Il Grande Campo si trasforma

La “Città di feltro”, dalla sterminata distesa di migliaia e migliaia di ger – la tradizionale tenda dei nomadi mongoli, fatta, appunto di feltro –, l'Ikh Khuree o “Il grande campo”: una città che non esisteva, un compromesso tra l'anima nomade di un popolo, abituato a scorrazzare liberamente per gli ampi spazi delle immense steppe...
Scritto da: francocavalleri
il grande campo si trasforma
Partenza il: 01/10/2008
Ritorno il: 13/10/2008
Viaggiatori: da solo
Spesa: 1000 €
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La “Città di feltro”, dalla sterminata distesa di migliaia e migliaia di ger – la tradizionale tenda dei nomadi mongoli, fatta, appunto di feltro –, l’Ikh Khuree o “Il grande campo”: una città che non esisteva, un compromesso tra l’anima nomade di un popolo, abituato a scorrazzare liberamente per gli ampi spazi delle immense steppe dell’Asia Centrale e della Siberia, e un regime – quello comunista – che necessitava di città e operai per imporre il proprio dominio. Questo era Ulaanbaatar. Almeno fino a ieri. Oggi, è una capitale di livello internazionale, che si propone come centro finanziario e congressuale, motore dell’espansione economica e culturale di una macroregione che copre, l’Asia centrale, l’Asia settentrionale, la Siberia. Fondata nel 1778, Ulaanbaatar, capitale della Mongolia, per lungo tempo ha mantenuto un carattere di “città che non esiste”, ben evidenziato anche dai nomi che l’hanno contraddistinta nella sua ancora breve storia. Il nome con cui la conosciamo oggi le è stato dato, in realtà, soltanto nel 1924. Con la proclamazione della Repubblica Popolare, la Mongolia divenne il secondo paese comunista al mondo. Per celebrare l’evento, e in ossequio alla mitologia rossa imperante in quegli anni, la città fu ribattezzata “L’Eroe rosso”, Ulaanbator secondo la trascrizione in uso fino a metà degli anni Ottanta. La presenza sovietica era destinata a durare fino al 1990, e ha segnato profondamente l’assetto urbanistico e architettonico della città. Lo stesso concetto di città era fondamentalmente estraneo alla cultura di un popolo che viveva nelle ger e si spostava di continuo, seguendo ritmi antichi dettati dall’alternarsi delle stagioni e dalle necessità degli animali. Ma il comunismo è un regime urbano, si nutre di città, case, palazzi, industrie ed operai: ecco, quindi, la costruzione della capitale, secondo il modello comunista caratterizzato da enormi, brutti e del tutto anonimi edifici residenziali organizzati in quadrilateri con un grande cortile interno, che serve allo stesso tempo da parcheggio, piazza e campo giochi per i più piccoli. Gli edifici pubblici sono anch’essi di grandi dimensioni, squadrati, pesanti nell’aspetto, ricchi di ornamenti e orpelli la cui unica funzione è celebrare la grandezza del regime e del comunismo. Ulaanbaatar diventa una città in perfetto stile sovietico. Una delle tante che, anonime e invivibili, costellano il territorio dell’USSR e dei paesi satelliti. Oggi non è più così. Diciotto anni dopo la rivoluzione che ha segnato la fine del comunismo nel Paese e, allo stesso tempo, l’inizio di un periodo di transizione verso la democrazia molto lungo e, spesso, doloroso, Ulaanbaatar si sta dando un nuovo volto, un nuovo carattere. La città vuole proporsi come centro finanziario e congressuale per Asia Centrale e del Pacifico, e per raggiungere questo obiettivo ha avviato un processo di completo rifacimento del suo assetto urbanistico e della sua architettura. Il centro della capitale mongola si è arricchito di veri e propri grattacieli, realizzati secondo i più moderni criteri edilizi. Molti altri stanno sorgendo o sono in progettazione. Edifici caratterizzati da linee eleganti, leggere, che si innalzano verso il cielo sempre blu della Mongolia, e in esso si riflettono fino a fondervisi e diventare tutt’uno. Nulla da invidiare ai palazzi che adornano le altre grandi metropoli asiatiche. D’altronde, molti di questi progetti portano la firma dei grandi studi di architettura di Shangai, Seoul, Tokio. Probabilmente, tra gli architetti e gli ingegneri che hanno lavorato a questi progetti ci sono anche diversi italiani. Non solo uffici e centri finanziari. La città ha voltato pagina anche per quanto riguarda l’edilizia residenziale. Al posto del modello di stampo sovietico, nuovi palazzi, dalle linee e dalle caratteristiche moderne, più confortevoli e vivibili. Il lato negativo di questo cambiamento è il sacrificio di spazi comuni come il cortile interno, punto di aggregazione per le numerose famiglie alloggiate in questi grandi palazzi. Spazi ad uso collettivo, e la nuova Ulaanbaatar vuole dimenticare ogni forma di collettivismo, non importa a cosa fosse destinata. La qualità dei materiali è più elevata rispetto al passato. Tanto è vero che, nei nuovi cantieri, lavora quasi esclusivamente manodopera cinese: offrono il doppio vantaggio di essere specializzati e di costare di meno degli operai locali. Si tratta anche di una sorta di contropartita con la Cina: dal grande vicino provengono i materiali per le costruzioni, a prezzi compatibili con il mercato locale: i sanitari costano 70-80$, la pietra dura per il pavimento 100$ al metro quadro. Con il materiale, la Mongolia importa anche operai e tecnici cinesi: un modo, per il governo di Pechino, di soddisfare la grande fame di lavoro della sua popolazione. I prezzi? Fino a 2500$ al metro quadro, per un appartamento in uno dei palazzi più belli e centrali. Quelli destinati alle grandi istituzioni finanziarie, le banche, le società internazionali che si sono installate a Ulaanbaatar per approfittare del nuovo boom economico e culturale. Appartamenti fuori dal centro, meno prestigiosi, possono scendere fino a 900$ per un metro quadro. Prezzo comunque elevato, per la maggioranza della popolazione mongola. Con stipendi nell’ordine di 200$ al mese, non è facile far quadrare i conti della famiglia e, allo stesso tempo, mettere da parte i soldi per l’acquisto di una casa nuova.


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