei bellissimi arazzi) e poi, finalmente, davanti a noi appare la meravigliosa Walt Disney Concert Hall, prodotto di quel Frank Ghery che a noi europei ha lasciato il museo Guggenheim di Bilbao, in Spagna.
La tappa successiva è Hollywood, dove arriviamo dopo un breve viaggio in metropolitana, seduti accanto ad un ragazzone mezzo tedesco e mezzo statunitense (di colore) che lavora agli Universal Studios ed è convinto che nel sud Italia il colore della pelle degli autoctoni sia come il suo.
Hollywood è quello che immaginavamo.
Una distesa di stelle (per terra), luci (in alto) e persone (nel mezzo) che vanno di fretta o che assumono strane sembianze solo per farsi fotografare da qualche turista (abbiamo incontrato Spiderman, Batman e un bel po’ di altri personaggi a noi sconosciuti…) Mangiamo un hamburger in una tipicissima tavola calda americana (e anche qui i bagni sono pulitissimi…Incredibile) e poi saliamo un po’ per vedere la mitica scritta sulle colline e per cantare insieme “Qui siamo a Hollywood”! Cerchiamo e troviamo le stelle dei nostri attori preferiti e poi decidiamo di avviarci verso Beverly Hills. Ovviamente in autobus. E ovviamente troviamo due persone che ci offrono il loro aiuto e ci raccontano della loro vita. A LA ci è successo in quasi tutti gli spostamenti con i mezzi pubblici.
La tappa a Beverly Hills è molto breve, appena il tempo di vedere Rodeo Drive ed il lusso pacchiano che pregna la zona.
Poi la fame si fa sentire e risaliamo in bus verso Santa Monica. Bellissima sorpresa il quartiere alle spalle della spiaggia, dove perdiamo una buona mezz’ora in una libreria gigante (3rd street promenade), per poi dirigerci verso il molo, dove mangiamo – bene – in un ristorante elegante.
Il molo di Santa Monica è uno spettacolo: oltre ad un luna park, ospita la sede della capitaneria di porto e una seria di fast food, tra cui ci sbalordisce la catena “Bubba Gump”, ispirata al film Forrest Gump, dove offrono quasi solo pesce fritto. L’attrattiva più grande però, almeno per noi, è il segnale di “end of the trail” della mitica “Route 66”. La strada sulla quale Kerouac ha scritto il celeberrimo “On the road”, termina proprio lì, dopo aver attraversato ben otto stati.
Il nostro terzo giorno a LA nei programmi è dedicato interamente alla visita degli Universal Studios, in cui speriamo di incontrare qualche celebrità. Con la nostra sicurezza di “turisti fai da te”, rifiutiamo il gentile invito dell’addetto alle escursioni dell’albergo, che ci aveva consigliato di comprare il pacchetto “trasporto-parco-visita agli studios” per 150 dollari.
Noi, che avevamo controllato sul web i prezzi prima di partire, crediamo di sapere che l’entrata costava meno della metà. Abbiamo così deciso, non paghi dei problemi avuti nei giorni precedenti, di arrangiarci e di raggiungere gli Studios con i mezzi pubblici.
“Tanto oggi prendiamo la metro…” La metropolitana a LA è una sorta di trenino di superficie, che in alcuni tratti è proprio come un tram (un po’ più lungo) e che si immerge nelle profondità della terra solo nelle vicinanze delle colline che formano il fondale scenografico per guarda la città dalle spiagge. In pratica, partendo dall’hotel verso le nove, riusciamo ad arrivare agli Studios solo all’una e mezza.
A LA noleggiate un’auto! Non sarebbe grave, però, visto che il nostro entusiasmo è ancora alto. Purtroppo però alla biglietteria scopriamo tre cose: che il parco chiude alle 17; che il biglietto per entrare al parco, contrariamente a quanto avevamo letto sul sito, costa 99 dollari a testa e che se vogliamo fare il giro degli Studios dobbiamo aggiungerne altrettanti.
Noi prendiamo solo il biglietto per il parco, non senza prometterci che da quel momento in poi avremmo fatto meno i “so tutto io” e ci saremmo affidati a chi ne sa più di noi… Mai questa promessa fu più sbagliata! Ma l’avremmo scoperto solo nei giorni seguenti.
La cosa positiva è il parco: curato, divertente, vario, allestito bene e, soprattutto, semi-deserto. Non facciamo una – dico una – coda per entrare nelle attrazioni, tanto che alla fine, in quattro ore scarse riusciamo a vederle e a salire praticamente su tutte. Meritano il nuovo cinema dinamico ambientato a Springfield, la casa degli orrori (dove attori in carne ed ossa ti fanno prendere grossi spaventi) e uno show dove vengono riprodotti gli effetti speciali dei film più famosi.
La sera torniamo in albergo con un altro, lunghissimo viaggio in autobus, e ceniamo nel più tipico dei ristoranti americani: un fast food! HAWAII Voliamo Continental da LA a Honolulu e sull’aereo siamo seduti a pochi sedili da un gruppo punk rock che ascoltavo quando andavo alle superiori. Loro stanno andando a suonare ad Honolulu e riesco a scambiare quattro chiacchiere mentre attendiamo i bagagli… Che ritorno al passato!! Quando arriviamo alle Hawaii, ci accoglie la grande scritta ALOHA all’aeroporto, da dove usciamo affidandoci ad una impresa di bus che accompagna in turisti appena sbarcati ai loro alberghi. Il viaggio, nonostante la distanza dal nostro albergo non fosse allucinante, durerà quasi due ore, a causa delle continue fermate del mezzo. Per chi non sopporta stare tanto in bus, consigliamo di prendere un taxi (dalle informazioni che abbiamo raccolto non dovrebbe costare molto di più).
Nel frattempo noi ci guardiamo intorno: vediamo un po’ di Honolulu, un po’ di panorama, molte palme e cerchiamo di calarci nello stile di vita ALOHA che, semplificando, significa “non facciamoci troppi problemi, vogliamoci bene e divertiamoci”. La cosa incredibile è che scopriremo più volte che qui alle Hawaii – quasi – tutti lo vivono veramente.
Il sogno di fare un intero pomeriggio in spiaggia svanisce, ma solo in parte perché il nostro piccolo albergo è giusto davanti al bagnasciuga di Waikiki; quindi, sbrigate le formalità alla reception, ci cambiamo e siamo subito pronti a goderci il primo tramonto hawaiano.
E’ il 10 di dicembre e noi siamo in costume su una spiaggia splendida, sotto le palme, a goderci uno spettacolo incredibile: il tramonto qui ferma centinaia di persone, che cercano immortalare nei loro strumenti tecnologici (macchine fotografiche, videocamere, telefonini…) il momento in cui il sole si tuffa nell’acqua, sembrando una vera e propria palla di fuoco.
Il momento è suggestivo e l’emozione dei presenti si concretizza quando anche l’ultimo spicchio della nostra stella sparisce oltre l’orizzonte: un applauso spontaneo, di quelli che si alzano dal pubblico alla fine di uno spettacolo teatrale o di una canzone ad un concerto, si alza dal pubblico di vacanzieri. Noi restiamo a bocca aperta.
