Il mare a Diu e poi verso Mumbai
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Partiamo all’ alba: trovo la Tata pulita e con il pieno di gasolio, il driver è visibilmente animato e come prima cosa mi ringrazia per la lezione della sera prima: ora ha le idee chiare ed è pienamente soddisfatto… Beata ignoranza. La situazione è ora veramente stravagante: sembriamo due amici in viaggio verso mete sconosciute, non più un taxi con passeggero.
Passiamo la dogana che ci fa entrare nello stato del Gujarat e il cambiamento è subito evidente: imbocchiamo una moderna autostrada a quattro corsie: nuova e scorrevole. Partiamo bene! Il driver è rilassato e ne approfitto per consultare la mia fedele guida. Non riporta molte notizie su Diu; ho cercato di raccoglierne durante il viaggio, ma pochi viaggiatori si sono addentrati in questa regione di terremoti ed elefanti. Alcuni mi hanno descritto Diu come un piccolo paesino sul mare appestato dalla tremenda puzza di pesce steso a seccare, altri mi hanno parlato di scarsa disposizione a ricevere i turisti, altri ancora mi hanno sconsigliato questo territorio per il pericolo di terremoti… Sono d’ indole fatalista e desideroso di conoscere, quindi avanti, dentro questo paese dove nacque Gandhi,sono pur sempre un figlio della mezzanotte e mi piace pensare che sia il destino che sta guidando la piccola Tata su queste strade. Il driver? O è all’ oscuro di tutto, oppure pensa che il topo bianco visto a Bikaner ci porti veramente fortuna. India, terra di leggende e… ciarlatani…
Lungo la strada incrociamo dei terrificanti motocarri a tre ruote: sono dei taxi rurali e trasportano per la maggior parte ortaggi e frutta ai mercati, ma vi salgono anche persone. L’ autista domina la strada dall’ alto di un imponente seggiolino; il motore è un mono cilindro diesel e dagli scarichi escono dei gas letali, il rumore è assordante, come quello di un grosso martello. Il driver chiama gli abitanti di qui “Gujarati”, con un leggero tono di presa in giro: li considera buona gente, ma molto grossolani…Tutto il mondo è paese e ogni nord ha il suo sud.
Pensavo d’ esser stato nella città più avvelenata del mondo: Città del Messico, ma quando siamo entrati nella capitale del Gujarat mi sono dovuto ricredere. Hamedabad è un girone infernale: lungo un viale di ben sette chilometri mi sono coperto la bocca per non tossire disperatamente. La temperatura esterna si è alzata ma dobbiamo tenere i finestrini ermeticamente chiusi. Siamo incolonnati in mezzo a centinaia d’altri veicoli; decine di motocarri scaricano nell’ aria gas tossici che si sommano a quelli delle numerose fabbriche e in più non troviamo la strada per uscire da questa bolgia. I Gujarati non parlano indi, ma una loro particolare lingua e il driver non riesce a capirci nulla nemmeno dai cartelli segnaletici, per lui incomprensibili. Mi vedevo già dato in pasto ai numerosi avvoltoi che roteavano in quel grigio cielo, ma mi dimenticavo della fortuna del topo bianco… e ci viene in soccorso l’ autista di un camion proveniente dal Rajasthan che ci guida fuori da questa città, sporchi, ansanti ma salvi. Ci fermiamo per riprendere fiato ad un’auto grill… E’ pieno di gente e al mio ingresso sono accolto dai soliti sguardi interrogativi dei presenti. Ma qui è un’ altra cosa: la gente sembra introversa e impenetrabile ma dopo un’ attimo i visi si aprono a sorrisi di benvenuto. In cambio non tentano di venderti nulla: sono solo un uomo dal colore diverso, non un turista da derubare. Il driver insiste per farmi assaggiare una specialità del posto: il Paan…Il nome mi ricorda la noce di betel, gli sputi rossi…Rifiuto gentilmente ma i presenti mi convincono che è tutta una cosa diversa. In una grande foglia sono poste un arcobaleno di spezie, il tutto è accuratamente accartocciato e deve essere messo in bocca interamente per assaporarne lentamente il gusto…Mi sono visto disteso su un letto in preda ai dolori, seduto sul cesso in un incontenibile sforzo o a sputare inferno piccante per tutto il piazzale. Tutti sono in attesa delle mie reazioni: metto in bocca il Paan e per le mie papille è orgia!Tutta la gradazione del dolce si spande nella mia bocca, una dolce sensazione di fresco impregna le mie gengive, la lingua cerca ogni minimo pezzetto di spezie per assaporarlo all’infinito. Anche il mio viso si apre al sorriso ricambiato mille volte dai presenti. Mi avvio verso l’ auto con il driver che, soddisfatto del suo consiglio, mi racconta che questo tipo di Paan è una specialità del posto e le foglie che avvolgono le spezie arrivano fresche ogni giorno da Varanasi…Resto per un’ attimo senza saliva, penso all’acqua del Gange, alle ceneri dei morti cremati…Il cuore mi si ferma per un’ istante e la vista mi si annebbia ma vedo in mezzo al grigio un topo bianco che mi strizza l’occhio; perché non crederci: alzo le spalle e mi sprofondo sul sedile. Buono il Paan! Non si guida di notte in India e ci fermiamo a dormire a Junagad, piccola e vivace città. L’hotel è tipicamente indiano, lenzuola sul grigiastro e acqua calda a secchi, ma per una notte può andare. Decido di fare io una sorpresa al driver e lo invito a cena in un ristorante. E’ molto imbarazzato nel farsi servire dal cameriere e i suoi occhi sono pieni di riconoscenza, ma non c’è stato nulla da fare: il conto lo ha voluto pagare lui, non ho insistito: qui non si usano certe messinscene, ci si china per ringraziare e nulla più.
si (ri)parte!