E, ovviamente, applaudiamo anche noi! Appena dopo la discesa del sole inizia sulla spiaggia uno spettacolo ad uso e consumo turistico, dove ballerine e ballerini in abiti tradizionali eseguono balli e canti, accompagnati da due signori dalla stazza enorme che suonano strumenti tipici.
In realtà, le danze popolari hawaiiane hanno molta più ragione di esistere ancora oggi di quello che immaginiamo. La cultura polinesiana infatti (cultura di cui le Hawaii fanno parte), ha sempre riservato un’importanza enorme ai canti, che costituivano i “libri” di storia delle varie società. Non esistendo la scrittura (furono i missionari ad importarla), era solo attraverso la tradizione orale che si tramandavano le conoscenze nei diversi campi. Vista sotto quest’ottica può sembrare più comprensibile il fatto che fino a pochi decenni orsono chiunque venisse scoperto a cambiare anche una sola parola del canto tradizionale veniva messo a morte.
Nessuno dei turisti che assiste alle danze capisce una parola, però tutti noi restiamo ammaliati dai suoni “primitivi” che compongono le musiche e dall’eleganza dei movimenti dei ballerini.
La sera è dedicata alla scoperta del sobborgo più famoso di Honolulu, ovvero Waikiki. Le luci di Natale che si arrampicano sulle palme, i mille negozi di lusso attorniati da locali di tutti i tipi e per tutte le tasche, la marea di giapponesi tutti con almeno un sacchetto riempito da un nuovo acquisto, la presenza ad ogni angolo di un “ABC store” – i negozi dove puoi trovare tutto, dall’aspirina alla pallina da golf -, il mercatino di collanine e monili che pretendono di essere tipici per poi tradirsi con la maledetta scritta “made in China”, sono tutte cose che nutrono la nostra voglia di alterità. Desideravamo l’altro mondo e iniziamo ad assaggiarlo.
Il giorno seguente è il giorno che abbiamo deciso di dedicare al “luau”, la festa tipica hawaiiana per eccellenza. In pratica si tratta di una cena basata sul famoso concetto del “all you can eat”, cena che però ha radici molto antiche e che, nelle riproposizioni per i turisti, non dovrebbe aver abbandonato la vocazione alla sacralità originaria.
Dopo esserci bruciati a LA, questa volta decidiamo di affidarci ad un’agenzia, che fatalità serve anche il nostro hotel. La ragazza con cui parliamo è sorprendentemente di origini italiane (suo padre era salernitano) e ci convince che il luau che vogliamo vivere si svolge ogni sera al “Polynesian Cultural Center”. Noi non siamo convintissimi, ma alla fine decidiamo di fidarci e prenotiamo un’escursione di mezza giornata che, alla sera, sarà coronata dal nostro luau e da uno spettacolo pirotecnico di danze e balli.
Dopo la mattinata in spiaggia, alle due prendiamo posto sull’autobus che ci porterà dall’altra parte dell’isola; l’autista si presenta e noi siamo abbastanza sorpresi di scoprire che viene dalle isole Samoa. Durante il tragitto verso la mitica North Shore di Oahu (mentre alla nostra sinistra scorrono le montagne che hanno ospitato i set di LOST) ci spiega però molto bene cos’è il Polynesian cultural Center.
Negli anni ’80 iniziò una massiccia immigrazione dagli stati polinesiani verso le Hawaii, soprattutto da parte di giovani che volevano studiare all’università ma che nei loro paesi non ne avevano la possibilità. Qualche professore illuminato dell’università di Honolulu ebbe allora l’idea di fornire agli studenti provenienti da oltreoceano la possibilità di pagarsi gli studi, che altrimenti sarebbero stati per loro troppo onerosi.
Da tempo si stava cercando di rievocare e preservare la debole eredità polinesiana delle Hawaii. Si decise di creare un centro culturale che fosse ricettacolo delle culture polinesiane nella loro forma più originale, chiamando cioè alle Hawaii molti anziani dalle isole, affinché insegnassero ai giovani studenti le tradizioni delle loro terre. Lo scopo era quello di poter offrire ai turisti un’attrazione effettivamente finta dove però persone figiane, samoane e così via mostravano i loro reali giochi tradizionali e facevano vedere come realmente si costruivano le canoe a nelle loro terre di origine.
L’operazione culturale è notevole e, pur coscienti di essere all’interno di una sorta di baraccone per turisti, la sensazione era quella di una genuinità lontana dalla nostra abitudine.
Purtroppo però il luau si rivela una delusione.
Dopo averci accolto in un’immensa sala con i lei (le tradizionali corone di fiori che significano benvenuto nella più ampia accezione del termine), il tutto si rivela una cena dove ognuno mangia quel che vuole e quanto vuole. Noi ci aspettavamo almeno il rito della cottura del maiale sotto la sabbia, ma non fanno neppure quello. Solo ci invitano ad alzarci a turno e ci portano da bere in continuazione.
Noi ci troviamo in una tavolo con dei canadesi che conoscono l’Italia e con una coppia di cinesi; lei non parla inglese, lui sì e ci racconta che l’anno prima era stato a L’Aquila per un convegno, pochi mesi prima del terremoto. L’impressione è quella di avere vicino un pezzo grosso di qualcosa, ma non indaghiamo, con i cinesi non si sa mai! Lo spettacolo serale è invece molto bello; ripropone danze e musiche tipiche di tutti i sette popoli che sono fatti “vivere” al Cultural Center: hawaiani, figiani, maori (che inscenano una haka da brividi), samoani, abitanti di Tonga, delle isole Markhesi e Tahitiani.
Sabato mattina, dopo colazione, non paghi delle pessime esperienze vissute a LA decidiamo di raggiungere Kailua Beach (votata la spiaggia più bella d’America) con i mezzi pubblici e concediamo una possibilità alla compagnia locale: The Bus.
Il mezzo arriva puntale e, a parte un’aria condizionata che ci fa congelare, ci offre proprio quello che volevamo: un viaggio panoramico che ci fa vedere la selvaggia costa sud e che ci mostra paesaggi molto diversi.
I problemi iniziano quando dobbiamo prendere una coincidenza: ci troviamo ad aspettare più di un’ora sul piazzale asfaltato del Sea Life Park, l’acquario di Oahu, vicino alla pericolosa (per via delle onde) Sandy beach, alla quali non osiamo avvicinarci perché “se arriva il bus..”.
Quando alla fine il bus arriva speriamo il peggio sia passato ma invece ci troviamo imbottigliati nel traffico di una sagra di paese che ci fa arrivare a destinazione dopo ben tre ore di viaggio (due in più del previsto).
Morale: negli Stati Uniti – qualunque stato! – EVITARE gli autobus! Dopo un breve tragitto a piedi però, scopriamo che è valsa la pena di tutta quella sofferenza: la spiaggia è bianchissima, non c’è moltissima gente, il vento crea un clima piacevolissimo e, soprattutto, l’acqua è stupenda.
La spiaggia offre molte attività, dal kayak, all’isola delle tartarughe poco lontano, a lezioni di windsurf, ma noi decidiamo di rilassarci, concedendoci al massimo una passeggiata per vedere le super ville che si affacciano direttamente sul mare. Una di quelle, di lì a pochi giorni, avrebbe ospitato “Mr. Obama” nelle sue vacanze natalizie! Purtroppo già a metà pomeriggio le nuvole conquistano il cielo e quindi noi decidiamo di tornare (per un’altra strada) a Waikiki. Stavolta il viaggio è più breve (ma anche meno bello) e riusciamo ad arrivare in hotel in tempo per programmare la serata ad Honolulu.
Silvia ha scelto sulla guida un locale storico, vicino alla Aloha tower, simbolo della città: il ristorante “Don Ho”. Questa volta, pur di non prendere l’autobus ci andiamo a piedi (un’oretta di passeggiata, giusta per farsi venire l’appetito, anche se per poco la cena la saltiamo perchè lì le cucine alle 21.00 chiudono). Dopo l’ottima cena passeggiamo per le vie del centro, decorate da bellissime illuminazioni natalizie che però in alcuni casi (come il villaggio di Babbo Natale con la neve finta) scadono decisamente verso il kitchs.
Prima di tornare all’hotel (in bus, ovvio!) riusciamo anche a vedere l’esterno del vecchio palazzo della regina Ala Moana, personaggio importantissimo per la storia delle Hawaii.
Alle cinque di mattina del nostro ultimo giorno hawaiiano siamo stati svegliati da delle urla provenienti da Kailakaua Avenue, la strada che passa davanti al nostro hotel. Quella domenica mattina, infatti, Honolulu è stata teatro di una maratona che richiama migliaia di appassionati, specialmente dal paese del sol levante.
Verso le nove, quando abbiamo lasciato l’hotel per recarci in spiaggia, tutto era già finito.
La domenica è stata dedicata al relax a Waikiki beach, dove però abbiamo raggiunto uno degli obiettivi del nostro viaggio di nozze: imparare a surfare alle Hawaii! In realtà avevamo già preso accordi con un curioso istruttore di origini portoghesi il giorno prima e così, dopo aver partecipato alla Messa cattolica nella chiesa che sta proprio sulla spiaggia, ci siamo lanciati in mare, rasserenati dal fatto che, in caso di fallimento ci avrebbero restituito i 100 dollari della lezione.
E abbiamo surfato! Silvia non è mai caduta! Dopo un’ora di lotta con le onde (il difficile non è cavalcare l’onda, ma nuotare fino al punto giusto, controcorrente…), soddisfati della nostra esperienza, siamo “collassati” sulla spiaggia e abbiamo atteso l’ultimo, splendido, tramonto hawaiiano, durante il quale ci è sembrato di scorgere il famoso raggio verde.
KOSRAE Esattamente dopo una settimana dalla partenza, inizia la parte centrale del nostro viaggio di nozze. Dopo una levataccia prima dell’alba ed un viaggio dall’hotel all’aeroporto con un autista mezzo pazzo, attendiamo il volo per la Micronesia osservando la sorprendente quantità di bagaglio che i passeggeri del nostro aereo stanno imbarcando.
Poi capiremo che è tutta gente che “torna a casa”, lavoratori stagionali o meno che sotto le feste prendono l’aereo-autobus della Continental per passare alcuni giorni con le loro famiglie.
Aereo-autobus perché la linea che è attiva tra Honolulu e Guam fa ben 5 soste, ognuna delle quali vede scendere e salire passeggeri, proprio come se ci si trovasse su un mezzo di trasporto urbano.
Ad ogni modo, durante le nove ore che separano le Hawaii da Kosrae, abbiamo modo di socializzare con il panorama oceanico (mare, mare, mare, atollo, mare, mare…) e di viaggiare nel tempo visto che da un momento all’altro superiamo la linea del cambio di data e così ci troviamo ad aver vissuto solo 7 ore della giornata di lunedì.
Quando chiamavamo a casa dalle Hawaii eravamo 11 ore “indietro”, a Kosrae saremo 10 ore “avanti”.
Kosrae è una piccolissima isola che si trova qualche chilometro a nord dell’equatore. E’ il più piccolo degli Stati Federati di Micronesia, resisi indipendenti dagli Usa nel 1979 e alleatisi per cercare una via comune di sviluppo. I circa settemila abitanti dell’isola sono per il 40% bambini e si concentrano in 5 villaggi distribuiti sulla costa.
L’aeroporto dell’isola è ricavato su di un promontorio allargato artificialmente, che permette anche la presenza di un porto, a cui attracca la nave dei rifornimenti, che arriva qui una volta ogni tre settimane, giorno più o giorno meno.
La pioggia che ci accoglie non ci spaventa, anche perché siamo troppo sorpresi da quello che vediamo: eravamo consapevoli che saremmo arrivati in un altro mondo, ma forse non così tanto! L’aeroporto è addirittura più piccolo di quello di Arbatax-Tortolì, in Sardegna e la sala di aspetto dei bagagli corrisponde a quella del controllo passaporti e dei medesimi bagagli.
La cosa non ci scandalizza, anzi! Ci piace vedere che, nell’epoca del terrorismo internazionale, del controllo dei liquidi da portare a bordo, basta un sorriso cortese alla poliziotta dell’immigrazione per non avere alcun problema e passare la frontiera in fretta, con il primo timbro di uno stato d’Oceania sul passaporto.
Ovviamente non c’è alcun metal detector né nessun nastro trasportatore per i bagagli. Tutto fatto a mano, tant’è che quasi ci viene da offrirci a scaricarceli noi dall’aereo i nostri! All’esterno ci sta aspettando Maria Grazia che, con una ragazza del luogo, ci accoglie con due corone di fiori e con il sorriso tipico di chi, lontano da casa, riceve il regalo di poter parlare dopo chissà quanto tempo, nuovamente la sua lingua.
Maria Grazia infatti è una ragazza italiana che, dopo aver conosciuto Kosrae durante il suo primo viaggio intorno al mondo, ha deciso di rimanere a vivere qui, luogo dove ha anche trovato l’amore di Mark, suo attuale marito.
Siamo ospitati al Pacific Treelodge, una sorta di eco-lodge costruito intorno ad una palude di mangrovie, con un ottimo ristorante (Bully’s Restaurant, in onore del sanguinario pirata “Bully” che avrebbe nascosto un tesoro a Kosrae) raggiungibile solo attraverso una passerella che si snoda proprio attraverso la palude: un luogo unico, emozionante soprattutto la sera, quando delle luci posizionate in maniera intelligente rendono l’ambiente molto suggestivo.
Nonostante il tempo non prometta nulla di buono (solo il primo giorno, a Kosrae pioverà sei volte…), decidiamo di prendere in prestito le biciclette che offre l’albergo e andiamo verso la “capitale” dell’isola. Lungo la strada ci scontriamo con una realtà che è molto lontana dalla nostra idea di isola-paradiso: le spiagge ci sono ma non sono distese di sabbia bianca coronate da palme; anzi, spesso le mangrovie arrivano direttamente in acqua. Mentre avanziamo lungo l’unica strada dell’isola, si alternano delle case povere, anche se in muratura, ad autentiche baracche, dalle quali però sbucano sempre persone sorridenti che ci salutano, come ci aveva avvertito Maria Grazia.