Partiamo presto al mattino, un pò di tristezza palpita attorno a noi: poche ore ancora e mi dovrò separare dal mio fido driver. Ho messo nelle sue scure mani il destino del mio viaggio e non ha mai mancato alla mia fiducia… “ are we on the correct road?”, la sua richiesta mi distoglie dai pensieri. Corro con gli occhi sulla carta geografica in cerca della statale A8: penso che non cesserò di ricordare questo lungo nastro nero che mi sta portando al mare. Chiazze di lunghe palme sono sempre più frequenti e la cittadina di Veraval si manifesta al mio naso molto prima che ai miei occhi… E’ un vecchio paesotto sul mare e la strada passa proprio accanto al porto. Centinaia di pescherecci sono ormeggiati alla banchina e su ogni albero maestro muovono all’aria piccole bandierine: il colpo d’ occhio è unico. Non riesco a vedere la fine di questo tripudio di colori agitati al vento. Chiedo al driver di fermarsi per una foto: al primo respiro penso già di vomitare, l’ aria è irrespirabile. Il puzzo di pesce, scaricato dai battelli e messo a seccare al sole, è ripugnante. Faccio la foto in un lampo e mi rifugio in macchina: non voglio parlare per paura che quell’ odore mi si ficchi in gola. Una frase mi riecheggia nel cervello…” Diu? Un piccolo paesino con molta puzza di pesce…” E vedo miseramente naufragare il mio periodo di relax al mare…Beh, una piccola preghierina a quel topo bianco l’ ho fatta: spero che lui mi ascolti, laggiù nel deserto…
Fa caldo ora, ma non ho il coraggio di far scendere i finestrini: Diu è ormai ad un passo: ecco l’ ultimo controllo…il ponte collega la terraferma all’ isola…entriamo in paese…
Scendiamo dall’auto e restiamo entrambi inebetiti a guardare: davanti a noi si frangono le onde del mare arabico: azzurro, immenso, color cielo; l’ aria odora di salsedine, niente puzza di pesce e il sole si riflette come in inesauribili specchi in quest’ immenso spazio blu. Vicino a me il driver è come una statua di sale: è la prima volta che vede il mare e riesce solo a dire confusamente “…big water…”. A malincuore devo scuoterlo da quest’incantesimo: abbiamo poco tempo prima della notte per trovare l’ hotel. Sarà una bell’isola, superiore alle attese, ma è pur sempre India…Gli alberghi riportati sulla guida non esistono più!.. alcuni sono stati trasformati in residence per i dirigenti statali indiani…e altri sembrano svaniti nel nulla…Uno solo ne sopravvive: arroccato sopra una collina a strapiombo sul mare, in un posto incantevole, ma… i bungalow sono costruiti in metallo e la salsedine li sta mangiando dalle fondamenta, l’ interno è caldo come un forno a legna e la puzza di marcio si spande in tutta l’ area. Mi guardo attorno sconsolato: da un lato sorge la cittadina, dall’ altro la spiaggia prosegue a perdita d’ occhio senza la minima traccia di un hotel. Non voglio dormire in città: dopo giorni di caos voglio un posto pacifico.
D’ accordo con il driver ci dirigiamo più a sud e la strada alla fine sbuca a metà di un’incantevole insenatura. C’è un piccolo hotel, gestito da un’anziana signora indiana; mi accomoda in una stanza per sei persone… Domani mi ha garantito una camera più piccola, per ora va bene. Dopo aver scaricato i bagagli, mi ritrovo con gli occhi lucidi a salutare il mio fido driver. Qui in India non si eccede molto nemmeno nei saluti, un inchino a mani giunte e il cuore in subbuglio. Raccoglie tutto il suo cantilenante inglese e mi sussurra che porterà un ricordo eterno del nostro lungo viaggio; racconterà a tutta la gente del suo villaggio di aver visto il grande mare per merito di un europeo un po’ avanti con gli anni, ma con tanta ricchezza nel suo cuore. Questo è ciò che mi dice mentre lo vedo allontanarsi con il suo passo svelto, i pantaloni blu, la camicia sempre pulita ma con il collo ormai consumato, indossata con gran signorilità: Delhi è molto lontana, la strada è lunga e altri clienti attendono i suoi servizi. Gli ho regalato la carta geografica… forse non la consulterà mai, ma sarà sempre un ricordo. Sono finalmente al mare, ora potrò infine riordinare le idee, riprender fiato e gustare un po’ di riposo.