I “kostriani” (termine coniato proprio da Maria Grazia, visto che in italiano non esiste una parola che determini gli abitanti di quest’isola sperduta), lo scopriremo, sono gentili e ospitali ben al di là delle nostre aspettative.
Quando iniziamo a vedere le strutture fatiscenti di un vecchio molo, barconi arrugginiti che si alternano a barche moderne attraccate ad un porticciolo, si fa chiara in noi un’idea: qualcuno, molto tempo fa, ha creduto in quest’isola e ci ha investito. Poi, per qualche motivo, ha smesso, e tutto è rimasto allo stesso punto. Il nostro pensiero è che dopo gli anni ottanta (e fino a pochi anni fa), qui ci sia stato un rallentamento importante dello sviluppo. Quando, la sera, andremo a cercare nella nostra guida una qualche indicazione su questa sensazione, scopriamo che effettivamente, fino al 1979 la Micronesia era territorio degli Stati Uniti. Dopo l’indipendenza, probabilmente, qualcosa doveva essersi fermato.
Dopo circa un quarto d’ora di strada, arriviamo a Tofol, villaggio che funge da capitale, dove, in un’atmosfera che assomiglia moltissimo alle foto del viaggio di nozze dei miei genitori (Granada e Santa Lucia, Caraibi meridionali, erano gli anni ’80…) passiamo accanto all’unica banca dell’isola, al centro per le telecomunicazioni (l’antenna parabolica è gigante), avvistiamo da lontano l’ospedale e bussiamo inutilmente alle porte chiuse del museo. Anche il centro visitatori è chiuso e l’unica attività sembra essere quella di alcuni operai che stanno lavorando nella costruzione di un edificio decisamente fuori luogo in un contesto come quello.
Scopriremo poi che il primo edificio a tre piani di Kosrae diventerà una scuola grazie ad un investimento cinese, governo che in cambio vorrebbe acquisire diritti sui banchi di pesca nelle acque territoriali dell’isola. Ce lo spiegherà poi il dottor Alik, vicepresidente degli Stati Federati di Micronesia, che conosciamo durante una colazione al Bully’s Restaurant e con cui intratteniamo un’interessantissima conversazione sul futuro delle isole.
Beccati allo scoperto dalla pioggia, torniamo in albergo e guadagniamo una doccia calda, prima di tuffarci nell’unica attrazione che l’isola offre la sera: la proiezione settimanale di un film proprio nel ristorante dei nostri – ormai – amici Maria Grazia e Mark.
Abbiamo anche la possibilità di provare qualcosa di diverso, il pane fatto con la farina di taro, una radice tipica il cui gusto va ben oltre il particolare colore viola. A Kosrae il taro è tutto: è farina, è patata, è alimento di base, ma allo stesso tempo molto saporito e nutriente. Prima di arrivare qui, avevamo pensato di provare diversi posti per mangiare. Al momento della partenza, realizzeremo di non aver mai nemmeno desiderato di provare un altro posto (oltre al fatto che sarebbe stato un po’ difficile raggiungere di sera altri posti…).
Lo specchio d’acqua davanti al Pacific Treelodge è spettacolare la mattina, quando l’alba genera riflessi suggestivi. Tutte le mattine, impavido, cercherò la levataccia per poter portare a casa qualche foto magica, ma solo il primo giorno le nuvole decidono di mostrare lo spettacolo.
Poche ore dopo siamo in auto con Maria Grazia, che ci sta accompagnando nella prima nostra escursione.
Uno dei motivi per cui abbiamo scelto la Micronesia come meta del nostro viaggio di nozze, è anche la presenza di rovine non ancora esplorate e studiate dagli archeologi. Fanno parte di queste le Menka Ruins, ammassi regolari di pietre basaltiche riconosciute come santuario, visto che si contano quasi cento altari dispersi nella foresta, meta della giornata.
Maria Grazia ci lascia nelle sapienti mani di Salik, un ragazzo eccezionale che, oltre ad essere un perfetto conoscitore della foresta pluviale e delle sue piante, è anche una persona molto gradevole, che ci racconta storie e leggende della parte sud dell’isola di Kosrare.
Ci ricorda la leggenda della Sleeping Lady (la donna che si addormentò a gambe aperte in periodo mestruale in mezzo all’oceano, che Dio trasformò nell’isola), e ci conduce a passo sicuro – e a piedi scalzi!!! – fino ai terrazzamenti – artificiali – che formano il sito archeologico.
Anch’io cammino in sandali, circondato da una vegetazione che spesso mi supera la cintola, ma non ho paura: a Kosrae infatti, come un po’ in tutta la Micronesia, non ci sono animali e insetti velenosi. Niente serpenti, niente zecche, ragni sì, ma innocui: ecco quindi il primo indizio del perchè questa venga considerata da chiunque ci passi un autentico paradiso.
La camminata è bellissima, scopriamo anche (secondo indizio) che praticamente ogni pianta della foresta serve a qualcosa: le foglie di una ad abbassare la febbre, il fiore di un’altra a calmare le bruciature, una specie di ginger viene spremuto e usato addirittura come shampoo. Salik ci spiega che dalla foresta la gente ottiene proprio tutto quello di cui ha bisogno, non solo il cibo ed i medicamenti, ma anche il legno per costruire le case e le barche per pescare ed arricchire la propria dieta.
Dopo la visita alle rovine, che un gruppo di archeologi americani esplorerà per la prima volta nel corso del 2010, torniamo a valle e Salik ci offre uno spaccato di esperienza turistica di prima classe: ci fa accomodare su di una spiaggetta naturale creata dall’ansa di un torrente che scende dalla Sleeping Lady e ci offre due cocchi freschi da bere, più mezzo metro di canna da zucchero “au naturelle” da succhiare… È un momento bellissimo, che ci godiamo appieno prima di salutare la nostra guida e tornare (in taxi, condiviso con una ragazzina) in albergo nel primo pomeriggio.
Dopo mangiato, sfruttiamo i kayak che l’albergo offre ai suoi ospiti ed esploriamo un tratto di palude di mangrovie. La corrente ci ostacola un po’, però ben presto ci troviamo nel silenzio più assoluto, circondati solo da alberi che baciano il pelo dell’acqua, attenti a non naufragare contro qualche ramo nascosto appena sotto la superficie. Inoltre inizia anche a piovere, quindi torniamo indietro, dopo aver esplorato solo una parte dell’immensa palude, ma contenti di aver dedicato praticamente tutto il giorno all’avventura.
Non immaginiamo cosa ci aspetta il giorno dopo.
Walung è uno dei quattro villaggi dell’isola di Kosrae. E’ l’unico che si trovi sulla costa ovest e, soprattutto, è l’unico non servito dall’elettricità. La cosa interessante è che non c’è nemmeno una strada asfaltata che lo colleghi al resto dell’isola: pochi anni fa è stata aperta una pista che però è scarsissimamente utilizzata e quindi sta restituendo alla giungla il maltolto.