Eccomi quindi a Diu
E’ una microscopica isola alla fine dello stato del Gujarat che si sporge dentro il mare arabico. Il piccolo hotel dove mi sono fermato è immerso tra le palme ed è frequentato da molti indiani, l’ anziana signora che lo gestisce è burbera all’ aspetto, ma conduce la sua azienda con molta determinazione; le stanze si affacciano tutte sulla spiaggia: ho chiesto la stanza al primo piano per ammirare il mare. La stanchezza mi fa chiudere gli occhi; Il ritmare delle onde mi trascina nel sonno: dolce notte India. E’ un risveglio strano: non trovo il driver ad attendermi, non c’è da rifare i bagagli, ripartire… una melodia indiana si confonde con il rumore della risacca: nel ristorante appresso all’hotel i camerieri sono già al lavoro, sono tutti in divisa e stanno preparando i tavoli per le colazioni. La signora mi avvisa che la stanza al piano superiore è pronta e trasloco all’istante. La camera è pulita e fresca, a soffitto il solito ventilatore a più velocità, ma che in realtà ne ha solo una, il bagno ha l’acqua calda, no, non c’è la doccia: devo raccogliere l’acqua in un secchio e poi versarmela addosso. Potevo avere di meglio? Certo, poco distante sorge un’ altro hotel con piscina, doccia con acqua calda corrente e aria condizionata, ma se ti affacci al balcone vedi solo la piscina. Qui invece la vista è incantevole e abbraccio con lo sguardo la baia. Stando disteso sul letto lo sguardo corre sul mare, all’infinito. Non sono abituato a fare colazione ma mi piace indugiare nelle sale dei ristoranti: la gente è rilassata e più disponibile ed è piacevole acquistare familiarità con i camerieri: sono giovani e cordiali. Uno viene dal lontano Nepal, lassù ha famiglia e li va a trovare due volte l’ anno, l’ altro è di un paese qui vicino, parla inglese discretamente bene ed è molto simpatico. Il caffè fa notevolmente schifo ma non è mia pretesa trovarlo buono da queste parti. Due scalini mi separano dalla spiaggia, è quasi deserta: alcuni indiani indugiano sul bagnasciuga, ma d’occidentali nemmeno l’ombra. Ho un’attimo di sconcerto, ma poi guardando bene scorgo delle persone quasi in fondo alla baia, vicino a dei grandi scogli. Sono tutti raccolti li, all’ombra delle palme, in disparte. Qui trovo viaggiatori provenienti da ogni parte del mondo, riservati, quasi confusi con l’ambiente. Il sole è caldo e impigrisce anche i miei pensieri, le mie domande restano senza risposta perché la sonnolenza e l’ aria fresca mi trasportano nell’abbandono. Vedo passare davanti a me tutti i giorni di quest’interminabile viaggio. E’ come sfogliare un album di ricordi: vedo i visi interrogativi degli adulti che ancora si staranno chiedendo cosa fossi andato a cercare in quegli sperduti villaggi del deserto, vedo le insistenti richieste dei bambini alla ricerca di una penna o del sapone e sento ancora dentro di me la rabbia per non aver potuto esaudire quelle semplici richieste. Lo scricchiolio della sabbia calpestata mi fa alzare la testa: la spiaggia si è inaspettatamente popolata. Ora è un via vai continuo di persone; famiglie intere d’indiani passeggiano e corrono festosi sulla spiaggia, vivaci ragazzi giocano a cricket, alcuni pretendono di insegnare le regole del foot ball ad un gruppo di tedeschi e ne nascono irresistibili e comiche discussioni. Comitive e scolaresche si avvicinano timorose all’ acqua, gli uomini indossano costumi da bagno inevitabilmente fuori moda da decenni, sono più disinvolti delle donne ed entrano rumorosamente in acqua, salvo poi fermarsi quasi subito: pressoché nessuno sa nuotare e si accontentano di sguazzare a poca distanza dalla riva. Le donne squittiscono come topi in fuga ed entrano in mare completamente vestite, non stringono amicizia con gli uomini e preferiscono giocare e scherzare tra loro. Non sono preoccupate di bagnarsi: la seta dei loro sari si asciugherà in un’ attimo all’aria. Sembrano tutti bambini e i loro visi sono il ritratto della felicità.
Anche qui mi trovo circondato spesso da ragazzini. Sarà il mio viso bonario o il fatto che sono da poco arrivato ma timidamente si avvicinano. Ad un ragazzino sono particolarmente affezionato: è il più timido e silenzioso. Compare al pomeriggio, dopo la scuola; porta sulla testa un contenitore pieno d’uova sode da vendere. I suoi panni devono essere appartenuti ad almeno due generazioni di parenti: i pantaloni sono sdruciti e rattoppati in più parti e la camiciola cade a pezzi. Cammina a piedi scalzi su e giù per la spiaggia cercando di vendere, ad un prezzo ridicolo, le uova ai turisti; il sole è molto caldo ma porta con negligenza un piccolo berrettino di lana sul capo. Parla solo in Gujarati ed è con le dita della mano che indica ai clienti i suoi listini di vendita. Io sono allergico alle uova, ma qualche rupia gliela allungo lo stesso e non solo rupie… Faccio merenda in spiaggia e me lo ritrova seduto accanto, in silenzio mi guarda fino a che rovisto nello zaino: lui da un lato e uno scheletrico cane dall’ altro… E così mi ritrovo a dividere dei biscotti con un bimbo e un cane, accomunanti entrambi da un’endemica e antica fame. A volte mi viene a trovare verso sera e con gli occhi mi chiede di aiutarlo a fare i conti del suo misero incasso giornaliero: una monetina per ogni uovo venduto e i conti non tornano mai…così mi ritrovo ad arrotondare ogni giorno le sue perdite. Lo so che ha trovato in me una piccola fonte di guadagno insperato ma i costi sono davvero minimi e lui torna a casa felice.
Non resisto molto in spiaggia, l’ ombra delle palme non riesce a togliere del tutto la forte calura e mi avvio verso il ristorante dove mi aspetta una fresca birra, un saporito piatto di patatine fritte e una deliziosa frescura. Resto testualmente di sasso all’ ingresso del ristorante: decine di famiglie d’ indiani hanno invaso tutti i tavoli e stanno intaccando implacabilmente le riserve di birra dell’ hotel: Diu è un porto franco per la vendita d’alcolici di tutti i tipi e dalla terra ferma è una processione continua d’ indiani che arrivano fin qui per riempire i loro stomachi all’inverosimile d’ogni cosa che abbia un minimo di gradazione alcolica…Bevono con una sete atavica e insaziabile ma i loro antichi geni non sono ancora abituati a sopportare dosi massicce d’alcool ed è normale trovarli accasciati sul tavolo o a dare di stomaco sulla riva del mare. Spesso vedi gruppi d’amici che trascinano, sostenendolo per le ascelle, qualche compagno di bevute per poi scaraventarlo in mare, a smaltire la sbornia, senza troppi complimenti. No, non è un bello spettacolo: non diventano violenti, anzi l’alcool libera la loro ilarità, ma le dosi che ingurgitano sono preoccupanti: un eccesso di libertà che porterà senz’altro dei danni. I più grandi bevono fiumi di birra,i camerieri servono e puliscono diligentemente tutto e non lasciano trasparire la benché minima emozione, salvo poi lasciarsi andare, quando arrivano a servire al mio tavolo, in maliziosi sorrisi o sguardi di commiserazione. La polizia vigila lungo la spiaggia: ai minorenni non è consentito bere ne portare con se nessun tipo di bevanda alcolica. Se sono trovati sul fatto si aprono immediatamente le porte della prigione che li accoglie fino al termine della sbornia. Tutta questa giostra etilica dura un paio d’ ore, poi come sono arrivati si dileguano tutti e sulla spiaggia scende la quiete. Il tramonto porta una balsamica frescura ed è bello scendere lungo la spiaggia, un circo d’umanità variopinta si sveglia e ti ruota attorno. Alcuni indiani hanno un noleggio di cammelli e cavalli sulla riva ed intere famiglie si mettono in fila per approfittare di quest’ingenuo parco divertimenti. Il percorso è molto breve, ma dalle facce della gente il divertimento deve essere unico: al seguito degli animali un ragazzo, con pala e sacco, raccoglie le cacche e alla fine della giornata ramazza con diligenza la sabbia.