Noi ci rechiamo verso quest’angolo di mondo così lontano dai nostri clichè insieme ad Hamilson, una guida locale che Maria Grazia ha contattato apposta per farci da autista e da mentore durante questa giornata.
La strada che attraversa la giungla che separa Walung dal resto dell’isola è poco più di una pista. La pioggia dei giorni precedenti ha fatto crescere ancora di più la fantastica vegetazione, tanto che più di una volta Hamilson è costretto a fermarsi, scendere dall’auto ed aprirsi un varco con il machete. Noi ci godiamo il panorama, anche se il continuo sali scendi e le frequenti sbandate del nostro “pilota” ci impediscono di rilassarci. Hamilson ci spiega che questa strada l’ha voluta il governo dell’isola, ma gli abitanti di Walung erano contrari: ora è praticamente abbandonata a se stessa e per percorrere le 15 miglia che separano il villaggio da Utwa (dove finisce la strada asfaltata), ci si impiega almeno un’ora e mezza.
Durante il tragitto notiamo due scavatori abbandonati ai lati della pista e ne chiediamo il motivo a Hamilson: è da quando siamo arrivati a Kosrae infatti che ci sorprende il fatto di trovare carcasse di auto abbandonate praticamente ovunque. Lui ci spiega che, visto che tutti i mezzi che arrivano qui sono quasi regalati da giapponesi ed australiani, quando si rompono è più conveniente lasciarli lì e prenderne di nuovi che ripararli.
In realtà poi, parlando con Maria Grazia, emerge che c’è anche un altro motivo: i kostriani non hanno la “cultura del rifiuto”; ovvero, quando qualcosa non serve più, è “finito”, lo si butta.
Per terra. La logica è che la gente qui ha sempre fatto così, avendo avuto per secoli solo scarti biodegradabili. Una difficile educazione ambientale è iniziata in questi anni, ma è ancora lungi dal divenire parte della coscienza locale: basti pensare che è proprio Maria Grazia che gestisce (con successo) la raccolta ed il riciclo di plastica e lattine nell’isola, perchè al bando lanciato dal governo, non aveva partecipato nessun altro! Tornando alla gita a Walung, finito il tratto peggiore della strada, nel bel mezzo della foresta, Hamilson ci fa fermare presso la casa di un suo amico (Elio) che ha un amore viscerale per i fiori. La sua è un’abitazione tradizionale (tetto spiovente, senza pareti, e tavolati di legno che costituiscono una sorta di piano rialzato per metà della casa), circondata però da una sorta di estesissimo orto privato, dove coltiva banani, alberi di taro e fiori.
Silvia deve andare in bagno e ci fa morire dal ridere il fatto che Hamilson le indichi un water di ceramica piazzato nel mezzo della vegetazione. A completare l’atmosfera, proprio fuori dalla casa, giace ormai ricoperto di vegetazione, un camion a tre assi, arrugginito ed abbandonato chissà per che guasto riparabilissimo…
Arriviamo a Walung ma non ci dirigiamo subito verso il villaggio: la nostra meta è quella che dovrebbe essere la spiaggia più bella di Kosrae, distante altri 45 minuti a piedi. Noi iniziamo a camminare, passando accanto alle case della gente che vive sulla riva del mare.
Un’altra cosa particolare di Kosrae e della Micronesia è che tutte le famiglie posseggono della terra. E la terra non è pubblica, ma quasi tutta privata. Per cui se si vuole uscire dalla strada in qualsiasi punto, si entra in una proprietà privata. E quello che succede nelle proprietà private è responsabilità del proprietario. Per cui i turisti sono sempre ben accetti, pur se accompagnati.
Dopo aver superato due ponti di legno fatiscenti (ancora una volta… Qualcuno una volta aveva speso un sacco di soldi per costruirli…) arriviamo all’agognata spiaggia. La bassa marea ci impedisce di fare il bagno, ma il luogo è veramente paradisiaco.
Decidiamo di aspettare che salga un po’ l’acqua per fare un po’ di snorkelling ma il tipico acquazzone equatoriale si abbatte su di noi, costringendoci al ritiro. Anche perchè Hamilson si preoccupa (e ci preoccupa) del fatto che, se piove tanto, la strada per tornare indietro diventa impraticabile. Quindi, con ombrelli che la nostra guida crea da due gigantesche foglie, torniamo verso l’auto. Lungo il tragitto, ci fermiamo sotto una delle case che avevamo superato in precedenza, dove una madre sta preparando il pranzo per i suoi figli e qualche altro bimbo che si trova lì con lei. Noi non vorremmo dare fastidio, ma Hamilson ci spiega che loro spesso offrono da mangiare a chi passa. Quindi ci viene portato un piatto con del taro bollito e noi non possiamo dire di no, anche perchè il profumo è ottimo! Felici di aver ricevuto un’ospitalità così gratuita, quando la pioggia smette, chiediamo a Hamilson di mostrarci Walung. Il villaggio in realtà non è nulla di particolare e diverso rispetto agli altri: è molto più piccolo, ma le case sono quasi tutte in muratura e c’è l’immancabile chiesa. Immancabile perchè a Kosrae ci sono ben otto (8) confessioni cristiane con le loro chiese ed i loro fedeli. La cosa è molto folkloristica, vista anche la grande partecipazione dei credenti alle celebrazione ed ai famosi cori che allietano le feste, ma piuttosto strana.
A Walung, gli unici bianchi che vediamo sono due ragazzi che, ci spiega Hamilson, lavorano per la missione protestante che ha base qui. Ancora una volta ci colpiscono i sorrisi delle persone e specialmente i sorrisi dei bambini che sembrano impazzire di gioia quando gli fai vedere nel display della macchina digitale le loro foto appena scattate.
La comunità qui è in perfetto equilibrio, ci spiega Hamilson, per quello la gente non vuole né l’elettricità né tanto meno un collegamento stabile con il resto dell’isola.
Il ritorno è decisamente drammatico: rischiamo di precipitare nella giungla almeno due volte e, una volta usciti dalla giostra più lunga sulla quale siamo mai saliti, ci sorridiamo convinti che il pericolo sia finito. Invece Hamilson, per qualche recondito motivo, non appena l’auto tocca l’asfalto, inizia a correre come un matto e ad azzardare un sorpasso dietro l’altro.
La pioggia sembra un muro e noi vediamo gran poco, ma una volta a Tofol, ringraziamo il cielo che si fermi al centro visitatori. Ne approfittiamo così per mangiare un boccone, comprare l’unico souvenir che ci piace (delle stelline intrecciate con foglie) e dare un’occhiata al piccolissimo museo dell’isola, che mostra delle ricostruzioni di abitazioni e canoe tipiche, ma soprattutto racconta la storia degli esploratori europei che arrivarono a Kosrae, e dei pirati che la terrorizzarono. In una teca, si può vedere il diario di bordo del pirata “Bully” Hayes.