Steso sul letto vedo salire lenta la luna; il mare riflette tutta la sua bellezza: sono sfinito e il sonno non tarda ad arrivare.
L’abbaiare dei cani sulla spiaggia mi svegliano presto, ma ormai nell’hotel sono già tutti in piedi. Entrando nel ristorante, sotto delle enormi palme, saluto con il mio pigro “good morning “ gli altri ospiti presenti, ed è con sorpresa che sento rispondere al saluto nella mia lingua: seduto appartato un signore anziano vestito di una lunga tunica impataccata di multicolori sughi mi saluta e mi sorride. No, sono stanco! Non ne posso più di fare conversazione su temi banali e privi d’originalità: mi sentirei fare le solite domande sulla mia provenienza, il tour che ho fatto e tante altre banalità. Ricambio distrattamente il sorriso e con la coda dell’ occhio lo osservo mentre parla senza sosta con tutti gli ospiti dell’ albergo: ecco il solito scocciatore mormoro e mi concentro sulla mia colazione, difendendo un toast al formaggio dall’assalto delle mosche. Il sole non è ancora alto, gli indiani sono assenti dalla spiaggia e decido di andare ad esplorare laggiù, oltre gli scogli. Oltrepassate alcune dune di sabbia mi trovo ad ammirare dall’ alto una splendente baia: è incassata tra alte rocce dove il mare s’infrange con forza. L’acqua giunge domata sulla riva di sabbia prendendo le sfumature del policromo fondale, sul bagnasciuga aironi bianchi e blu pescano indisturbati. Non c’è nessuno, il silenzio è assoluto. Alla sommità di una piccola duna sorge un povero villaggio di capanne, ma non scorgo nessun abitante. Non mi sembra vero e mi allungo sulla sabbia, chiudo gli occhi mentre il sole mi brucia la pelle.
Sto sognando e mi sembra di sentire risa di donna e gridi di bimbi; apro piano gli occhi: il sole è oramai alto e mi abbaglia. A pochi passi da me una capra mi guarda curiosa, ma ancor più curioso è lo sguardo di un bimbo che, al mio risveglio, corre via impaurito inciampando e travolgendo una capretta. Due ragazze mi stanno fissando, si coprono la bocca con un lembo del velo, ma i miei baffi bianchi danno sicurezza e si avvicinano chiedendo, con i gesti, creme o unguenti per i loro neri capelli. Vengono dal villaggio vicino, portano al pascolo le capre assieme ad altri ragazzini, ma la loro evidente povertà non toglie loro l’innata vanità femminile. Si ungono con piacere e ambizione i capelli con olio di cocco e corrono via felici mentre il vento gioca con i loro lunghi veli colorati.
Il mio piccolo venditore d’uova mi trova subito e come tutti i giorni si siede silenzioso vicino a me contando le sue piccole monete, cronicamente in diminuzione…Oltre al bimbo e al cane spelacchiato, oggi si aggiunge un venditore di cipolle: una cassetta di metallo, una cintura che la assicura al collo, un pacco di fogli di giornale e l’azienda è aperta. Gira per la spiaggia vendendo cipolla sminuzzata e mescolata ad altre spezie, lasciando al suo passaggio un’ inconfondibile e penetrante tanfo. Mi racconta che proviene dall’ interno dell’ India dove non riusciva a trovare lavoro e ora si considera felice: ha aperto questa piccola azienda ( usa proprio questo termine ) e gli affari vanno bene…? In un giorno può arrivare anche a tre euro…
Attendo con pazienza che il ristorante si liberi dei suoi beoni clienti, salgo in stanza e mi vuoto addosso secchiate d’acqua per lenire il bruciore causato dal sole mentre sulla tv scorrono senza sosta dei terribili film indiani: un’impasto d’amori traditi, lacrime ed estenuanti balletti finali. Beata ingenuità, buonanotte India.