Il nostro terzo giorno a Kosrae è finalmente dedicato al mare. Usciamo in escursione con Mark e Maria Grazia che ci portano in barca presso l’Hiroshi Point, uno dei posti migliori per fare snorkelling. La giornata non è di sole splendente, ma poco importa, perchè l’acqua ha un colore meraviglioso e la luce rende lo stesso la visione sottomarina veramente mozzafiato! Maria Grazia, oltre alle altre mille attività, collabora anche con l’università del Queensland (Australia) nel controllo della salute dei coralli e, mentre noi “pinniamo” un po’, lei ci controlla da sotto. Vediamo moltissimi pesci e bellissimi coralli. I colori sono splendidi, ma sono soprattutto le forme a colpirci, molto diverse da quello che di solito si vede in televisione.
Dopo esserci tuffati in due punti diversi, torniamo verso il porto e Mark decide di pescare qualcosa con due canne da pesca. Incredibilmente due pesci giganteschi (della famiglia dei tonni) abboccano contemporaneamente e quindi devo aiutarlo con una delle due canne. Tiro su un metro e trenta di pesce… Una cosa incredibile! Quando arriviamo all’albergo, posiamo per le foto di rito con le prede e poi decidiamo di fare un giro in bicicletta nella zona per noi ancora inesplorata di Kosrae, ovvero la sua parte nord-est. Concedendoci qualche pausa panoramica per foto da “isola dei famosi”, arriviamo al villaggio di Tafunsak, che ci accoglie con le sue case ordinate e delle strade incredibilmente pulite. La gente è molto sorridente anche qui e in special modo i bambini si dimostrano molto felici di vederci.
Passiamo accanto alla “Grotta degli uccelli”, una cavità naturale in cui nidificano centinaia di volatili, il cui rumore si sente dalla vicina strada, compriamo qualcosa in un emporio locale e veniamo assaliti da un paio di cani randagi, che riusciamo ad allontanare solo con fatica.
I cani sono un caposaldo micronesiano: ce ne sono tantissimi, in tutte le isole, e spesso non sono per nulla amichevoli. Per questo, quando si va in giro da soli, è sempre consigliabile avere con se un bastone o, almeno, una pietra, per potersi difendere (Maria Grazia ci ha anche insegnato di gridare “chop!” così se ne vanno).
L’ultima sera a Kosrae è intrisa di tristezza: è come andar via di casa, visto il rapporto che si è instaurato con Maria Grazia e la sensazione di dover lasciare un vero e proprio paradiso.
Il giorno seguente il nostro volo parte all’una e quindi possiamo dedicare un paio d’ore la mattina alla visita di altre rovine, forse meno misteriose di quelle di Menka, ma sicuramente più impressionanti.
Si tratta infatti della leggendaria città di Lelu, costruita durante il nostro medioevo in onore della famiglia regnante in quel tempo a Kosrae. Il sito è tenuto malissimo, bisogna quasi farsi strada nella giungla per raggiungerlo e, una volta arrivati, per non cadere è necessario impegnarsi al massimo. Ed è un peccato, perché tutta l’area conserva la sua magnificenza. Sono rimaste in piedi delle mura alte più di quattro metri, costruite con dei massi di basalto dalla curiosissima forma esagonale (che ha anche ispirato il design delle bottigliette di acqua naturale commercializzate sull’isola) della lunghezza anche di tre metri. Le mura non hanno nessun collante, ovvero nessun tipo di cemento lega i vari strati di pietre. Si auto-sorreggono grazie al loro peso. Passeggiando tra le varie “stanze”, non facciamo altro che chiederci come diavolo siano arrivati lì quei massi immensi, visto che ogni evidenza archeologica ha escluso l’uso di qualsiasi tipo di macchinario (tranne, forse, un argano per alzare i blocchi ai livelli superiori). Le stesse domande le avevamo fatte a Salik a Menka e lui, candidamente, ci aveva risposto che allora a Kosrae vivevano dei super uomini molto più forti di noi e che solo in quel modo le pietre avrebbero potuto essere trasportate.
Una volta sollecitato sull’argomento (non volevamo fare la figura dei turisti scemi che si bevono tutto quello che gli viene detto), lui ci ha risposto candidamente che ci credeva sul serio, ai super uomini. O almeno a qualche pozione magica che avrebbe potuto conferire una forza incredibile agli operai che innalzarono quelle costruzioni.
Anche noi ci facciamo contagiare da questa innocente ingenuità quando ascoltiamo a bocca aperta il racconto di come riuscirono i missionari cristiani a farsi accogliere bene da una popolazione che, pochi anni prima aveva trucidato (e mangiato) alcuni esploratori europei solo perché questi avevano sedotto alcune donne.
Ebbene prima dell’avvento del cristianesimo a Kosrae si adorava la dea, la donna che dava forma all’isola. Attraverso uno dei suoi sacerdoti, essa aveva previsto l’arrivo dal mare di un dio più potente di lei, che l’avrebbe costretta ad andarsene. Quindi, quando il primo missionario sbarcò con il crocifisso in mano, la gente accolse con calore i nuovi arrivati, sacerdoti di un dio più potente. La cosa che ci lascia a bocca aperta è che persone religiosissime, che vanno in chiesa tutte le domeniche, che fanno prove di canti due volte la settimana solo per onorare il Signore con la propria voce, che vivono il messaggio dei Vangeli in maniera, oserei dire, integrale, alla domanda: “E la dea?” Ti diano una risposta del genere: “La dea è andata via.” Non ti dicono che non esiste, solo che si è allontanata.
Così, riflettendo (e ne avremo ancora modo nel corso del viaggio) su questo sincretismo politeista, ingenuo ma genuino, ci abbandoniamo alle rovine di Lelu, tornando in hotel solo per finire di fare le valigie e salutare, con una lacrimuccia, Maria Grazia, Mark ed il loro figlioletto Oceano.
POHNPEI L’aereo in ritardo (cosa piuttosto comune su questa linea) ci permette di sedimentare l’esperienza mentre aspettiamo, all’aperto, nella zona franca dell’aeroporto di Kosrae. Non ci sono metal detector per i bagagli, quindi i poliziotti di frontiera mettono le mani dappertutto, cercando con scarsa convinzione qualche strumento terroristico.
All’arrivo, a Ponhpei diluvia.
Noi alloggiamo poco fuori dalla cittadina più grande dell’isola, presso un hotel molto particolare chiamato The Village; nome azzeccato visto che si tratta di un vero e proprio villaggio di case tradizionali in legno, che fungono da camere, dotate però di tutti i comfort (tranne i vetri alle finestre). E’ un posto meraviglioso, che un po’ attutisce l’impatto con un mondo molto diverso da quello vissuto a Kosrae.
Strano a dirsi, ma Pohnpei, in confronto della sua vicina, sembra una metropoli. 30000 abitanti, di cui quasi 5000 concentrati a Kolonia, il centro principale, è dotata di molte comodità che a Kosrae neppure si sognano, come ad esempio il cinema, una biblioteca, un campo da baseball ed un club di surfisti. E qualche negozio con pretese da centro commerciale, principalmente pieni di merci che arrivano dalle Hawaii o dal Giappone.