al mercato
No si può sfuggire al fato. Puoi scappare per il mondo intero ma se una cosa è destinata alla fine te la ritrovi addosso. Stamattina ho deciso di andare a vedere un mercato del pesce in un villaggio vicino e mi alzo di buon’ora, scendo per la colazione e trovo seduto al tavolo quel signore anziano che ti raccontavo. Mi guardo attorno ma non ho vie di scampo: non c’ è nessuno e mi siedo di fronte a lui…Porta grossi occhiali neri e una severa barba bianca gli guarnisce il viso. Parla a bassa voce, lentamente, pesando le parole, come per non disturbare. Da molti anni torna regolarmente in India, ha percorso trentacinquemila chilometri cercando disperatamente un posto dove finire i suoi giorni. E’ arrabbiato con questi “..brutti indiani..” che gli hanno rovinato l’ India. Racconta che Diu era un posto unico al mondo: sulla spiaggia non c’ era mai nessuno. I pochi turisti del luogo che arrivavano sin qui si limitavano a guardare il mare da lontano, con paura e rispetto. Mi racconta di quando morì il marito della padrona dell’ hotel: morto in quel mare che lui amava travolto da un’ onda che lo sbatté sugli scogli. La sua voce s’infervora quando mi parla di quei “..brutti indiani..” che non degnavano di uno sguardo i fiori che lui lasciava deliberatamente sulla spiaggia per stimolare la loro curiosità e che invece calpestavano senza imbarazzo. Parla di un ragazzo arrivato fin qui in compagnia della sua donna e ora ufficialmente svanito nel nulla mentre in realtà lui sa che è nascosto dai Bramini, in qualche tempio lontano dove vive d’offerte, cercando in questa maledetta India la strada per la perfetta spiritualità. Come si fosse svuotato di un peso mi saluta frettolosamente, non prima di avermi fatto notare che il vento sta cambiano,… e si dirige, trascinando i piedi, all’ ombra di una palma, guardando il mare, a ricordare la maestosa bellezza di questo posto, rovinato ora da quei “..brutti indiani..”. Un’ insegnamento? Una morale? Non so, ma sono certo che alla fine questi discorsi mi torneranno alla mente e scoveranno il loro posto nelle mie emozioni.
Il piccolo risciò a motore mi aspetta fuori dell’hotel. Mi accomodo sul piccolo sedile posteriore imbottito di velluto immacolato tra medagliette votive e strass colorati. Uno strattone alla leva d’ avviamento e si parte. Il frastuono è poderoso e le note musicali che escono dall’impianto stereo non riescono a coprirlo. La new generation indiana scimmiotta gli usi e i costumi del mondo occidentale e il giovane autista non n’è da meno: una paleolitica musica dance esce da questa scatola con le ruote facendo impallidire il santino appeso di Shiva. Tra uno scossone e l’altro arrivo al villaggio dei pescatori, annunciato molto prima dal forte odore di pesce. Il pescato è tutto li: ammucchiato sulla banchina del porto, per terra…Quella mattina indossavo i sandali, maledico mentalmente quella scelta perché al primo passo m’immergo inesorabilmente in un liquido scuro e puzzolente. Giganteschi tonni, montagne di rosei gamberi, distese d’enormi razze, pesci spatola, king fish, sardine, piccoli squali: tutto steso per terra, sotto il sole, in enormi mucchi. Alcuni uomini menano tremende mazzate a degli enormi blocchi di ghiaccio per poi spargerlo sul pesce con il risultato di far aumentare ancor più quel puzzolente lago su cui sto inzuppando i miei piedi. Le trattative sono affidate alle donne e il clamore è alle stelle. E’ strano osservare queste eteree e timide donne, vestite con i loro immancabili sari, agitarsi e sbraitare alla ricerca della vendita più fruttuosa. Nessuna di loro parla una parola d’ inglese, solo il loro dialetto Gujarati e quando decido di acquistare un piccolo tonno mi ritrovo davanti ad una signora sdentata a realizzare una drammatica contrattazione. Chiedo l’ aiuto del giovane autista, ma sdegnosamente rifiuta di entrare nel piazzale per non sporcarsi le scarpe in quel nauseabondo pantano. Chiamo all’appello tutta la mia creatività e intuisco che quel movimento delle cinque dita chiuse che si aprono rapidamente come un fiore equivalgono a cinquanta rupie. Pago e risalgo sul taxi: l’autista mi manda un’occhiata di rimprovero per i miei sandali imbrattati e gli rispondo mandandolo amichevolmente a quel paese…
Mi deposita all’entrata dell’ hotel, parcheggia poco distante e lo scorgo mentre con uno straccio pulisce accuratamente il suo risciò dai resti di quel pestilenziale odore. Porto il tonno al cuoco raccomandando un’ accurata cottura per la sera, mi risponde con l’inevitabile “..no problem sir..” e vado in stanza ad immergere le mie estremità in un benefico bagno d’ acqua e sapone…Beata India!
Attendo con avidità l’ora di cena e infatti il tonno arriva sulla mia tavola nell’inconfondibile colore rosso della ricetta Tandoori. Il sapore è squisito e la freschezza unica ma è paurosamente coriaceo: il cuoco scruta la mia reazione nascosto dietro la porta della cucina e non oso deluderlo; lo colmo di complimenti anche se stasera i miei pochi denti si ritrovano un lavoro straordinario da svolgere; svuoto in un’attimo una bottiglia di birra e mi aiuta a mandar giù tutto fino all’ ultimo boccone…Mi siedo sul letto cercando di digerire ma la lunga giornata e la fresca birra mi fa chiudere gli occhi, sono sicuro che non avrò incubi: sono già intensi di giorno, ad occhi aperti!
La mia pelle arrossata chiede un giorno di tregua e decido di andare a visitare la piccola Diu city. Non c’è il conducente di ieri al parcheggio dei risciò, ne prendo un altro che in breve mi porta in città, mi faccio accompagnare fino all’ingresso dell’antico forte portoghese. Tutto è tristemente in rovina: le autorità indiane non si curano minimamente di questo superbo monumento e il tempo sta lasciando i suoi segni.. Mi aggiro tristemente per i viali all’ interno del forte. La vegetazione sta coprendo i vecchi corpi di guardia e le camerate; decine di ormai inutili mitragliatrici giacciono sul fondo del muro di cinta, centinaia di palle di cannone invadono le piccole piazze del forte, come una partita di bocce lasciata in sospeso per l’ eternità. Una vecchia chiesa cattolica sta letteralmente cadendo a pezzi. L’ architettura è marcatamente europea: strade e vicoli sbucano in piccole piazzette per poi ripartire come un’ enorme ragnatela; le case hanno piccoli volti e chiostri e non è raro scoprire spazi in cui s’intravedono ancora i vecchi colori pastello propri delle costruzioni portoghesi. Alcune chiese cattoliche di un bianco immacolato sorgono ancora imponenti , testimoni del passato. Qui è impossibile cancellare la storia, si respira in ogni angolo, anche tra le sacre vacche indiane. I vecchi e nostalgici abitanti della città parlano ancora portoghese, magari mescolandolo con il Gujarati e l’ inglese creando un idioma incomprensibile e unico. Cosi’ parla l’anziano signore che mi ferma sulla porta del suo disordinato negozio invitandomi ad entrare per fare quattro chiacchiere. E’ rimasto l’unico autorizzato dal governo indiano a lavorare ancora l’avorio. Le sue creazioni mi tolgono il fiato: mi meraviglia e mi stupisce che dalle mani di un uomo possa nascere tanta bellezza. Le sue spille e orecchini sono trasparenti alla luce e racchiudono tutti i colori dell’ iride. Non è molto interessato a vendermi qualcosa, non l’avrei mai fatto perché va contro i miei principi, ma la sua voglia di parlare mi stordisce e siedo sopra uno sgangherato sgabello scansando l’antico e polveroso disordine di quel vecchio e dimenticato negozietto ad ascoltare le sue incomprensibili storie. Non ho capito quasi nulla del suo racconto ma sono sicuro di averlo reso felice: “..you are a good listener..” si, a volte è utile essere anche buoni ascoltatori.