A Kosrae abbiamo conosciuto un tipo che nella sua vita ha fatto solo una vacanza ed è venuto a Pohnpei… Dove ha passato cinque giorni a fare shopping!!! All’interno del Village c’è un ristorante, quindi ceniamo e facciamo conoscenza con dei volontari australiani che sono venuti a prestare servizio all’ospedale (sono medici e uno di loro conosce un otorinolaringoiatra di Vicenza!), con i quali ci accordiamo di andare a messa il giorno dopo.
Messa di cui non capiamo una parola (è celebrata in pohnpeiano), ma di cui viviamo lo spirito, sentiti i bellissimi canti. A differenza di Kosrae dove le varie chiese protestanti cercano di strapparsi i fedeli l’una all’altra, l’isola più grande degli Stati Federati di Micronesia è a maggioranza cattolica.
Dopo la messa accettiamo l’invito dei nostri nuovi amici – che hanno un’auto in prestito dall’ospedale – ed andiamo con loro a camminare a Sokehs Island, un promontorio divenuto famoso durante la Seconda Guerra Mondiale per gli insediamenti militari giapponesi. Salendo verso Sokehs Rock, la strada è ripida ed il caldo umido è devastante, ma arrivati sulla cima il panorama è fantastico e ripaga della fatica.
Tornando verso l’albergo, nel cassone del pick up parliamo con uno degli australiani, che ci racconta di come la loro ambasciata sia fatiscente in confronto a quella americana, di cui vuole portare una foto in patria. Ma, come spesso accade, i buoni propositi vengono scambiati per una minaccia e quindi veniamo allontanati senza troppi complimenti dai militari che fanno la guardia all’ingresso della sede diplomatica a stelle e strisce.
Il giorno successivo, abbiamo prenotato l’escursione a Nan Madol, la misteriosa città fantasma resa celebre dai racconti dell’orrore di Lovecraft. Per spremere tutto il possibile dalla giornata però la gita prevede anche due fermate per snorkelling presso due “scogli” di corallo nella laguna di Pohnpei. Per un breve tratto veniamo anche accompagnati da un branco di delfini, saranno una ventina, che vengono a giocare accanto alla barca e ci emozionano con i loro salti giocosi. L’acqua è meravigliosa e la presenza del sole ci permette di vedere colori ancora più sgargianti di quelli di Kosrae. Ci sono moltissimi pesci, di tutte le dimensioni. Il clima è stupendo, c’è un vento tiepido che rende la temperatura perfetta.
Dopo pranzo (composto da riso bollito, un uovo sodo, una bistecca di tonno, una fetta di salame portoghese e una di cetriolo, il tutto servito all’interno di un’enorme foglia per noi sconosciuta), scendiamo sulla terra ferma per vedere una delle cascate simbolo dell’isola. La grandezza della natura si esprime qui anche così: una cascata di 15 metri d’altezza che ha creato un piccolo laghetto nel mezzo della foresta diventa piscina d’acqua tiepida dove possiamo fare un bagno rilassante. Sembra di essere sotto ad una cascata alpina, solo che l’acqua è 20 gradi più calda e la vegetazione… Beh, ovviamente è vegetazione tropicale! La tappa successiva sono le rovine di Nan Madol. Le nostre aspettative su questo posto erano altissime sia prima della partenza sia quando sentivamo chiunque parlare di questo posto come di una cosa unica. Ed effettivamente le rovine ripagano le aspettative.
Noi siamo arrivati dal mare, il punto di vista migliore visto che la città fantasma si erge su di una novantina di isole artificiali, tutte costruite con corallo e blocchi di basalto. Per questa sua particolare conformazione, qualcuno ha avuto l’ardire di soprannominarla “Venezia di Micronesia”. A noi italiani la cosa suonava un po’ stonata, ma una volta saliti sui kayak ed iniziato a pagaiare per i vari canali tra un’isoletta e l’altra, il nome ci è sembrato azzeccato (anche per l’odore di acqua ferma che ogni tanto ci travolgeva…).
Nan Madol non ha una storia ufficiale. Il problema, anche qui in Micronesia, è che la scrittura non esisteva prima dell’arrivo dei missionari. Quindi tutto ciò che si racconta del passato è tradizione orale e, di conseguenza, non del tutto attendibile, nonostante le precauzioni prese nei confronti di chi cambiava qualcosa dei racconti (pena di morte). Quello che da noi verrebbe considerato senza alcun dubbio leggenda, qui invece si con-fonde con la storia, creando una sorta di racconto magico e mistico a cui il turista non può che rimanere a bocca aperta. Quello che ci colpisce, è la semplicità con cui ci viene raccontato che le immense pietre che si ergono anche fino a sette metri di altezza, arrivarono lì da sole, volando o galleggiando, chiamate dai sacerdoti che stavano costruendo la città. Non è una favola creata apposta per noi. La credenza qui è che “una volta non c’erano le macchine, come avrebbero fatto altrimenti?” In mancanza di risposte scientifiche (storiche, archeologiche) la leggenda assume un’autorevolezza sconvolgente.
Di fatto, noi abbiamo visto a Sokehs le cave di basalto: sono lontane da Nan Madol e a mezza costa sulla montagna. Le pietre basaltiche sono della curiosa forma esagonale già nel momento del “prelievo” dalla montagna. In mancanza (perchè nessuna ricerca archeologica le ha ancora trovate) di tracce di qualsiasi tipo di “macchinario”, il mistero sul loro trasporto rimane, ed è, almeno, molto affascinante.
C’è una sola isola di Nan Madol dove è possibile camminare: è anche l’isola più grande e meglio conservata, una sorta di gigantesco centro cultuale e sepolcrale che guarda diritto negli occhi l’oceano. Mentre ci arrampichiamo su mucchi di pietre cadute ed ammiriamo il sole che scende alle spalle dell’isola, la nostra guida ci racconta la storia dei due fratelli che schiavizzarono i Ponhpeiani proprio nel periodo di costruzione della città (e allora qualche idea su come furono portate qui le pietre ci viene anche…), delle lotte interne e dell’arrivo, da Kosrae, di un liberatore.
Che però, senza apparente motivo, abbandonò la città. La storia forse più interessante, almeno per noi occidentali, però riguarda la forma di Nan Madol. Si dice infatti che la città fu costruita qui ed in questo modo per emulare un’immagine che si poteva scorgere sul fondo dell’oceano all’epoca (XIII secolo circa) della sua fondazione. Quello che i due fratelli videro sul fondo del mare per alcuni (Lovecraft su tutti) era una parte dell’antico e misterioso continente di Mu, sprofondato nei pressi di Pohnpei.
In genere, gli abitanti dell’isola non sono molto felici di entrare in Nan Madol: molte leggende raccontano infatti che gli spiriti degli antichi ancora percorrano i canali e stazionino nelle isole. Le nostre due guide però non sono tra i timorosi e non lo è nemmeno il proprietario della terra (ebbene sì, Nan Madol è privata!) che si avvicina con la sua barca poco prima della nostra partenza per ricevere i tre dollari a testa del biglietto d’entrata.
Lasciamo Nan Madol e i suoi misteri molto affascinati e ci prepariamo all’escursione del giorno dopo, che dovrebbe rivelarsi il punto più alto del nostro viaggio di nozze.
Infatti la mattina di buon ora saliamo su una piccola barca per far rotta verso un atollo esterno alla laguna di Pohnpei, l’atollo di Ant. Abbiamo visto molte foto, prima di partire e ci siamo creati l’immagine dell’isola perfetta: deserta, con un’acqua meravigliosamente trasparente ma allo stesso tempo verde, spiaggia di sabbia bianchissima e palme che quasi toccano l’acqua.
Per arrivarci però dobbiamo passare un’oretta di mare aperto proprio nel giorno in cui l’oceano decide di svegliarsi, dopo una settimana di calma. Il viaggio è piuttosto mosso, ma quello che ci aspetta all’arrivo vale la fatica.
Prima di sbarcare ci fermiamo per fare snorkelling: devo dire di non avere molta esperienza di fondali, ma di sicuro questi sono i più belli che io abbia mai visto. Ci sono decine di coralli, decine di pesci diversi (molti dei quali hanno forme curiose) che non si preoccupano di nuotarti in faccia. Vediamo anche alcuni pesci pagliaccio, arancioni con le strisce bianche, bellissimi e piccolini, proprio come Nemo! E poi, andiamo verso la spiaggia.
Non solo le nostre aspettative sono rispettate, ma anche superate. L’atmosfera è quasi irreale e l’unica parola che ci esce con continuità dalla bocca è “Paradiso”. L’acqua, oltre ad essere meravigliosa è tiepida, per cui è piacevolissimo “far il morto” cullati dall’impercettibile corrente. Facciamo decine di foto, quasi per convincerci che quello che vediamo è tutto vero (come convincere chi le vedrà che non sono state modificate?). Mentre mangiamo, passa di lì anche un piccolo squalo. Subito le guide ci tranquillizzano, spiegando che quando si hanno a disposizione i migliori tonni del mondo, che senso avrebbe voler mangiare carne umana? Quando è ora di tornare, ci rendiamo conto che il nostro viaggio è finito.
E rischia di finire sul serio – e male – a causa dell’oceano, che è ancora più mosso della mattina e rischia almeno una volta di capovolgere la barchetta.
Ma torniamo in hotel sani e salvi anche se un po’ stanchi.
L’ultimo giorno Ponhpeiano è dedicato a Kolonia. Vogliamo vedere e capire questo “avamposto indolente”, come lo descrive la guida Edt. In realtà, la cittadina è in subbuglio perchè mancano solo due giorni a Natale e quindi bisogna trovare gli ultimi regali. Incrociamo qualche turista che come noi si guarda intorno un po’ deluso. Kolonia è bruttina: di fatto è una strada attorno alla quale si sono sviluppati alcuni quartieri in muratura negli anni settanta e che sono stati lasciati un po’ andare. Non la salvano la presenza di mura spagnole del settecento – ben conservate e curate – e di un’antica torre campanaria, unica superstite della prima missione tedesca fondata sull’isola e distrutta durante la Seconda Guerra Mondiale.
Dopo appena mezz’ora (e dopo aver visto un carro armato giapponese), la visita è già finita.
Per cui decidiamo di prendere un taxi e di andare fino a Palikir, la capitale della Federazione Micronesiana, città costruita nel nulla e dal nulla negli anni ’80.
Nulla di speciale nemmeno qui: una serie di edifici costruiti con materiali e tecniche moderne ma che si richiamano agli schemi tradizionali dei quattro paesi appartenenti alla Federazione. Le persone che ci incrociano sono molto sorprese di trovare due turisti laggiù e noi capiamo ben presto che c’è ben poco di interessante.
Ce ne andiamo guardando dal finestrino un monte da una forma particolare, su cui è raccontata una leggenda: l’ultimo dei due fratelli costruttori di Nan Madol, quando fu cacciato, si trasformò in un pollo gigante, lasciando all’isola, prima di scappare come suo ricordo una montagna di escrementi.
Mancano poche ore alla nostra partenza e l’aria di casa fa crescere in noi turisti la fame di souvenirs. Il luogo più indicato a Kolonia è il Porakiet Village, un quartiere della cittadina piuttosto povero, abitato da polinesiani arrivati a Pohnpei agli inizi del novecento, dove ci sono alcuni negozietti di artigianato locale. In realtà il quartiere non è un granché; alcune case che ricordano quelle di Kosrae si alternano ad edifici piuttosto decadenti.
L’ultima mezza giornata, la dedichiamo ai bagagli e a rilassarci in attesa del volo, godendoci lo splendido panorama che si gode dalla terrazza del ristorante “Tatooed Irishmen”, il ristorante del The Village. Costruito negli anni sessanta, è l’edificio in stile tradizionale più grande dell’intera Micronesia! Testimonianza di come l’angolo di paradiso creato da una coppia di cittadini statunitensi quarant’anni fa, sia un esempio di come “si fanno bene le cose”.
MANILA L’ultima tappa del nostro viaggio è in realtà solo una sorta di camera di decompressione prima di tornare in Italia ed al freddo polare dell’inverno…
Manila ci accoglie la sera del 24 dicembre – dopo aver fatto scalo a Guam e cambiato aereo – con le chiese piene e la gente per strada a festeggiare la notte di Natale.
Noi alloggiamo al Pan Pacific Hotel, un luogo lussuosissimo, decisamente fuori luogo in una città molto povera, ma necessario come tappa finale di un giro del mondo.
Partecipiamo ad una suggestiva Messa di mezzanotte nell’hotel, insieme agli altri ospiti ed al personale, che la anima con dei bellissimi canti.
Il giorno dopo, l’unico che passiamo a Manila, prendiamo un taxi – la città non è sicura, ci dicono – e andiamo nel centrale quartiere di Intramuros, dove possiamo vedere la cattedrale, la chiesa di San Augustin (chiusa, purtroppo: è patrimonio UNESCO) e passeggiare per le vie di un quartiere che ha moltissimo della Spagna medievale. Restiamo nell’ovattato mondo turistico e visitiamo il forte Santiago, punto dove gli spagnoli fondarono la prima comunità coloniale. Un luogo, il forte, molto ben curato e valorizzato, e anche pieno di gente.
Dalle sue mura, intravediamo quelle case ammassate l’una sull’altra, quel fiume sporchissimo, quel traffico infernale che ci ricorda che Manila è l’emblema delle metropoli d’Asia: una delle città con più alta densità abitativa del mondo, con uno dei più bassi tenori di vita del pianeta.
Cerchiamo di farci scivolare addosso tutto questo quando, con molta malinconia, ci gustiamo l’ultimo meraviglioso tramonto del nostro viaggio: il sole rosso che si tuffa nell’inquinatissimo mare della baia di Manila è l’ultima cartolina che ci regala il nostro fantastico giro del mondo.
Come ultima cosa, c’è da dire che, se i voli lo permettono (orari e tempo atmosferico), anche i viaggi in aereo ci hanno riservato dei bei paesaggi; in particolare l’Oceano Pacifico… Sembra impossibile pensare a quanta acqua tutta insieme! E poi al ritorno, dopo Manila, il plateau del Tibet, altra distesa, ma stavolta di ghiaccio!