Ci salutiamo stringendoci forte la mano e mi faccio inghiottire dai vicoli della piccola città. Compro dei profumatissimi biscotti, apprezzati anche da nugoli di mosche. Per strada è diverso, qui nessuno ti assale per venderti qualcosa, nessun’offerta è strillata dai piccoli negozi, nemmeno al mercato delle verdure; le donne stanno accucciate per terra di fronte alla frutta e alla verdura messe accuratamente in mostra. Nessuno strillo per invitarti a comprare, nessuno strattone: avvolte nei loro sari, che qui hanno come colori dominanti il rosso e l’azzurro, alzano lo sguardo al mio passaggio, sorridono, si accomodano il velo sul capo e continuano nelle loro occupazioni. Il profumo della frutta si mescola prepotente con quello delle spezie. Ne voglio acquistare un po’ ma mi trovo costretto a degli assaggi non proprio voluti…mai un bicchiere di chai è stato così volentieri accettato dalla mia infuocata lingua: le spezie sono “ very strong “ e le mie non sono lacrime di commozione… Il sole alza il bollore dalla strada e mi dirigo verso il parcheggio dei taxi per il ritorno.
Scendo subito in spiaggia, all’ ombra della più vicina palma.
In India non si è mai soli… Un biscotto al sesamo sta dolcemente entrando nella mia bocca quando un fruscio di piedi che calpestano la sabbia mi blocca: senza girarmi so già chi è, ed eccomi qua a dividere, con il mio piccolo amico venditore d’ uova, un pranzo zuccheroso; il cane arriverà tra un po’: anche oggi banchetto in famiglia!
Come tutti i bimbi anche il mio piccolo amico non vedeva l’ora di raccontare ai suoi coetanei la sua amicizia con uno straniero venuto da lontano, e allora? Beh allora alla fine sono accerchiato da dieci piccoli mocciosi che mi guardano incuriositi senza proferire parola… Giungono tutti dal villaggio nascosto dietro le dune di sabbia e vestono solamente di stracci di povertà. Nessuno di loro apre bocca e ti giuro che in quel momento mi sono trovato in imbarazzo: se avessi preso la macchina fotografica avrei scatenato una rissa storica per ricavarsi il posto in prima fila e allora?
Sono sempre stato una mezza calzetta in disegno, il mio professore di scuola mi diceva che usavo la matita come un aratro, andavo meglio in altre materie, ma per il disegno ero totalmente negato ma nonostante ciò estraggo dal mio zaino taccuino e penna e mi appresto a regalare ad ognuno dei bimbi un esclusivo ritratto… I bambini intuiscono subito ciò che ho intenzione di fare, la gioia scaturisce dai loro occhi e riesco a mettere un po’ d’ ordine, a quel gruppo divenuto all’istante chiassoso, solo dall’ alto della mia professionalità…. Docilmente si lasciano toccare mentre sistemo i loro arruffati capelli e li metto in posa ; qui in India è considerato un gesto molto sconveniente toccare la testa dei bambini: non so se religione o credenza popolare ne siano la causa, ma è meglio evitare di farlo; infatti tra le palme scorgo gli occhi vigili delle mamme. Hanno deposto le loro ceste colme di frutti di palma e osservano seriamente le mie intenzioni: i loro occhi incrociano i miei, un piccolo sorriso fa capolino tra le labbra e la tensione si stempera all’istante: posso finalmente iniziare il mio lavoro di novello ritrattista… Il mio ritratto di una figura umana non è mai andato più in la di un cerchio per la testa e cinque linee per disegnare corpo, braccia e gambe. Quel giorno ho messo a profitto tutte le dottrine del mio antico professore e come per magia dalla mia penna escono dieci piccoli ritratti non male. La loro gioia non ha limiti e ho ancora negli occhi la loro lunga corsa verso casa a mostrare a tutti la fotografia nata da una biro… È sicuro che anche il mio proff di disegno sia felice, mi avrebbe guardato sotto le lenti degli occhiali e avrei risparmiato uno scappellotto sulla testa.
Assieme ai bimbi si è volatilizzata anche la mia dolce scorta di biscotti; il carro del sole scende sempre più verso il mare e il mio stomaco reclama: mi dirigo verso il ristorante pregando in cuor mio per una cena discreta.
Il cuoco deve aver intuito che la volta precedente non aveva dato il massimo della sua professionalità e stasera cerca il suo riscatto con delle portate incredibili a base di pesce: avvolti in una pastella deliziosa, immersi in variopinti sughi, il tutto in un mix di spezie degno di uno stregone culinario. Penso che il mio palato abbia avuto un orgasmo gastronomico e così alla fine mi dirigo in cucina a fare i miei complimenti. Sembrava mi aspettasse, lui e l’esercito d’aiutanti. In un caos di pentole, spezie, farine,unto e sconosciute verdure abbiamo parlato di cucina e condimenti: non sarà molto spirituale, ma vado a letto appagato.
Già, il vento sta cambiando: non più dolce brezza rinfrescante, ma violente raffiche spazzano la spiaggia. Oggi non è giornata da mare e su suggerimento d’alcuni viaggiatori mi dirigo in paese per noleggiare un motorino: voglio fare il giro di questa piccola isola.
Il piccolo scooter è marcatamente indiano: il sedile non ha assolutamente imbottitura e prevedo guai per il mio fondo schiena, l’ impianto elettrico dei fanali muore in un fascio indistinto di penzolanti fili screpolati, l’ unica cosa che funziona è il clacson e in cuor mio pregusto già il momento di unirmi al coro degli immancabili strombazzamenti del traffico indiano; ma la cosa che più mi desta preoccupazione è la guida a sinistra! Un conto è essere trasportati e abituarsi lentamente a questo cambio di prospettiva stradale, un altro è navigare in questo caotico traffico dove le regole sono portate via dal vento… Il momento di maggior imbarazzo è quando mi trovo ad affrontare una rotonda: non è facile realizzare in un attimo il diritto di precedenza e allora preferisco fermarmi da un lato, aspettare che non passi nessuno e percorrere veloce l’ incrocio.
Mi avvio su piccole strade e il fragore del traffico svanisce, slanciate palme coprono come un’arcata la strada che attraversa piccoli villaggi e mi porta, con un sinuoso percorso, a lambire il mare. Non c’ è anima viva, il silenzio è strappato solo dalle onde che s’infrangono sulle imponenti rocce. Scendo dal motorino e mi dirigo verso uno spuntone di granito che si prolunga verso il mare, come una terrazza naturale.
Non ho mai avuto timore del vento: lo considero il respiro della terra, il suo alito. A volte caldo e impiccione, a volte gelido e tagliente, a volte devastatore e tragico. M’investe con l’odore forte e aspro del mare, prende e arruffa i pensieri, risveglia sopiti ricordi, porta agli occhi umide e soffocate malinconie. Cosa porterà questo vento? Una ventata d’adeguatezza al presente per quest’immenso paese? Porterà nutrimento e farmaci a chi ne ha bisogno? Porterà ad una crescita equilibrata rispettando la sua storia? Spero solo non porti inadeguatezze appariscenti, spero che questa cultura del presente, a cui non si può sfuggire, non rinneghi il passato. Già, diceva il vecchio, il vento sta cambiando. Aspetto fiducioso che l’avvenire non sia solo in mano a quei “..brutti indiani..”. La new generation indiana non indossa il sari e pochi giovani recano sulla fronte il Tikka della visita al tempio; se fossero soli questi i segni di un cambiamento mi sentirei di accettarli; ma sono ottimisticamente certo che un paio di jeans o una maglietta levis non rinnegherà millenni d’altrettanta profonda cultura… ne cullo la speranza!
Le soste, in piccoli e sperduti posti di ristoro, ripercorrono sempre l’abituale trama: al mio ingresso i presenti si zittiscono all’ istante, mi sento analizzato e valutato fino a che il solito coraggioso del gruppo abbozza un inizio di conversazione. L’inglese, a queste latitudini, è osceno ma do già per scontate le domande e ribatto con le solite prevedibili risposte. Tutto finisce con il solito collettivo sorriso davanti ad una fresca birra e alla fine anche il sedile dello scoppiettante scooter mi sembra più morbido…L’isola è bella da togliere il fiato: attraverso a bassa velocità la gran riserva degli uccelli, scopro baie nascoste inondate solo dall’ immensa quiete, conduco il motorino verso la laguna dove la bassa marea lascia all’ asciutto i vecchi pescherecci. L’ immagine mi ricorda i vecchi quadri anneriti di secoli fa. Anche il mio fondo schiena mi ricorda che, alla sopportazione, tutto ha un limite e dando gas mi avvio a consegnare al noleggiatore questa macchina di tortura su due ruote.
Sono molti giorni che ozio in questo paesino e si avvicina il giorno della mia partenza, non serve consultare l’ agenda: la voglia di casa, e delle persone che mi aspettano, pigramente si sta facendo strada; ho prenotato il posto sul pullman che mi porterà a Mumbay tra due giorni: il viaggio durerà ventiquattro ore…speriamo bene.
Non ho il coraggio di dire nulla al mio piccolo amico commerciante d’ uova sode, ma qualcosa deve aver intuito perché non mi molla un attimo.
Chiuso nella mia stanza sto riempiendo il mio zaino per l’ultimo spostamento. Il mio piccolo amico è ancora a scuola ma ho timore di incontrarlo lo stesso e non scendo in spiaggia; saluto fraternamente il cuoco, ad un cameriere lascio la mia piccola scorta di medicine: pochi giorni prima è venuto a trovarlo la sua splendida moglie e i suoi due ragazzini. Il più piccolo aveva una banale irritazione agli occhi e sono bastate poche gocce di collirio per dargli sollievo. Ora ne avrà per un po’, poi il dio dei bambini spero guardi giù, verso la sua splendida famiglia.
Sono alla stazione degli autobus, seduto sullo zaino, nell’attesa. Il ritardo sfiora quasi le due ore…
Eccolo finalmente. Beh, in vita mia non ho mai visto nulla di simile: all’interno nessun sedile, solo due lunghe file sovrapposte di sbrindellate cuccette. La signora dell’hotel mi ha assicurato una prenotazione comoda… e così mi ritrovo al piano superiore, a trenta centimetri dal soffitto, a guardare di nuovo l’ India dall’ alto!
No, non c’è aria condizionata e non mi posso alzare in piedi per distendere le membra, mi consolo sperando in un lungo sonno cullato dal dondolio del bus, e invece…L’ autista non riesce a percorrere più di una decina di chilometri: improvvisati passeggeri sbucano dai lati della strada e intavolano furiose discussioni con il conducente. Sulle prime non ci capisco nulla, poi un vicino di cuccetta mi spiega che sono solo delle semplici trattative per ottenere uno sconto sul biglietto…Ventiquattro ore? Se va avanti così ci vorranno tre giorni! Cerco di dormire un po’, ma i sobbalzi sono paurosi e mi sbattono da un lato all’altro del mio piccolo loculo. I miei limitrofi compagni di viaggio, tutti indiani, se la stanno prendendo con molta calma: alcuni russano già beatamente, le mamme allattano i loro bimbi senza problemi, altre tirano fuori da capienti borse pentole di riso al curry, ricordandomi, nel caso me lo fossi dimenticato, che sono ancora nel cuore di quest’amata e odiata India. E la vedo sfilare tre metri sotto di me quest’India fatta di poveri cristi che vagano senza apparente meta per le strade, di venditori ambulanti capaci di tenere freschi i gelati in carretti di legno senza frigidair, di venditori di pop corn piccante, pronti a salire sul bus ad ogni minima fermata, di donne che portano a casa l’ acqua con enormi e lucenti brocche sulla testa, di cani abbandonati e destinati a finire sotto qualche camion, di maiali selvatici senza padroni…e poi, poi tutto finisce come per prodigio,un’ immensa e lattiginosa luna sale lenta nel cielo ad illuminare il nulla: il nastro nero d’ asfalto è l’ unica cosa che spezza il biancore sconfinato d’ immense saline…Il nulla, niente alberi o cespugli, niente case, un abbacinante biancore fino all’ infinito; il dondolio del bus e la monotonia del paesaggio conciliano finalmente il mio sonno e mi unisco al tranquillo e rassegnato riposo degli altri passeggeri.
Uno sgangherato rumore di ferraglia mi fa sobbalzare sulla cuccetta: l’autista non riesce più ad ingranare le marce e ad ogni tentativo il motore risponde con dei rumorosi sussulti. Per un po’ andiamo avanti a saltelloni per poi arrestarci inesorabilmente ai lati di una buia e trafficata strada… Il silenzio all’interno dell’ automezzo pubblico è allucinante: nessuno proferisce parola, solo il rumore delle tendine scostate ai lati delle cuccette e occhi interrogativi che cercano chiarimenti nel buio assoluto del bus. Ci sono due autisti e un grasso aiutante: parlottano a bassa voce tra loro, sembra quasi stiano stendendo un comunicato ufficiale e il responso non tarda ad arrivare: “…the friction is broken, we leave again when God will want…”. la frizione è andata e la ripartenza è solo nelle mani di un qualche Dio. Mi guardo attorno ma non noto sguardi disperati o gesti d’impazienza, anzi alcuni si girano e continuano a dormire: beh, una cronaca così non me la perderei per tutto l’ oro del mondo. Il mio topolino bianco mi aiuterà ancora una volta e l’aereo parte solo fra tre giorni: avanti magica India sono pronto a farmi sorprendere ancora una volta, datti da fare, tira fuori il tuo coniglio dal cappello e stupiscimi! Il coniglio non esce, ma dall’ oscurità sbuca, a bordo di una cigolante bicicletta, il meccanico: la frizione nuova sottobraccio, una borsa di nylon da cui escono chiavi di varie misure e una fascia da pirata sulla testa…S’infila sotto il bus e ne sbuca sei ore dopo: unto fin dentro l’anima ma possiamo ripartire. Niente applausi o strette di mano: ognuno risale al suo posto e serenamente si riprendono le chiacchiere iniziate nella lunga sosta. Ora ne faccio parte anch’ io: amico e compagno di sventura. Grazie magica India e grazie ancora piccolo e timido topolino bianco.
Mumbay è vicina, il traffico si anima sempre più. Per giorni nella piccola Diu avevo scordato il tremendo traffico all’ ingresso delle città e ora violentemente sto tornando alla realtà. Sono a pezzi, la schiena mi ricorda ad ogni buca che non ha avuto un bel trattamento nelle ultime ore e uno strato di polvere bianca ricopre ogni centimetro della mia pelle. Non oso pensare in che condizioni possa essere il mio zaino nel bagagliaio. Ci vogliono due ore per attraversare quell’ inferno che è la periferia della città e finalmente saluto l’ autista del bus per infilarmi in un taxi che mi porti veloce all’ hotel: pagherei una cifra folle per una doccia, qui il caldo scioglie le parole in bocca e la polvere sta diventando un pantano che mi ricopre tutto. Il traffico è spaventoso ma il lungo viaggio in bus mi ha insegnato ancor più a prendere le cose con filosofia: mi sprofondo nel sedile e chiudo beatamente gli occhi. Non sento più nemmeno i clacson!
Ecco finalmente l’hotel. Trascino il mio polveroso e irriconoscibile zaino nella hall e noto che nessuno mi aiuta: restano inebetiti a fissarmi. Con la coda dell’occhio vedo la mia immagine riflessa in un grande specchio e resto esterrefatto. La mia barba è esageratamente lunga, sono totalmente ricoperto da una pattina bianca di polvere rigata a tratti dal sudore. Ho prenotato un hotel di livello superiore per non avere sorprese in una metropoli così grande e il personale è abituato di sicuro a ricevere persone leggermente più presentabili di me… Avanzo a piccoli passi, per non alzare la polvere, verso il bancone della reception e allungo il mio passaporto allo stupito impiegato. Dopo aver controllato più volte la mia prenotazione e il mio luogo di provenienza si affretta a dare ordini e in un attimo mi trovo circondato da un nugolo d’inservienti che mi accompagnano solerti alla mia sospirata stanza. La doccia porta finalmente nello scarico chili di polvere e tanta, tanta stanchezza.
India, India… alla prossima…